A. Moravia - Gli indifferenti
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Gli indifferenti ( 1929 )
Ricordando la genesi de Gli indifferenti,
il suo primo romanzo, pubblicato nel 1929, Moravia ha più volte affermato
che alla base del suo progetto c’era la volontà di
recuperare in sede narrativa la compattezza della tragedia, ponendo
al centro dell’opera un nodo drammatico che ne
occupasse l’orizzonte nella sua totalità (Cfr. A. Moravia, Gli italiani
non sono cambiati, «L’Espresso», 2 agosto 1959: «Volevo scrivere un
lungo racconto che avesse una struttura teatrale con unità di tempo, di
luogo e con pochissimi personaggi. La mia ambizione era di scrivere una
tragedia, invece ne venne fuori un romanzo»; Cfr. E. Siciliano, Milano
1971, p. 39: «Se avevo un’idea di cui andavo in cerca al tempo de Gli
indifferenti era un’idea o una fissazione stilistica: fare uso della tecnica
teatrale nel romanzo»). In effetti, soluzioni e scansioni tipicamente
drammaturgiche sono evidenti fin dalle parole d’esordio del primo capitolo
(«Entrò Carla», come se si fosse appena alzato il sipario), influenzando gli
elementi basilari della struttura romanzesca. Tuttavia ne Gli indifferenti c’è un motivo nuovo che in altri romanzi del tempo o appena precedenti (come Il podere di Tozzi, Rubè di Borgese e la Velia di Cicognani) non era stato delineato con altrettanta efficacia: l’analisi e la rappresentazione acre dell’ambiente borghese, visto nella sua crisi di trapasso da un’epoca all’altra, seguito da Moravia con dovizia di esemplificazioni, fino a trarne una visione esistenzialistica, contraddistinta dalla sua «indifferenza».
Tale indifferenza si traduce in
inerzia morale, incapacità a vivere la vita, superficialità con cui la
società borghese si pone di fronte ai problemi dell’esistenza, ai valori più
profondi e genuini dell’uomo. I personaggi del primo romanzo moraviano sono
dunque colpiti da questa malattia morale, da una sorta di
«debolezza della
volontà» e versano in una condizione di annientamento, di perdizione, di
disfatta, atta a far ritrovare nella distruzione di ogni valore, o nel male
– toccato nelle sue pieghe più riposte – il senso acuto dell’esistenza. Carla, la giovane figlia di Mariagrazia Ardengo, è insidiata dal libertino Leo Merumeci, amante della madre, il quale mira ad impadronirsi del patrimonio di famiglia. Merumeci è facilitato nel suo proposito dalla particolare situazione in cui si trova la ragazza, desiderosa di uscire da un’esistenza mediocre, contrassegnata da una decadenza e una corruzione insostenibili: tenta l’approccio una prima volta nel salotto della villa, ma ne è impedito dal sopraggiungere della madre di lei, gelosa di ogni gesto ed atteggiamento dell’amante, assolutamente ignara della nascente tresca con la propria figlia. Leo, dopo tanti tentativi, invita Carla a casa sua. Lo stupro avviene e, nel suo attuarsi così meccanico e impartecipe, lascia la ragazza in una depressione ancor più tragica e dolente. Il tradimento di Leo è scoperto da Lisa, amica di famiglia degli Ardengo, innamorata respinta di Michele, fratello di Carla e vecchio amore di Leo, contro la quale si rivolge ogni gelosia di Mariagrazia. Lisa rivela a Michele il nuovo imbroglio amoroso di Leo: il giovane, soggiogato dall’apatia morale, incline ad una vita fondata più sui sogni e le fantasticherie, che su un’effettiva partecipazione al corso degli eventi concreti dell’esistenza, tenta di ribellarsi a questa assurda novità, affrontando ripetutamente Leo Merumeci fino a tentare di ucciderlo.
L’attuazione di ogni disegno di Michele viene a
naufragare in quella sua impotenza, che si risolve solo in un sogno di
autenticità e in un desiderio di purezza, privi di qualsiasi valore sul
piano concreto, indicativi – semmai – di un velleitario rifiuto della
finzione e della corruzione in cui, al contrario, gli altri personaggi
sembrano passivamente affondare. Il romanzo si chiude con l’integrazione di
Carla nella vita borghese, culminante nel matrimonio con Leo, con il rifiuto
rassegnato di Michele ed il pieno successo di Merumeci. L’esile vicenda, schematicamente tracciata, non è determinante per comprendere appieno gli intenti del primo romanzo moraviano, impostato quasi esclusivamente sul tratteggio psicologico dei cinque personaggi e delle loro reazioni in un mondo che sta scivolando interamente sulla china della più profonda dissoluzione. Proprio seguendo tali reazioni si potrà giungere al centro della crisi, assunta da Moravia come segno di decadenza, come prova di un trapasso da un secolo all’altro, colmo di malessere e di tragica impotenza.
