Testi tematizzati attraverso l'individuazione delle parole-chiave

Guido Guinizzelli

 

 

Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo [cf. Al cor gentil rempaira sempre amore]

Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo

che fate quando v’encontro, m’ancide;

Amor m’assale e già non ha reguardo

s’elli face peccato over merzede

      ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo

      ched oltre ‘n parte lo taglia e divide

[…]

 

In questo sonetto si evidenzia non solo uno dei motivi ricorrenti nella poesia stilnovistica, quale l’opera di ‘ingentilimento’ che la donna compie sugli uomini innamorati grazie al suo manifestarsi (cf. Al cor gentil rempaira sempre amore), ma anche l’angoscia e il turbamento interiore che colpisce il cuore di chiunque s’innamori, quasi un’anticipazione del carattere più tormentato e drammatico della poesia cavalcantiana.

 

 

Io voglio del ver la mia donna laudare [cf. Cavalcanti -> Voi che per li occhi mi passaste il core; Chi è   questa che vèn ch’ogn’om la mira]

Io voglio del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella diana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

[…]

      Passa per via adorna, e sì gentile

      ch’abassa orgoglio a cui dona salute

[…]

 

Anche in questo componimento ricorrono i consueti motivi stilnovistici, quali la lode della donna, il saluto salvifico che essa apporta e il tema del ‘gentil core’. La  donna viene qui intesa come ‘miracolo’ e il poeta  riesce a illustrare i concetti e le emozioni che essa suscita affidandosi a un’ampia scelta di termini di paragone (a differenza di Cavalcanti, che dichiara l’impossibilità del poeta di rappresentare con la parola in modo adeguato le sensazioni che la donna produce con il suo manifestarsi nella ‘mente’ dell’innamorato; cf. Voi che per li occhi mi passaste 'l core e Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira).

 

 

Al cor gentil rempaira sempre amore [cf. Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo; cf. Dante -> Amore e ’l           cor gentil sono una cosa]

Al cor gentil rempaira sempre amore

come l’ausello in selva a la verdura:

né fe’ amor anti che gentil core,

gentil core anti ch’amor, natura:

[…]

e prende amore in gentilezza loco

così propïamente

come calore in clarità di foco.

      Foco d’amore in gentil cor s’aprende

      come vertute in pietra prezïosa,

      che da la stella valor no i discende

      anti che ‘l sol la faccia gentil cosa

[…]

      così lo cor ch’è fatto da natura
      asletto, pur, gentile,
      donna a guisa di stella lo ’nnamora.

Amor per tal ragion sta ‘n cor gentile

[…]

Amore in gentil cor prende rivera

[…]

      dis’ omo alter: “Gentil per sclatta torno”;

      lui semblo al fango, al sol gentil valore;

      ché non dé dar om fé

      che gentilezza sia fòr di coraggio

      in degnità d’ere’

      sed a vertute non gentil core

[…]

e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.

[…]

 

In questa canzone, Guinizzelli insiste sulla corrispondenza tra amore e ‘cor gentil’, sintagma-chiave, nel quale l’aggettivo «gentile» designa quella nobiltà di spirito che si contrappone alla nobiltà di sangue.

L’amore risiede dunque in un cuore gentile (tema che verrà riproposto e sviluppato da Dante nel sonetto Amore e ’l cor gentile sono una cosa), seppure all’inizio solo potenzialmente. Sarà il manifestarsi della donna, causa efficiente dell’innamoramento, a produrre in seguito il passaggio in atto dell’amore.

 

 

 

Guido Cavalcanti

 

 

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira [cf. Perché non fuoro a me gli occhi dispenti; cf. Guinizzelli -> Io         voglio del ver la mia donna laudare; cf. Dante -> Ne li occhi         porta la mia donna Amore; Tanto gentile e tanto onesta pare]

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,

che fa tremare di chiaritate l’âre

e mena seco Amor, sì che parlare

null’omo pote, ma ciascun sospira?

