Tra la folla della città l'identità del singolo diviene anonima e la massa è spersonalizzante  - A. Poe - L'uomo della folla


L'uomo della folla non è uno dei tipici racconti dell'orrore di Poe, ove i terrori della psiche si materializzano nella presenza di spettri e situazioni che sconvolgono improvvisamente la plausibilità del reale. La narrazione tratta dai Racconti straordinari, oscilla tra la realtà e la surrealtà e ci parla della condizione umana nel primo affermarsi della civiltà industriale e capitalistica. La grande città caotica e convulsa, con la sua folla variegata ma sostanzialmente anonima e incapace di comunicare con il soggetto, produce alienazione nell'uomo. Questo termine, che avrà fortuna in ambito economico come sinonimo di ripetitività del lavoro e di estraniazione dalle proprie mansioni produttive, in questo caso può essere interpretato come incapacità di relazionarsi consapevolmente con gli altri in contesti pubblici, come deprivazione di vere finalità nelle azioni e nei rapporti collettivi. Il singolo, dopo un'attenta e coinvolgente osservazione delle varie categorie di soggetti che compongono la folla di Londra, che lo illude di poter penetrare - con un'occhiata nelle loro storie e nelle loro personalità - decide si seguire un vecchio enigmatico che si aggira a lungo, circospetto e nello stesso tempo disperatamente angosciato, in ogni angolo della città. Questo uomo incarna l'impossibilità della comunicazione affiancata da un'apparente ansia di conoscenza. Egli è incapace di rapporti e rimane silenzioso di fronte allo sguardo diretto che il suo strenuo osservatore alla fine gli rivolge. E' l'uomo della folla di cui Poe dice:
"
Egli non vuole rimanere solo. (....) Sarebbe vano che continuassi a seguirlo, giacché non riuscirei a sapere di lui e delle sue azioni nulla più di quanto egli già non mi abbia fatto sapere. "
Dunque imperscrutabile, ambiguo, oscuro e minaccioso nelle sue intenzioni, forse privo di precise intenzioni l'uomo della folla, paralizzato da quella stessa anonimia che sembra proteggerlo in mezzo a molti, ma che in realtà gli impedisce di esprimersi.
 



Pissarro, Boulevard des Capucins



James Ensor - Autoritratto con maschere , 1899
 

L'uomo della folla

Ce grand malheur de ne pouvoir être seul! La Bruyère È stato detto, molto opportunamente, d'un libro tedesco: «Es läßt sich nicht lesen», e cioè che esso non si lascia leggere. Vi sono, difatto, dei segreti che non consentono a rivelarsi. Taluni uomini muoiono, a notte, nel loro letto, torcendo le mani agli spettri cui si confessano e riguardandoli pietosamente coi loro occhi smarriti... e v'è chi muore disperato con la gola strozzata dalle convulsioni per l'orrore dei misteri che non vogliono svelarsi. Troppo spesso, ahimè, l'umana coscienza porta seco un tale fardello d'orrore che non riesce a sbarazzarsene se non nella tomba. E in tal modo, l'essenza di tutti i delitti rimane impenetrabile. Non molto addietro, in sul finire d'una sera d'autunno, me ne stavo seduto davanti alla grande vetrata del caffè D., a Londra. Ero stato ammalato per lunghi mesi e, allora, appena convalescente, mentre man mano mi tornavano le forze, ero in una di quelle beate disposizioni dell'animo che hanno le caratteristiche opposte a quelle della noia, quando cioè gli appetiti morali sono ben tesi, e il velo che annebbia la mente è squarciatoacluς oς prin epŋen  - nel mentre che l'intelletto, come elettrizzato, supera di molto le sue giornaliere capacità, al modo medesimo che il nitido razionalismo di Leibniz vince sulla stolida e melliflua oratoria di Gorgia. Lo stesso respiro m'era un godimento senza pari. E persino le innumeri origini dei miei malanni, in quel momento, non mi davano che gioia. Provavo un sereno e pur profondo interesse in qualsiasi oggetto.