Carla avverte che il vecchio mondo puro e
intatto dell’infanzia è ormai sepolto nella sua anima come una cosa lontana
e intoccabile. Un nuovo atteggiamento occorre per affrontare
l’incerta
dimensione del vivere quotidiano, sorretto da valori fittizi, improntato al
più abietto conformismo: in questo intermedio e transitorio momento un atto
di violenza è necessario a rompere le abitudini meschine di una vita piena
di noia e tuttavia le sembra «di recitare una parte falsa e ridicola». La
ragazza resiste a Leo e alle sue profferte interessate per un
senso di
vergogna, combattuta tra il desiderio di «rovinare tutto» – e mettere così
fine alla provvisorietà del suo stato di apatia – e un senso di paura per le
conseguenze di quella violenza sconosciuta. Nell’identica situazione psicologica – forse con più netta coscienza e volontà di riscattarsi della sorella – si trova Michele, anche lui oscillante tra una vanità subdola e falsa e l’indifferenza, «meschina voragine» in cui sembra al contrario lasciarsi andare, senza combattere, per un gusto fatalistico di soccombere. Michele reagisce, a volte. Sembra che voglia rompere la crosta della finzione, strappare le maschere a quei volti della sua vita duri, patetici, inespressivi, denudare i propri istinti. La ribellione, però, quando avviene, è tiepida e mite, minata nelle sue più intime intenzioni: la noia, l’indifferenza svuotano ogni azione, anche quella più vera come l’attentato alla vita di Leo, che Michele sente quanto mai necessario per ridare un senso alla propria esistenza. Nell’epilogo della drammatica vicenda, prima di uscire di scena, egli rivela la sua totale abnegazione: la pistola scarica – un atto mancato – mentre Leo, impaurito, sovrasta per l’ultima volta la sua debole volontà. Michele è vero ai nostri occhi nella misura in cui combatte con una realtà disfatta, quella di Leo, di Mariagrazia e di Lisa, ossia di un mondo che non fa nulla per riscattarsi dalla propria corruzione. Se Lisa, l’amante respinta, che sogna con Michele un amore puro e romantico, rappresenta un aspetto della decadenza borghese, Mariagrazia ne incarna il risvolto più triste e patetico. La sua è veramente la «commedia» di una società che sta perdendo progressivamente ogni legame con la realtà autentica della vita e si appunta ai gesti, alle parole, agli atteggiamenti più esteriori ed insulsi, per salvarsi dal naufragio. Il suo ruolo è quello di chi si accorge di andare alla deriva, di affondare ogni giorno di più, ma non accenna ad alcuna reazione per impedire il fallimento. Ella sogna, invece, soluzioni impossibili, ricchezze e agi come le sole che permettano di sopravvivere. La paura di Mariagrazia per la povertà è un ribrezzo atavico, la miseria una condizione marginale del mondo, una colpa per chi ci vive in mezzo, un indice di mediocrità che ispira timore. Eccitata da false e ridicole ambizioni, non si accorge del mondo che frana intorno a lei, dell’ira e del disgusto che provoca nei figli con le sue scenate di gelosia, delle intenzioni ambigue di Leo, del suo tradimento con la figlia, delle cadute morali di Michele. Quello della madre è un personaggio che ritorna con una certa insistenza nella narrativa moraviana ed è esemplare come modello di una figura borghese che ha chiusure vaste e intoccabili relativamente ai pregiudizi di casta. Il carattere di Mariagrazia è indice di una decadenza disfatta e decrepita, quasi volgare nella sua supponenza di prestigio, di superiorità legata a doppio filo con l’idea del possesso materiale e della ricchezza. Per Mariagrazia Leo è il mondo borghese del decoro sociale, della supremazia dei sentimenti superficiali sulle verità più genuine: è Leo che conta sopra ogni cosa. In questa prospettiva Leo ci si presenta come la figura più negativa del romanzo moraviano, ma che tuttavia ha un suo fascino interno, una sua funzione narrativa ben precisa nell’economia de Gli Indifferenti. Leo Merumeci è il punto focale di un quadro immobile, un