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La risicoltura ed il Fascismo negli anni '20

• Premessa: una breve sintesi dei caratteri della risicoltura nel XIX  secolo.

La risicoltura costituisce un caso a parte nel più generale contesto delle scelte di produzione e di legislazione effettuate nel corso del Ventennio fascista. Tentiamone perciò una breve storia retrospettiva per meglio cogliere le novità di gestione di questo settore produttivo da parte del Fascismo.

Una caratteristica peculiare della risicoltura è quella di consentire una resa produttiva del 10,4%; pur occupando - a livello percentuale - solo l’1,9% della produzione cerealicola nazionale, con un notevole impiego di manodopera fissa e avventizia, ( quest'ultima formata ogni anno da circa 400.000 persone ) e un notevole accumulo di capitale, sia fisso sia circolante. Essa è concentrata in poche aree del Nord Italia con particolarità morfologiche sia spontanee che indotte;  consente una produzione di qualità che riveste grande importanza nell’esportazione ( circa il 3 % del traffico risiero internazionale e 13 % di quello europeo). La risicoltura pertanto costituisce la principale fonte di reddito per le aziende agrarie della “bassa pianura” di Piemonte e Lombardia.

Nell’età post – unitaria lo Stato si limita a creare le condizioni favorevoli e a rimuovere gli ostacoli che si oppongono allo sviluppo del settore, senza svolgere una funzione di progettazione economica. Il primo concreto intervento si registra in concomitanza con la svolta protezionistica di fine Ottocento ( 1887 e 1889 ), quando le tariffe del riso italiano vengono aumentate per tutelare il prodotto dalla concorrenza dei risi asiatici agevolati dall’apertura del Canale di Suez e dalla diminuzione dei noli marittimi, che avevano causato una crisi nelle esportazioni con punta massima nel 1884. Aggravatasi però la crisi per un’epidemia di brusone, dagli Anni ’90 si effettuano interventi energici, quali ad esempio la diminuzione delle aree coltivate e l’introduzione della varietà Chinese originario, meno pregiato ma più resistente alle malattie e capace di aumentare le rese. Inoltre sono introdotti criteri di rotazione agraria che lasciano spazio anche a produzioni di frumento e foraggio.

Il superamento della crisi si ha intorno al 1895, quando la produzione risicola è ormai ristretta al Vercellese, alla Lomellina, al Novarese, al Pavese e ad aree minori del Veneto e dell' Emilia; il settore fornisce risi ampiamente esportati ma di minor pregio rispetto al passato.

All’entrata in guerra dell’Italia, sono posti limiti all’esportazione; inizia un periodo in cui si cerca di integrare gli interessi dello Stato con quelli del capitale. Negli anni della guerra la produzione di riso è l’unica produzione cerealicola che aumenta, anche se di poco; l’aumento è però dovuto allo sfruttamento intensivo (“di rapina”) dei terreni, ampliati attraverso deroghe di varia natura, anche in materia di igiene, sanità e ambiente. Liberalizzata la produzione, il Sottosegretariato agli approvvigionamenti e consumi, interviene in materia di prezzi e vendite: lo Stato instaura un regime di monopolio , sia per le sementi sia per i prodotti, requisendo e fissando i prezzi ai produttori. Inoltre le esigenze di approvvigionamento alimentare fanno cadere ogni forma di protezionismo sulle importazioni dall’estero.

Il primo dopoguerra è l’epoca della rivolta di operai e contadini; in ambito agricolo si riscontra una contrazione della terra coltivata a riso e, conseguentemente, del prodotto.

•  I sindacati di pilatori e risicoltori. Il Consorzio nazionale per il riso ( 1919 )

Dagli anni ’20 si diffonde l’idea che per rilanciare la produzione risicola occorra smantellare il sistema di precettazioni, requisizioni, calmieri e vincoli commerciali introdotti all’epoca del conflitto, ma i primi cambiamenti non si attuano prima del 1921, anche perché gli interessi agrari si sono nel frattempo ben compenetrati con l’azione dello Stato. Ad esempio con l’azione di Commissioni militari che, attive dal 1917, provvedono a far raccogliere il riso necessario per esercito e popolazione civile a prezzi ufficialmente calmierati, ma spesso molto convenienti a grandi agricoltori. Spesso, inoltre, le cifre versate come acconto non venivano poi defalcate dal totale versato a saldo. Si ha così un'inchiesta con lo scioglimento delle Commissioni di requisizione e la nascita di una nuova tipologia di interventi statali: si profila la creazione di un Consorzio Italiano per i cereali di cui dovrebbero essere il fulcro gli industriali risieri, col compito anche di provvedere alla lavorazione e distribuzione del prodotto agli Enti preposti alla commercializzazione.

Si creano due sindacati: quello dei pilatori e quello dei risicoltori (Mortara, 1919) cui si dovrebbe devolvere tutta la produzione del greggio e che dovrebbe fissare i prezzi e regolare la distribuzione. Vengono accettati anche i piccoli produttori, purché riuniti tra loro. Alla fine si decide per la costituzione di un organismo misto di agricoltori e pilatori denominata Consorzio nazionale per il riso, controllato dallo Stato attraverso una presidenza di nomina ministeriale. Il prodotto finito doveva essere commercializzato dai Consorzi agrari provinciali. Una struttura analoga si ha solo nel settore lattiero – caseario.

