La notte tormentosa di Don Rodrigo
I promessi sposi, cap. XXXIII

Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l'uno de' tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d'amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n'eran de' nuovi, e ne mancava de' vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de' più allegri; e tra l'altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.

Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un'arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d'ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l'occhio medico.

- Sto bene, ve', - disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. - Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po' troppo. C'era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno... Levami un po' quel lume dinanzi, che m'accieca... mi dà una noia...!

- Scherzi della vernaccia, - disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. - Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.

- Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta' attento, ve', se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta via presto quel maledetto lume, - riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l'ordine, avvicinandosi meno che poteva. - Diavolo! che m'abbia a dar tanto fastidio!

Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n'andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.

Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l'occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all'agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch'entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s'era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.

Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d'uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n'era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da' rotti si vedevano macchie e bubboni. - Largo canaglia! - gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que' sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl'insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d'avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt'affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que' visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto.

Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo.

L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato, buttato al lazzaretto. E cercando la maniera d'evitare quest'orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all'erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s'accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
 


Questa notte rappresenta per Don Rodrigo il momento più drammatico della propria esistenza e, a differenza degli altri personaggi, Manzoni gli riserva un’esperienza particolare: il sogno, il sogno della propria morte; diversamente dagli altri personaggi il dramma della coscienza è solo suggerito, non portato a compimento ma inconsciamente vissuto attraverso questo angoscioso incubo. E' forse in questo passo che l'autore prefigura i misteri dell'inconscio.

Don Rodrigo non è in grado di pentirsi veramente degli atti compiuti in quanto egli è solo un uomo dalla personalità mediocre, ma siccome per il cristiano Manzoni Dio non abbandona nessuno ad un destino cieco ed immutabile, giunge lo stesso, attraverso l’esperienza della malattia e il terrore della morte, l’ora della verità anche per lui, seppur in modo differente.

Il distacco dalla realtà avviene attraverso un succedersi confuso di sogni, finché l’incubo assume una sua connotazione precisa: lo spazio (una gran chiesa) appare immenso e indefinito e corrisponde a una sensazione di perdita della propria identità; d’altra parte, sommerso dalla folla, Don Rodrigo ha l’impressione che lo spazio diventi sempre più ristretto: ecco allora affiorare un senso di soffocamento, un'angoscia più tangibile, che è poi la paura fisica del contagio.

Inizialmente appare la massa orrenda degli appestati, ma esiste ancora un’inconscia speranza di salvezza, poi risaltano in primo piano gli appestati che si accalcano su di lui, suscitando sensazioni dolorose, provocate in realtà dal male fisico: infine dal fondo di un pulpito, come dalla remota lontananza della memoria e della coscienza, emerge un’immagine ben precisa: quella di padre Cristoforo, connessa alla paura della morte e del giudizio, che provoca un urlo dopo il quale si sveglia.

In tutta la scena del sogno continuamente si alternano e s’intrecciano il livello della coscienza e quello dell’inconscio, la realtà angosciante della peste dalla coscienza di Don Rodrigo trapassa nella visione deformata del sogno e viceversa, attraverso immagini talora indefinite talora suggerite dalla concreta realtà percepita nelle ore precedenti.

Manzoni nel passo anticipa, senza accorgersene, alcune dinamiche del sogno che poi Freud studierà analiticamente: il rapporto stretto che esiste tra mente e corpo, l'importanza di ricordi rimossi ed esperienze remote censurate, che continuano ad agire nell'inconscio, fino a riapparire improvvisamente in forme deformate, l'oggettivazione simbolica sotto forma di condensazione delle immagini oniriche ( la chiesa, il pulpito, la barba bianca, la folla opprimente ...).

 

Prima pagina, Presentazione