personaggio fatalmente soggiogato dalla sensualità, dal gusto sottile della predominanza, che tiene avvinti a sé – nella vicenda familiare – i destini dei «suoi» pupazzi, li fa muovere ed agire secondo uno schema preordinato, pronto ad adattarsi ad ogni situazione con la furbizia, felice di colpire la propria vittima quando questa gli si inginocchia ai piedi, conquistata dal suo fascino o vinta dalla sua perversità. Egli insidia Carla nello stesso modo subdolo in cui tenta di impossessarsi della villa Ardengo, con la stessa fatalistica pervicacia con cui mira al nuovo approccio con Lisa, con la stessa sottile perfidia con cui abbandona Mariagrazia per una ben più giovane donna. Quando cerca di sedurre Carla, Leo è cosciente del dramma intimo della giovane. Ha già subodorato che la ragazza è ormai preda della sua cupidigia: egli la domina come un perfetto stratega, la stupra con sagacia libertina che non lascia respiro. Carla è già nella sua rete. La praticità, l’esperta velocità di esecuzione con cui agisce inquadrano perfettamente la sua sostanza morale. Leo ha un solo istinto, un solo impulso per volta, e quello segue fino in fondo, pienamente convinto della sua scelta, integrato mirabilmente alla sua vita borghese e ai suoi istituti; sa discriminare razionalmente tra i sentimenti che gli si presentano alla coscienza e asseconda ora l’uno ora l’altro in modo impeccabile, senza interferenze o inibizioni. In Leo si sublimano, quindi, l’ipocrisia, la falsa coscienza e la convenzionalità, aspetto saliente che Carla e Michele tentano appunto di rovesciare, anche se con debole convinzione, ma del quale alla fine restano vittime. Carla e Michele invidiano Leo, pur disprezzandolo, ma odio e disprezzo si compenetrano in una forma di amore edipico, che ha lontane origini in un padre mancante, sconosciuto: Carla lo desidera inconsciamente, ma solo come illusoria possibilità di riscatto; Michele lo odia e su di lui tenta un’esercitazione ed una prova della sua debole volontà. In Leo, infine, il ragazzo cerca un modello comportamentale che lo scuota e lo tiri fuori dalla sua indifferenza. L’odio di Michele per Leo è tutto fantasticato, trasportato dal piano reale a quello dell’immaginazione: gli atti violenti e il mancato assassinio attestano tutti l’incapacità del giovane ad odiarlo realmente. Ed insieme all’avversione, Michele prova per Leo una segreta ammirazione che si traduce, sul piano dell’azione e della realtà – e rispetto la suo desiderio di un mondo puro e autentico – in un risibile fallimento. Le conclusioni del romanzo moraviano stanno ad indicare proprio la pienezza di questa sconfitta ed il trionfo degli individui come Leo, di una società in crisi, ma ancora saldamente legata ai suoi pregiudizi: «Carla avrebbe sposato Leo… vita in comune, dormire insieme, mangiare insieme, uscire insieme, viaggi, sofferenze, gioie… avrebbero avuto una bella casa, un bell’appartamento in un quartiere elegante della città… qualcheduno entra nel salotto arredato con lusso e buon gusto, è una signora sua amica, ella le viene incontro… prendono il tè insieme, poi escono; la sua macchina le aspetta alla porta; salgono; partono… Ella si sarebbe chiamata signora, signora Merumeci!»… Michele è avvolto nel suo dubbio, si dibatte inutilmente tra il desiderio di ribellione e i duri aspetti della vita, le sue più consistenti ragioni pratiche, infime manifestazioni di una realtà che egli non può cambiare e che infine accetterà con disgusto, vinto per sempre. Gli rimane un rimpianto: «… un po’ più di fede-dirà- e avrei ucciso Leo… ma ora sarei limpido come una goccia d’acqua». Mariagrazia, infine, «si era travestita da spagnola» per il ballo in maschera, l’atto finale della «commedia», che vedrà la madre e la figlia – questa nel suo costume da Pierrot bianco – recitare le ultime battute, unite entrambe nella finzione e destinate a riprendere il gioco delle parti, senza fine.
tratto da
http://www.italialibri.net/opere/indifferenti.html |