      O Deo, che sembra quando li occhi gira!

      dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:

      cotanto d’umiltà donna mi pare,
      ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.

[…]

 

Cavalcanti riprende in questo sonetto il modello guinizzelliano della lode della donna amata (cf. Io voglio del ver la mia donna laudare), la cui apparizione produce però conseguenze differenti.  Dapprima essa toglie la parola agli uomini che la vedono; poi il poeta proclama la sua personale impossibilità di descrivere la sensazione prodotta dal suo sguardo.

 

 

Perché non fuoro a me gli occhi dispenti [cf. Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira]

Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
o tolti, sì che de la lor veduta
non fosse nella mente mia venuta
a dir: «Ascolta se nel cor mi senti?
      Ch’una paura di novi tormenti
      m’aparve allor, sì crudel e aguta,
      che l’anima chiamò: «Donna, or ci aiuta,
      che gli occhi ed i’ non rimagnàn dolenti!
Tu gli ha’ lasciati sì, che venne Amore
a pianger sovra lor pietosamente,
tanto che s’ode una profonda voce
      la quale dice: – Chi gran pena sente
      guardi costui, e vederà ’l su’ core
      che Morte ’l porta ’n man tagliato in croce–».

 

Come in Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira l’apparizione della donna non assume i caratteri di un’esperienza nobilitante, ma è piuttosto un trauma violento, che conduce l’uomo innamorato alla disperazione e alla frammentazione della sua persona.

 

 

Voi che per li occhi mi passaste ’l core [cf. Guinizzelli -> Al cor gentil rempaira sempre amore]

Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.

[…]

      Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
      da’ vostr'occhi gentil’ presta si mosse:
      un dardo mi gittò dentro dal fianco.
Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto

che l’anima tremando si riscosse

veggendo morto ’l cor nel lato manco.

 

È il sonetto che descrive il processo dell’innamoramento, al cui principio vi è il phantasma della donna, l’immagine mentale che si forma grazie alla sua visione e resta impressa nel ricordo anche quando l’oggetto non è più presente agli occhi. In Cavalcanti, la mente non è da intendersi come sede della conoscenza razionale, ma è luogo del ricordo e dell’immaginazione, legato strettamente a immagini sensibili. Pertanto, che l’amore si desti nel cuore come in Guinizzelli (cf. Al cor gentil rempaira sempre amore) o nella mente come in Cavalcanti non fa molta differenza.

 

 

 

Dante Alighieri [Vita Nuova]

 

 

Amore e ’l cor gentil sono una cosa [cf. Guinizzelli -> Al cor gentil rempaira sempre amore]

Amore e ’l cor gentil sono una cosa

sì come il saggio in suo dittare pone

[…]

      Falli natura quand’è amorosa,

      Amor per sire e ’l cor per sua magione

[…]

Bieltate appare in saggia donna pui,

che piace a li occhi sì, che dentro al core

nasce un disio de la cosa piacente;

      e tanto dura talora in costui,

      che fa svegliar lo spirito d’Amore.

      E simil face in donna omo valente.

 

Il sonetto guinizzelliano Al cor gentil rempaira sempre amore fa da modello alla nuova poetica della lode, grazie alla quale Dante riesce a superare la visione cupa e tormentata di Cavalcanti. La donna viene definita ‘cosa piacente’, sintagma che sembra risalire all’etimo latino causa, considerando la funzione di causa efficiente che la donna assume nel determinare il passaggio dell’amore dalla potenza all’atto. Interessante è inoltre l’uso degli aggettivi che sottolineano le qualità degli individui nel quale il sentimento d’amore si manifesta. Oltre al «gentil» del primo verso, per due volte ricorre l’aggettivo “saggio”: all’inizio, in forma sostantivata, con riferimento a Guinizzelli, maestro nell’unire all’arte la sapienza; poi con riferimento alla donna capace di suscitare l’amore. A “saggio” corrisponde il «valente» dell’ultimo verso, con cui è designato l’uomo degno di suscitare l’amore nella donna.