Con un sigaro in bocca e una gazzetta sulle ginocchia, mi ero divertito ora a leggere gli avvisi economici, ora ad esaminare la promiscua clientela del caffè, ora a guardare al di là dei vetri appannati dal fumo della strada. Quest'ultima era una delle principali arterie della città ed era stata affollata l'intero dì. La calca s'era ispessita all'imbrunire, ogni istante di più, sino a che, all'accendersi dei becchi, cominciò a fluire in due opposte direzioni dense e continue. Non mi ero mai trovato, in quel particolare momento della sera, nella disposizione d'animo in cui mi trovavo allora, e il mareggiare in tumulto di quella folla di teste umane mi empiva d'una deliziosa e fresca emozione. Per modo ch'io cessai affatto di prendere un qualsiasi interesse a ciò che accadeva nel caffè e mi concentrai, per contro, su quel che vedevo accadere di fuori. Le mie osservazioni furono, da principio, astratte e generiche. Cominciai col considerare i passanti sotto il loro aspetto di massa e avendo la mente solo ai loro rapporti collettivi.

Ma venni dipoi, e gradualmente, ai particolari e m'applicai in un minuto esame allo scopo di vagliare la diversità dei tipi dai loro vestiti, dall'aspetto, dall'andatura, dai volti e dall'espressione, infine, delle loro fisionomie. Eran, la maggior parte, uomini dall'aria soddisfatta e pacifica di chi fa professione d'affari e sembravano occupati a null'altro che ad aprirsi un varco tra la ressa. Colle sopracciglia aggrottate, movevano qua e là gli occhi, vivacemente, e se accadeva che qualcuno li urtasse, senza tuttavia impazientirsi, si raggiustavano i panni e tiravano innanzi. Altri, anch'essi in gran numero, avanzavano inquieti, col volto paonazzo e, in mezzo a ogni sorta di gesticolazioni, parlavan tra sé come se fosse proprio quella infinita moltitudine a farli sentir soli con loro stessi. E qualora accadeva loro di doversi fermare per un qualche inciampo, smettevano all'istante di borbottare ma raddoppiavano, per contro, i loro gesti e, con sulla faccia un distratto riso ed esorbitante, al certo, la loro effettiva allegria, attendevan che gli altri, sul cammino dei quali s'erano inseriti, continuassero la loro strada. Se poi accadeva che venissero urtati, si profondevano subito in iscuse ed inchini, dando atto della più profonda costernazione.

Coteste due numerosissime categorie di persone, oltre ciò che ho detto, non presentavano nient'altro di notevole. I loro abiti appartenevano a quel genere di indumenti che sono oltremodo ben definiti dall'aggettivo decente. Dubbi sulla loro condizione non ce ne potevano essere. Nobili erano, o mercanti, o magistrati, o provveditori, o agenti di borsa - cupatridi e plebe - sia che vivessero di rendita, sia che trafficassero sulla propria o sull'altrui responsabilità. Essi non attrassero troppo la mia attenzione. Passai, così, alla massa degli impiegati che potevano, ancor essi, essere distinti in due categorie. Quelli che appartenevano alle piccole ditte, innanzi tutto, i quali eran giovanotti dagli abiti attillati, dai capelli grassi di pomata, dagli stivali ben lustri e dal labbro insolente, e ancora avevano andatura baldanzosa, che io non saprei definire meglio che con la parola impiegatizia, e mi sembrò che si comportassero secondo quella che, soltanto un anno o un anno e mezzo innanzi, era stata la perfezione del bon ton. Essi sfoggiavano le loro dimesse grazie borghesi e tanto è sufficiente a definirli. L'altra categoria era invece formata dagli impiegati superiori appartenenti a imprese più solide, gli steady old fellows, insomma, e anche sul loro conto non c'era da prendere abbagli. Costoro si davano a conoscere di primo acchito, per i loro ampi abiti scuri, per le cravatte e i gilé bianchi, le scarpe comode e forti, le calze grosse e infine per le uose. Eran quasi tutti calvi, e le loro orecchie destre, avvezze da tempo, ormai, a reggere la penna, sporgevano in fuori con la punta ripiegata in modo curioso e ridicolo. Osservai che essi si levavano e si rimettevano il cappello con tutt'e due le mani, e che portavan tutti degli orologi con certe catene tozze e massicce e di foggia sorpassata. Essi ostentavano tutti d'esser persone rispettabili, posto che esista un tipo tanto onorevole di ostentazione.

