I. Calvino - Le città invisibili



Magritte,



Rene Magritte, Golconde

 


"Le città invisibili" è un resoconto di viaggi attraverso città che non trovano posto in nessun atlante. E ogni città si chiama ognuna con un nome di donna. A leggere il libro gli aromi che si distinguono sono quelli d'un oriente favoloso, quasi da "Mille e una notte" che poi si mescolano con una suggestione senza pari con le megalopoli d'oggi.
Da un capitolo all'altro, da un poemetto in prosa o apologo, è come se Calvino tracciasse una rotta, o meglio rintracciasse il senso d'un percorso, d'un viaggio. Forse dell'unico viaggio ancora possibile: quello che si svolge all'interno del rapporto tra i luoghi e i loro abitanti, dentro i desideri e le angosce che ci portano a vivere le città.
Un brano breve fa intuire la caratterizzazione dell'intero discorso..


Le città e i morti

Ciò che fa Argia diversa dalle altre città è che invece d'aria ha terra.
Le vie sono completamente interrate, le stanze sono piene d'argilla fino al soffitto, sulle scale si posa un'altra scala in negativo, sopra i tetti delle case gravano strati di terreno roccioso come cieli con le nuvole. Se gli abitanti possono girare per la città allargando i cunicoli dei vermi e le fessure in cui s'insinuano le radici, non lo sappiamo: l'umidità sfascia i corpi e lascia loro poche forze; conviene che restino fermi e distesi, tanto è buio.
Di Argia, da qua sopra, non si vede nulla; c'è chi dice: <...> e non resta che crederci; i luoghi sono deserti. Di notte, accostando l'orecchio al suolo, alle volte si sente una porta che sbatte.

tratto da
http://www.pagine70.com/vmnews/wmview.php?ArtID=165
 

da Le Citta' invisibili

Kublai e Polo

Il Gran Kan possiede un atlante dove tutte le città dell'impero e dei reami circonvicini sono disegnate palazzo per palazzo e strada per strada, con le mura , i fiumi, i ponti, i porti, le scogliere. Sa che dai resoconti di Marco Polo è inutile aspettarsi notizie di quei luoghi che del resto ben conosce: come a Cambaluc, capitale della China, tre città quadrate stiano l'una dentro l'altra, con quattro templi ognuna e quattro porte che s'aprono seguendo le stagioni; come all'isola di Giava infuri il rinoceronte alla carica col corno micidiale; come si peschino le perle in fondo al mare sulle coste di Mahabar. Kublai domanda a Marco:- Quando ritornerai al Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me? - Io parlo parlo, - dice Marco, - ma chi m'ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero dai pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d'avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio.
 Alle volte mi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sono prigioniero d'un presente vistoso e invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro ciclo e non si può immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città vivevano, e per cui forse, dopo morte, rivivranno.
Il Gran Kan possiede un atlante i cui disegni figurano l'orbe terracqueo tutt'insieme e continente per continente, i confini dei regni più lontani, le rotte delle navi, i contorni delle coste, le mappe delle metropoli più illustri e dei porti più opulenti. Ne sfoglia le carte sotto gli occhi di Marco Polo per mettere alla prova il suo sapere. Il viaggiatore riconosce Costantinopoli nella città che incorona da tre rive un lungo stretto, un golfo sottile e un mare chiuso; ricorda che Gerusalem sovra duo colli è posta, d'impari altezza, e volti fronte a fronte; non esita nell' indicare Samarcanda e i suoi giardini.  Per altre città fa ricorso a descrizioni tramandate di bocca in bocca, o tira a indovinare basandosi su scarsi indizi: così Granada, iridata perla dei Califfi, Lubecca, lindo porto boreale, Timbuctù che nereggia d'ebano e biancheggia d'avorio, Parigi dove milioni d'uomini rincasano ogni giorno impugnando un filone di pane. In miniature colorate l'atlante raffigura luoghi abitati di forma insolita: un'oasi nascosta in una piega del deserto da cui spuntano solo le cime delle palme è di sicuro Nefta; un castello tra le sabbie mobili e le mucche che brucano prati salati dalle maree non può non ricordare il Monte San Michele; e non può essere che Urbino un palazzo che anziché sorgere dentro le mura d'una città contiene una città tra le sue mura. L'atlante raffigura anche città di cui né Marco né i geografi sanno se ci sono e dove sono. Ma che non potevano mancare tra le forme di città possibili: una Cuzco a pianta raggiata e multipartita che riflette l'ordine perfetto degli scambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dalla reggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bulbo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nuvoloso del mondo. Anche per queste Marco dice un nome, non importa quale , e accenna a un itinerario per andarci. SI sa che i nomi dei luoghi cambiano tante volte quante sono le lingue forestiere; e che ogni luogo può essere raggiunto da altri luoghi, per le strade e le rotte più diverse, da chi cavalca carreggia remavola.
- Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull'atlante che a visitarle di persona, - dice a Marco l'imperatore richiudendo il libro di scatto.
E Polo: - Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti. Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell'assortimento di qualità che sono come le lettere del nome.
Il Gran Kan possiede un atlante in cui sono raccolte le mappe di tutte le città: quelle che elevano le loro mura su salde fondamenta, quelle che caddero in rovina e furono inghiottite dalla sabbia, quelle che esisteranno un giorno e al cui posto ancora non s'aprono che le tane delle lepri. Marco Polo sfoglia le carte, riconosce Gerico, Ur, Cartagine, indica gli approdi alla foce dello Scamandro, dove le navi achee per dieci anni attesero il reimbarco degli assedianti, fino a che il cavallo inchiavardato da Ulisse non fu trainato a forza d'argani per le Porte Scee. Ma parlando di Troia, gli veniva d'attribuirle la forma di Costantinopoli e prevedere l'assedio con cui per lunghi mesi la stringerebbe Maometto, che astuto come Ulisse avrebbe fatto trainare le navi nottetempo su per i torrenti, dal Bosforo al Corno d'Oro, aggirando Pera e Galata. E dalla mescolanza di quelle due città ne risultava una terza che potrebbe chiamarsi San Francisco e protendere ponti lunghissimi e leggeri sul Cancello d'Oro e sulla baia, e arrampicare tramvai a cremagliera per vie tutte in salita, e fiorire come capitale del Pacifico di lì a un millennio, dopo il lungo assedio di trecento anni che porterebbe le razze dei gialli e dei nei e dei rossi a fondersi insieme alla superstite progenie dei bianchi in un impero più vasto di quello del Gran Kan.
L'atlante ha questa qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome. C'è la città a forma di Amsterdam , semicerchio rivolto a settentrione, coi canali concentrici: dei Principi dell'Imperatore , dei Signori; c'è la città a forma di York, incassata tra le alte brughiere, murata, irta di torri; c'è la città a forma di Nuova Amsterdam detta anche Nuova York, stimata di torri di vetro e acciaio su un'isola oblunga tra due fiumi, con le vie come profondi canali tutti diritti tranne Broadway.
Il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine delle città. Nelle ultime carte dell'atlante si diluivano reticoli senza principio né fine, città a forma di Los Angeles, a forma di Kyoto-Osaka, senza forma.


