G. Leopardi - La luna, muta testimone del dramma umano
 Canto notturno di un pastore errante dell'Asia


La composizione è forse la più filosofica ed argomentante dei Grandi idilli, contrassegnati in gran parte dal ricorrente mito di Recanati. Il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia ripropone un tipo di ambientazione caro a Leopardi ed ampiamente sperimentato nelle Operette morali. Un semplice uomo sta a contatto con la muta Natura, presenza viva e apparentemente amica, tanto che sembra invitare ad un dialogo. La luna perde la sua funzione di contesto suggestivo ad una sensazione, ad un ricordo e diventa referente personificata di un immaginario colloquio sulle ragioni dell'esistere.

Il poeta - sotto le spoglie di un solitario pastore, che vaga nelle steppe asiatiche con il suo gregge - di fronte alla ferma luce della luna, che tenacemente lo segue in tutti i suoi spostamenti, si abbandona ad un canto quasi implorante. Esso suona come illusoria richiesta di aiuto alla Natura, poiché le domande sul senso del vivere, rivolte alla tacita, splendente divinità lunare rimarranno senza risposta alcuna.

L'atmosfera si fa metafisica, in quanto diventano preponderanti le connotazioni simboliche del discorso del pastore e la Luna si fa ipotetica depositaria di una saggezza superiore insita nelle leggi dell'universo. Forse l'astro, che testimonia perennità, col suo persistere immancabile nel cielo, conosce il perché del succedersi del tempo e delle stagioni della vita, il perché del dolore umano, il perché della noia, condizione che stimola l'incessante interrogazione degli esseri sul senso del loro esistere. O forse anche questa è un'illusione vana: il destino di ogni essere è nelle mani di leggi meccaniche oscure e del tutto imperscrutabili ( pessimismo cosmico ).
 



Chagall, Solitudine


Canto notturno di un pastore errante dell'Asia
 

Composto a Recanati fra il 22 ottobre 1829 ed il 9 aprile 1830, il canto fu pubblicato nell'edizione del 1831. Probabilmente il Poeta trovò ispirazione da una frase tratta dal "Journal des Savants", che riguardava le abitudini di questi pastori: "Plusieurs d'entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins".


  Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
 

L'interrogazione alla luna, silenziosa presenza e compagna di strada del pastore.
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
 
La metafora della vita come cammino cieco verso la morte
Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
 
Il destino di sventura dell'uomo ed il suo incomprensibile trapasso verso la vecchiaia e la morte.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
spesso quand'io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.
 

La presunta saggezza della luna che conosce il senso recondito della realtà e lo scopo delle forze dell'universo.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
quasi libera vai;
ch'ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? -
 

La greggia felice della sua semplice esistenza a confronto della dolorosa esperienza di vita dell'uomo, contrassegnata dalla noia.

Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
 

Il pessimismo cosmico: in ogni tempo ed in ogni luogo l'essenza del vivere è dolore ed infelicità.

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