Vidi ancora numerosi individui di apparenza brillante e subito compresi che non potevano essere se non i tagliaborse, i quali infestano immancabilmente le grandi città. Io li osservai a lungo e con curiosità, e mi domandai che cosa poteva farli scambiare per dei gentiluomini, appunto, dai veri gentiluomini. I loro voluminosi polsini, e l'aria di eccessiva franchezza che si prestavano, li davano a conoscere, anche costoro, alla prima occhiata. I giocatori di professione erano quelli che s'avvistavano con sicurezza anche maggiore ed infatti ne ebbi a notare diversi. Vestivano nei modi più bizzarri e differenti, da quello del maquerau patentato, col gilé di velluto, la cravatta a colori fantasia, la catena di rame dorato e i bottoni di filigrana, all'altro, scrupolosamente disadorno, dell'uomo di chiesa che consente di non destare alcun sospetto all'intorno. Avevano tutti, però, la carnagione scura, l'occhio annebbiato e le labbra pallide. E ancora, perché si potessero subito riconoscere, presentavano altre due caratteristiche: vale a dire il tono basso di voce che ostentavano un po' tutti, e la non diffusa abitudine di stendere continuamente il pollice in modo da formare un angolo retto colle altre dita. Eppure in mezzo a questi furfanti, mi accadde di notare che avevano abitudini e inclinazioni del tutto particolari e che nondimeno li dimostravano uscenti dalla medesima risma. A volerli esattamente definire, si potrebbe dire, di essi, che vivono della loro furbizia e vanno divisi parimenti in due categorie; quella dei dilettanti e l'altra dei militanti, la prima delle quali possiede come caratteristica le lunghe zazzere e i sorrisi, mentre l'altra va fiera degli alamari e delle sopracciglia aggrottate.

E come venni più in basso nella scala sociale, incontrai più sinistri e meditativi soggetti di indagine. Vidi così merciaiuoli ebrei dalle facce che mostravano in ogni lor tratto la più abbietta umiliazione, eccetto che nel brillio degli occhi, simili a quelli dei falchi; sfacciati individui i quali s'erano dati alla mendicità soltanto per entrare in ipocrita e torva concorrenza coi mendicanti reali che soltanto la disperazione aveva ridotti a quell'esercizio, grami, spettrali, malati, sui quali la Morte aveva già posato la sua mano ad abbrancarli, e che si trascinavano stentando tra la calca, fiutando, con supplici sguardi, nei volti del prossimo, una qualche fortuita consolazione, una qualche perduta speranza. E ancora modeste ragazzette che tornavano a casa dal loro lungo e affaticante lavoro senza gioia, e che si ritraevano, più avvilite che sdegnate, alle occhiate di quegli insolenti di cui era impossibile evitare il contatto. E donne pubbliche d'ogni età e grado, da quelle nel pieno fiorire d'una incontestabile bellezza che riportano alla mente la statua, di cui dice Luciano che è foggiata di pario marmo all'esterno ed è sostenuta di dentro dal fango e dalla sozzura, alle altre abbiette e ripugnanti, lebbrose rivestite di cenci, streghe grinzose sovraccariche di belletti e di falsi gioielli, nell'ultimo sforzo di apparir giovani, e ancora alle fanciulle dal corpo ancora acerbo, ma già perfidamente addestrate, da qualche prolungata convivenza, alle orribili civetterie di quel loro commercio e divorate dall'ambizione di eguagliare, nel vizio, le compagne più anziane. E ubriachi, infine, in un numero inusitato, dall'aspetto indescrivibile, barcollanti, taluni, nei loro cenci, mentre procedevano dinoccolati colle facce illividite e gli occhi vitrei dei cadaveri, e propriamente vestiti ma insudiciati tal'altri, e a fatica disinvolti, con le grasse labbra sensuali e le facce ispiranti una rubizza cordialità e altri ancora insaccati in indumenti che erano stati eccellenti in un tempo lontano e che apparivano oggetto, tuttora, d'attente e amorose spazzolature, e che venivano innanzi con andatura più rigida, ovvero più elastica del verosimile, eppure orribilmente pallidi nel volto, con lampi selvaggi negli occhi accesi e persi nella continua ricerca, pur nel loro frettoloso orgasmo, di qualcosa a cui avvinghiarsi colle loro dita tremanti. E pasticcieri e cascherini e carbonai e spazzacamini e suonatori ambulanti d'organino e operai laceri e lavoratori d'ogni specie, esausti dalla loro fatica, chiassosamente affaccendati in un continuo e sregolato andirivieni che offendeva l'occhio per la sua assenza d'armonia.