Attraverso queste strategie lo Stato disciplina il settore fissando i prezzi, le modalità di vendita, la quantità della produzione e verificando la realizzazione degli obiettivi. Tuttavia la creazione del Consorzio non riequilibra il divario fra agricoltura e industria: quest’ultima prende rapidamente il sopravvento. Il primo Ufficio di presidenza è formato da Novelli, direttore della Stazione sperimentale di risicoltura e alla vicepresidenza Sacchi e Lanzirotti, il primo dell’associazione pilatori, l’altro del Sottosegretariato all’approvvigionamento.

Il primo anno di gestione tutto va bene , ma tra il 1920 e il 1921 le cose peggiorano, tanto che viene chiesto lo scioglimento dell’Ente con successiva istituzione di una Commissione giudicatrice sullo “scandalo del riso”. Infine il comitato per le esportazioni decide per la liberalizzazione dell’esportazione del prodotto in esubero rispetto al fabbisogno, il che consente una ripresa del mercato già nel secondo semestre del 1921.

•  Gli anni Venti e l'avvento del fascismo

L’avvento del Fascismo ( 1922 ) coincide con questa fase di ritorno al liberismo che già nel 1924 consente al riso di avere per la prima volta quotazioni ben superiori a quelle del grano.

Fino alla crisi del 1926 - 1927 sono presi i seguenti provvedimenti:
- riduzione del dazio d’introduzione sui risi greggi e semilavorati (’23)
- esenzioni tariffarie per l’importazione di glucosio e olio di vaselina usati per la brillatura del riso (’25). Sembra che ad avvantaggiarsene siano gli ambienti industriali poiché la liberalizzazione delle esportazioni riguarda solo il lavorato e il semilavorato.

Si accumulano ingenti capitali nel mondo pilatoriale che, però, non gravitano su Vercelli, Novara, Pavia, ma su Milano, dove viene istituita una delle pochissime “Borse a termine” del mondo e, in via subordinata, Bologna, Vercelli, Mortara. Fino al 1927 gli impianti proliferano senza controllo, fino a superare le possibilità di assorbimento del mercato. Non si era infatti tenuto conto che la crescita della domanda negli anni della guerra aveva coinvolto tutti i Paesi produttori, portando la risicoltura in vetta alla cerealicoltura su scala mondiale. L’Italia si doveva perciò misurare con la nuova concorrenza dei risi giapponesi, nordamericani, spagnoli ed egiziani ormai presenti sui mercati tedeschi, inglesi, francesi e, sul mercato del Sud America, dei risi brasiliani. Inoltre la Spagna era avvantaggiata dalla svalutazione della peseta, mentre gli USA commercializzavano risi di alta qualità a prezzi superiori (cfr. il Blue Rose, migliore rispetto agli Originari italiani e diffuso in tutto il Sud America). E Paesi tradizionalmente acquirenti avevano iniziato una loro produzione nazionale, come ad esempio la Francia e l’Argentina.
Gli agrari chiedono di liberalizzare la vendita del prodotto grezzo, mentre gli industriali o si oppongono decisamente, o suggeriscono di avviare trattative per la revisione dei trattati commerciali italo – francesi affinché i dazi siano mitigati.
Si registrano interessi molto conflittuali.

Dal 1926 in poi i prezzi calano e nel 1927 la parziale chiusura dei mercati esteri porta ad una eccessiva offerta di risone sul mercato interno e ad un tracollo dei prezzi.
Quando il governo dà vita allo strumento economico “quota 90”, lo inserisce in un contesto di crescita dei prezzi e, perciò, danneggia più il riso che gli altri prodotti padani. Dal 1927 la questione del riso è dibattuta da associazioni di categoria, organismi ministeriali, enti diversi, da cui emerge la proposta di formare intese oligopolistiche sia nel settore della produzione, sia in quello della trasformazione
. Si ricorre alla privatizzazione: nel 1927 i risicoltori si coalizzano nel Consorzio nazionale fascista risicoltori, che però non riesce a garantire una crescita uniforme dei prezzi, e le esportazioni calano fra 1928 e il 1929 riprendendosi solo attraverso un ridimensionamento dei prezzi.

Il 1929 è segnato dal crollo della borsa di Wall Street: all’epoca della grave crisi economica internazionale la risicoltura italiana è già in condizioni poco sicure. La Confederazione nazionale fascista si convince che occorrono misure diverse dalla regolamentazione delle vendite, attraverso un sostegno finanziario indiretto alle singole aziende (cosa effettuata dal credito agrario) ma soprattutto al sistema risiero nel suo complesso, impedendo forme eccessive di concorrenza e giungendo ad una ripartizione del mercato interno strutturata su zone, nell’ambito delle quali ogni azienda potesse vendere. Viene inoltre unificata la rete di distribuzione attraverso la creazione di un ufficio unico di vendita.

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