Commenti critici e presentazioni dell'opera

E’ lo stesso Calvino, ad una conferenza tenuta alla «Columbia University di New York», nel marzo del 1983, a fornirci la genesi de Le città invisibili, romanzo che oscilla fra il racconto filosofico e quello fantastico-allegorico. In origine erano ricordi di viaggi, in gran parte memorie di città visitate, annotazioni spesso poetiche di impressioni ricevute in un dato momento e in un certo luogo, a seconda degli stati d’animo dello scrittore. Ecco, dunque, materializzarsi su carta evocazioni di città tristi e di città contente, città dal cielo stellato e città piene di spazzatura, insomma spazi, sensazioni, genti diverse e loro passioni, fissate solo su cartelle, come un diario a fogli liberi.

«Ma tutte queste pagine insieme non facevano ancora un libro», confessa infatti l’autore nella stessa conferenza. Immagina allora che un grande viaggiatore, il più grande della letteratura, Marco Polo, presenti a Kublai Kan, imperatore dei Tartari, una serie di relazioni sui suoi viaggi in Estremo Oriente, ognuna delle quali introdotta da un dialogo in corsivo fra i due. Prende così corpo l’intera struttura dell’opera che, infine, comprende cinquantacinque descrizioni di città, tutte con nome di donna. Queste sono suddivise in undici percorsi tematici, ognuno dei quali contiene cinque descrizioni di città.

Per comprendere la complessa natura di quest’opera occorre ricordare che essa è stata scritta da Calvino durante la prima parte (1964 - 1970) del suo lungo periodo parigino, e pubblicata nel 1972. In quegli anni egli risentì delle turbolenze del clima culturale francese, in particolare di quegli scrittori sperimentali che diedero poi vita allo “strutturalismo”, corrente letteraria che tendeva a ridurre la complessità del mondo e dei suoi eventi fisici in figure ed emblemi, con la conseguenza che la scrittura si sganciava da ogni rapporto con la realtà. Ne Le città invisibili non c’è infatti traccia di realtà, tutto è mentale, perfino lo spazio ed il tempo sono rarefatti, astratti.

Ma il lettore non viene mai abbandonato: i titoli dei percorsi tematici del libro (Le città e la memoria, Le città e il desiderio, Le città e i segni, ecc.) e le singole, brevi narrazioni lo guidano nel suo cammino di lettura come un faro nella notte e lo portano per mano verso riflessioni ed interrogativi sulla valenza simbolica di ogni singolo scritto che certo non è prerogativa comune alla narrativa tradizionale. Come non sono comuni quest’opera ed il suo autore, eccezionale romanzo atipico d’un genio letterario contemporaneo.

da http://www.italialibri.net/opere/cittainvisibili.html

Ecco dunque la descrizione delle città, lo schedario sempre incompiuto, il catalogo vaneggiante dell’immenso impero: sogni, non però fatti veramente dormendo, ma costruiti a mente sveglia. Si avvicinano specialmente a una categoria di sogni, la più assillante. E’ quella in cui si cerca impossibili congiunzioni tra un oggetto concreto (una barca, una foglia, un pezzo di sapone) e un concetto astratto imprendibile. O di usare sensazioni e oggetti come termini per risolvere un astruso problema che non riusciamo a formulare. Ritmi ragionativi in folle si sforzano vanamente di abbarbicarsi alle cose. (Penso che la scienza dei sogni, intesa come mezzo per penetrare tra i meccanismi del cervello, sia ancora ai primi passi). […]

Giudo Piovene Sogno_ apologo di Italo Calvino. Città invisibili, ne “La Stampa”, 14 dicembre 1972.