E come la notte avanzava, più cresceva in me l'interesse per quello spettacolo. E non soltanto perché la folla mutava, col rarefarsi dei migliori, i suoi tratti più nobili e accentuava, col graduale eruttar delle infamie, i più volgari, ma anche perché la luce dei becchi di gaz, flebile, dapprima, nella sua lotta col giorno che moriva, andava man mano rinfrancandosi e avviluppando gli oggetti col suo spasmodico, abbagliante brillio. Tutto era nero ma tutto, insieme, riluceva, simile a quell'ebano cui fu paragonato lo stile di Tertulliano. I nuovi e strani effetti di quella luce mi inducevano a scrutare le fisionomie dei singoli individui, e nonostante essi passassero rapidamente dinanzi alla vetrina, consentendo appena che io li sbirciassi d'una sola occhiata, pure ritenni per quella mia particolare disposizione dello spirito, di poter leggere, con quell'unica, la storia di lunghi anni.

Avevo la fronte incollata al vetro e me ne stavo da null'altro occupato che da quella bizzarra rassegna, allorché la fisionomia d'un vecchio di sessantacinque o settant'anni attirò la mia attenzione, per l'assoluta singolarità della sua espressione. Non rammentavo d'aver mai veduto una cosa del genere. Com'ebbi posato lo sguardo su quel volto, il primo pensiero che attraversasse il mio cervello fu che se Retszch lo avesse incontrato, subito ne avrebbe fatto un modello per le sue rappresentazioni pittoriche del demonio. Nell'atto medesimo che io compivo di guardarlo, le più stravaganti immagini di genio e d'avarizia, di cupidigia e di avidità, di malizia, di circospezione, di ferocia, d'orgoglio, di gioia, di panico e infine di intensa e suprema disperazione, mi invasero, in frotta disordinata, la mente, nel mentre ch'io mi sforzavo, invano, di penetrarne il significato. D'un subito mi sentii più che mai sveglio e soggiogato. «Quale furiosa storia non è suggellata in quel petto!», mi dissi. E, compreso d'un desiderio ardente di non perdere di vista quell'uomo e di conoscere sul suo conto qualcosa di più, mi infilai il pastrano in un sol gesto, agguantai il cappello ed il bastone e mi lanciai nella strada, aprendomi a fatica una via nella calca nella stessa direzione in cui quegli sembrava essere scomparso.