 

 

Ne li occhi porta la mia donna Amore [cf. Cavalcanti -> Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira]

Ne li occhi porta la mia donna Amore,

per che si fa gentil ciò ch’ella mira;

ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,

e cui saluta fa tremar lo core

      sì che, bassando il viso, tutto smore,
      e d’ogni suo difetto allor sospira:
      fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
      Aiutatemi, donne, farle onore.

Ogne dolcezza, ogne pensero umile

nasce nel core a chi parlar la sente,
ond’è laudato chi prima la vide.
      Quel ch’ella par quando un poco sorride,
      non si pò dicer né tenere a mente,
      sì è novo miracolo e gentile.

 

Dante recupera qui temi più propriamente cavalcantiani (cf. Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira), quali l’ineffabilità della bellezza femminile e l’incapacità della «mente» di comprenderla. Tuttavia, i presupposti filosofici della lirica dantesca sono completamente diversi. Infatti, Dante attribuisce a un termine quanto mai tradizionale della lirica amorosa quale «sospira» un significato nuovo, lontano dall’accezione tipica di turbamento da parte dell’amante: in questo caso si muta nell’animo del peccatore in consapevolezza della propria imperfezione spirituale. I materiali della lirica cortese si fondono così con quelli della cultura cristiana.

 

 

Tanto gentile e tanto onesta pare [cf. Cavalcanti -> Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira]

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven tremando muta,

e li occhi no l’ardiscon di guardare.

      Ella si va, sentendosi laudare,
      benignamente d’umiltà vestuta;
      e par che sia una cosa venuta
      da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ’ntender no la può chi no la prova:

      e par che dalle sue labbia si mova

      un spirito soave pien d’amore,

      che va dicendo a l’anima: Sospira.

 

Con il superamento della concezione di amore come angoscia tipica di Cavalcanti (cf. Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira), Dante ripropone in questo sonetto l’equazione donna amata=miracolo, gli effetti straordinari del suo saluto e l’ineffabile docezza che il suo sguardo produce. Lo stilo de la loda raggiunge il culmine, diventando quasi contemplazione estatica. Anche in questo sonetto, come nel precedente Ne li occhi porta la mia donna Amore, il tema dei sospiri è presentato in una luce diversa dal consueto: Dante aveva infatti chiarito che chiunque veda passare Beatrice «sospira» non già per semplice desiderio, ma per il pentimento di ogni proprio «difetto» in confronto a una creatura così spiritualmente elevata (si manifesta così la natura angelica di Beatrice, e la sua funzione di mediatrice tra il cielo e la terra).

 

 

Oltre la spera che più larga gira

Oltre la spera che più larga gira

passa ’l sospiro ch’esce del mio core:

intelligenza nova, che l’Amore

piangendo mette in lui, pur su lo tira.

      Quand’elli è giunto là dove disira,

      vede una donna, che riceve onore,

      e luce sì, che per lo suo splendore

      lo peregrino spirito la mira.

Vedela tal, che quando ’l mi ridice,

io no lo intendo, sì parla sottile

al cor dolente, che lo fa parlare.

      So io che parla di quella gentile.

      però che spesso ricorda Beatrice,

      sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care.

 

In quest’ultimo sonetto della Vita Nuova, si completa la trasfigurazione di Beatrice fra i beati. Il sospiro-pensiero del poeta riesce a elevarsi fino all’Empireo, dove ha la visione della donna amata. Poi, tornato presso il cuore, gli riferisce la sua visione, parlando però in modo così profondo che il cuore-poeta può intendere soltanto il nome di Beatrice. È il topos della ineffabilità delle più alte esperienze mistiche, che Dante riproporrà nel Paradiso.