Egli può comporre soltanto qualcosa che contamini il racconto e il poema in prosa, l’allegoria metafisica e la parabola morale, il gioco dispersivo e la miniatura, e inseguire verità dalle mille facce, attorno alle quali getta non un corpo, ma una veste vaga e allusiva. Appena leggiamo una di queste prose, crediamo di aver sotto gli occhi una “forma chiusa”, dal contorno netto, dalla linea precisa, dallo stile che tenta di imitare lo splendore della gemma e dell’onice. Ma è sol un inganno, uno dei molti di questo libro. Subito dopo, ci accorgiamo come Calvino detesti sempre più l’ostinata caparbia della linea retta. Egli preferisce ad ogni cosa l’intreccio delle linee, che congiungono tra loro i punti più lontani del mondo - un vecchio imperatore che sfoglia le inutili mappe del suo atlante, una giovane ostessa che solleva un piatto di ragù sotto una pergola, un cavaliere felice di aver saltato l’ultima siepe, il riflesso delle perle in fondo al mare di Malabar, un francolino che fugge felice dalla gabbia negli spazi del cielo. […]

Pietro Citati “Le città invisibili” di Italo Calvino. Parabola morale e allegoria metafisica, ne “Il Giorno”, 6 dicembre 1972, p. 10.


Commenti di Italo Calvino sull'opera

«
Per qualche tempo mi veniva da immaginare solo città tristi e per qualche tempo solo città contente; c'è stato un periodo in cui paragonavo le città al cielo stellato, ai segni dello zodiaco, e in un altro periodo invece mi veniva sempre da parlare della spazzatura che dilaga fuori dalle città ogni giorno. Era diventato un po' come un diario che seguiva i miei umori e le mie riflessioni: tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: i libri che leggevo, le esposizioni d'arte che visitavo, le discussioni con gli amici. Ma tutte queste pagine insieme non facevano ancora un libro. Un libro (io credo) è qualcosa con un principio e una fine (anche se non è un romanzo in senso stretto), è uno spazio in cui il lettore deve entrare, girare, magari perdersi, ma a un certo punto trovare un'uscita, o magari parecchie uscite, la possibilità d'aprirsi una strada per venirne fuori
».
(da Lezioni americane - conferenza tenuta alla Columbia University)

«
Fin da principio avevo messo in testa a ogni pagina il titolo d'una serie: Le città e la memoria, Le città e il desiderio, Le città e i segni; una quarta serie l’avevo chiamata Le città e la forma, titolo che poi si rivelò troppo generico e finì per essere spartito tra altre categorie. Per un certo tempo, andando avanti a scrivere città, ero incerto se moltiplicare le serie, o restringerle a pochissime (le prime due erano fondamentali), o farle sparire tutte. Tanti pezzi non sapevo come classificarli e allora cercavo delle definizioni nuove. Potevo fare un gruppo delle città un po' astratte, aeree, che finii per chiamare Le città sottili. Alcune potevo definirle Le città duplici, ma poi mi venne meglio distribuirle in altri gruppi. Altre serie, per esempio Le città e gli scambi e Le città e gli occhi […] non le avevo previste: sono saltate fuori all'ultimo, redistribuendo pezzi che avevo classificato altrimenti, soprattutto come "memoria" e "desiderio" »

«Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d'un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell'economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s'apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici ».

"Un simbolo più complesso, che mi ha dato le maggiori possibilità di esprimere la tensione tra razionalità geometrica e groviglio delle esistenze umane è quello delle città.
Il mio libro in cui credo d'aver detto più cose resta Le citta invisibili, perchè ho potuto concentrare su un unico simbolo tutte le mie riflessioni, le mie esperienze, le mie congetture; e perchè ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate.
Nelle
Città invisibili
ogni concetto e ogni valore si rivela duplice: anche l'esattezza. Kublai Khan a un certo momento impersona la tendenza razionalizzatrice, geometrizzante o algebrizzante dell'intelletto e riduce la conoscenza alla combinatoria dei pezzi di scacchi d'una scacchiera: le città che marco Polo gli descrive con grande abbondanza di particolari, egli le rappresenta con una o un'altra disposizione di torri, alfieri, cavalli, re, regine, pedine, sui quadrati bianchi e neri. La conclusione finale a cui lo porta questa operazione è che l'oggetto delle sue conquiste non è altro che il tassello di legno sul quale ciascun pezzo si posa: un emblema del nulla... "(*)

tratto da  http://www.italialibri.net/opere/cittainvisibili.html
 

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