Pervenuto, non senza qualche difficoltà, a ritrovarlo, e raggiunto che l'ebbi, gli tenni dietro, a distanza breve, studioso, nondimeno, com'è naturale, di non risvegliare alcun suo sospetto. Avevo, intanto, l'opportunità d'esaminare la sua persona. Egli era basso di statura e molto magro, come anche allo stremo delle sue forze. Gli abiti erano sudici e a brandelli. Al bagliore dei becchi, sotto ai quali, di tratto in tratto, egli passava, m'avvidi che aveva una camicia e che essa, benché fosse sudicia, era d'un finissimo tessuto, e attraverso una spaccatura della sua giacca attillata - la quale appariva acquistata d'occasione - mi sembrò vedere, se la vista non ebbe a giocarmi, il brillio d'un diamante, ovvero d'un dado. Tutto questo valse ad eccitare vieppiù la mia curiosità ed io decisi di seguire lo sconosciuto per ogni dove, in qualsiasi luogo egli fosse andato. La notte, ormai, era scesa completamente, ed una nebbia umida e densa, la quale, poco dopo, si tramutò in una pioggia sottile, fastidiosa e insistente, avvolse la città in tutta la sua estensione. Quel mutamento delle condizioni atmosferiche sortì un effetto bizzarro sulla folla, la quale, agitandosi tutta con nuovo e unisono movimento, riparo sotto un universo di parapioggia.

Gli ondulamenti, gli urti, la confusione furono accresciuti le dieci volte tanto. Quanto a me, non mi diedi, per la pioggia, alcun pensiero e per la febbre, anzi, che ancora mi si annidava nel sangue, quella umidità mi comunicava lo squisito piacere del rischio. Portai un fazzoletto alla bocca e tirai innanzi. Il vecchio seguitò a fatica la sua strada, lungo il corso, per tutta una mezz'ora ed io, per evitare di perderlo di vista, camminavo, con lui, di pari passo, gomito a gomito. Ma non volgendo egli giammai il capo a guardare, non s'accorse di me. A un tratto infilò una via trasversale, meno affollata dell'altra dove avevamo camminato fin lì, la quale gli consentì di cambiare il ritmo dell'andatura e di prendere un passo più lento e meno risoluto, che mi parve, a tratti, perfino esitante. Egli attraversava la via, dall'uno all'altro marciapiede, senza che vi fosse, per questo uno scopo apparente, e mi costrinse, così, a ripetere quel suo curioso andirivieni. La via era stretta e molto lunga ed egli impiegò, a percorrerla tutta, press'a poco un'ora, per modo che la folla, infine, s'era ridotta appena a quella che si può vedere solitamente a Broadway verso mezzodì, nelle immediate adiacenze del parco (io faccio un tale rilievo, s'intende, solo per dare a vedere la differenza che passa tra la folla di Londra e quella della più popolosa città d'America). Una seconda svolta lo menò a una piazza piena di luce e di vita: quivi lo sconosciuto riprese il suo contegno di prima, lasciò cadere il mento sul petto, roteò furiose occhiate per tutto all'intorno di sotto alle sopracciglia corrugate e, mirando la gente che l'incrociava, riprese a camminare con una certa fretta e risoluzione.

Com'ebbe compiuto un intero periplo della piazza, io fui non poco sorpreso nell'accorgermi ch'egli tornava indietro sui suoi passi e la sorpresa crebbe allorché lo vidi ricominciare una seconda volta e quindi una terza, e una quarta e via di seguito. E a un tratto, essendosi voltato improvvisamente, fu a un pelo dall'accorgersi di me che lo seguivo. In quell'esercizio, dunque, egli impiegò un'altra oretta così che, allo scoccare di quella, la folla era divenuta tanto rada da non costituire più un intralcio al cammino. La pioggia cominciò a cadere con rinnovata violenza e, come il freddo morse più intenso, i passanti cominciarono e ritirarsi nelle loro case. Lo sconosciuto, allora, con un gesto come d'impazienza, infilò una nuova traversa quasi affatto deserta. Lungo di essa, vale a dire all'incirca per tutt'intero un quarto di miglio, egli mantenne un passo tale che io a stento potevo tenergli dietro, tale che, per un uomo della sua apparente età, poteva sembrare incredibile. In pochi minuti egli arrivò così in un vasto e tumultuante mercato che pareva essergli più che familiare, e ancora una volta riprese il suo andirivieni senza motivo, in mezzo alla folla dei venditori e degli acquirenti. Per tutt'intera l'ora e mezza che egli vi si trattenne, fui costretto a usare una accorta prudenza per non perderlo di vista e nello stesso tempo non attrarre la sua attenzione.

Avevo, per fortuna, un paio di soprascarpe di caucciù e grazie ad esse, nel mentre che camminavo, non producevo alcun rumore, così che egli non poté avere alcun sospetto che io lo stavo spiando. Visitò tutte le botteghe, una dopo l'altra, e nondimeno non contrattò nulla, né pronunziò alcuna parola, ma solo buttò sulla merce uno sguardo smarrito e assente. Per modo che io, al colmo della meraviglia per quella sua condotta, mi Incaponii maggiormente a non abbandonarlo, innanzi che non avessi, in qualche modo, soddisfatta la curiosità che egli mi ispirava. Un rimbombante orologio batté in quel punto gli undici tocchi, e la gente sfollò in fretta. Un bottegaio, nel mentre che applicava la sua saracinesca, picchiò il vecchio con una gomitata e questi apparve, d'un subito, squassato da un violento tremore per tutta la persona. Si buttò a precipizio nella via, dopo aver guatato attorno in ansia e poi si mise a correre per un labirinto di straduzze deserte fintanto che non ebbe di nuovo raggiunta la grande arteria da cui eravamo partiti e cioè la via dove s'apriva il caffè D.

L'aspetto di questa era, a quell'ora, del tutto mutato. Fulgeva, ancora, di tutti i suoi becchi, ma per la pioggia ostinata e fitta non vi passava quasi più nessuno.  LVidi lo sconosciuto sbiancarsi man mano. Mosse, palesemente irritato, qualche passo e poi ripiegò nella direzione del fiume, attraversando un nuovo labirinto di vicoli, fintanto che giunse in vista d'uno dei maggiori teatri della città, nel mentre che la folla, a spettacolo finito, si riversava, da tutte le porte spalancate, nella strada. Il vecchio, allora, aperse la bocca come per emettere un gran respiro che avesse covato, e lo vidi buttarsi a capofitto frammezzo alla folla. L'espressione di profonda angoscia, di cui portava i segni sul viso, parve distendersi; reclinò nuovamente il capo sul petto e nuovamente apparve quale lo avevo visto nel primo istante. Osservai ch'egli s'era incamminato seguendo la strada più affollata e, nondimeno, il suo comportamento rimaneva del tutto incomprensibile. Ma poiché il gruppo dietro al quale egli sembrava essersi messo, si diradava man mano, m'accorgevo che il poveretto era riacciuffato dalla sua inquietudine di prima.

 Si trascinò ancora qualche tempo dietro un ultimo relitto di folla, una dozzina appena di schiamazzatori, ma come costoro, separandosi un po' alla volta, rimasero, allo svolto d'un vicolo oscuro, soltanto in tre, lo sconosciuto si fermò, e rimase un attimo sopra pensiero. Preda, poi, d'una straordinaria agitazione, egli infilò, a rapidi passi, una via che ci menò a una delle estreme propaggini della città, in luoghi del tutto differenti da quelli che avevamo attraversati fino allora, in un quartiere dei bassifondi londinesi, dove ogni oggetto portava il marchio della più miserabile abiezione e del vizio più disperato. Alla torbida luce dei becchi di gaz, intravvidi alti e vecchi caseggiati di legno rosicchiati dai tarli e raggruppati tra loro in un modo così sregolato e capriccioso che sembrava non esistesse alcun andito per potervi passare frammezzo. Il rigoglioso crescere delle erbacce aveva svelti, qua e là, i ciottoli del selciato ed immondizie imputridite stagnavano nelle cunette: l'atmosfera intorno era pregna di desolazione. Ma nel mentre che noi procedevamo, il rumore della vita ci veniva incontro, man mano, sempre più distinto e, a un tratto, vedemmo, nell'oscurità, scomposte torme di gente che s'agitava: erano le più abbandonate canaglie della plebaglia londinese. Il vecchio parve allora rianimarsi di nuovo e palpitare d'un guizzo di vita simile a quello che manda una lampada che sia presso a estinguersi, e ancora una volta riprese a camminare con una certa risoluzione e speditezza.

A una svolta, un bagliore fiammeggiò dinanzi ai nostri sguardi. E difatto noi eravamo sulla soglia di uno dei più maestosi templi che i sobborghi abbiano eretti, in nome dell'intemperanza, al dèmone Gin. Era l'alba, ormai, e una folla di ubriachi si stipava ancora di fronte al pomposo accesso. Il vecchio trattenne a metà un grido di gioia selvaggia e di nuovo si buttò in mezzo alla calca, e di nuovo riprese il suo primitivo atteggiamento nel mentre che misurava in lungo e in largo, senza alcuno scopo plausibile, l'ingresso del locale. Egli non era occupato da gran tempo, in quell'esercizio dell'andare e venire, allorché un fiotto di gente che si precipitò dall'interno, verso le porte, fece capire che era giunto il momento di chiudere. Ciò ch'io potei leggere allora, nel volto dell'individuo sul quale la mia curiosità si stava esercitando con tanto accanimento, era qualcosa che passava, per l'intensità, la rappresentazione di un'anima disperata.

Ed egli, tuttavia non si diede per vinto, e in un novello e pazzo impulso ritornò sui suoi passi verso il cuore possente di Londra. Corse per lungo tempo e con grande velocità ed io non smettevo di tenergli dietro, portato quasi dalla mia stessa meraviglia, deciso fino in fondo a non desistere da quella indagine che avevi assorbito tutt'intere le mie facoltà. Correvamo ancora quando sorse il sole e quando raggiungemmo ancora una volta il centro della città popolosa, e cioè a dire la via del caffè D., noi vi ritrovammo, nuovamente desti, il movimento e l'attività della calca che lo avevano caratterizzato il giorno innanzi. E in quel tumulto che s'accresceva ad ogni istante, io continuai vieppiù l'inseguimento dello sconosciuto. Ed egli, come la notte precedente, non faceva che andare e venire, né, per tutt'intera quella giornata, ebbe benché minimamente ad allontanarsi dal vortice spietato di quella via.

Annientato dalla fatica com'ero, al cader della seconda sera, affrontai risolutamente lo sconosciuto e lo fissai negli occhi. Ma egli fece la vista di non accorgersene. E riprese, d'un subito, la sua solenne andatura, mentre io rimanevo immobile a riguardarlo, e a seguirlo non mi bastava più l'animo. «Questo vecchio», dissi allora a me stesso, « è il genio caratteristico del delitto più efferato. Egli non vuole rimanere solo. È l'uomo della folla. Sarebbe vano che lo continuassi a seguirlo, giacché non riuscirei a sapere di lui e delle sue azioni nulla più di quanto egli già non mi abbia fatto sapere.
 


Due riletture attualizzanti del racconto di E.A. Poe

 


Sandro Modeo -
Bauman, contro la solitudine riscopriamo la politica - Il "cittadino globale"? E' sempre più disperato. Unico rimedio: uno spazio pubblico di confronto. Per vincere i disagi individuali prodotti dagli eccessi liberisti. Sparita la critica sociale, cresce il brusio delle sofferenze solitarie

L'uomo della folla
, di Edgar Allan Poe, si apre a Londra "sul finire di una sera autunnale". Attraverso la vetrata dei terrazzi del caffè in cui è seduto, il protagonista vede sfilare la grande massa - la "calca" - in decine di categorie sociali che anticipano quelle di questi anni: per esempio, i giovani "con gli abiti attillati, gli stivali lucidi, i capelli impomatati e le labbra sprezzanti" ricordano tanti giovani manager palestra-fuoristrada-gel-Rolex della neoborghesia cafona italiana. Poi, sempre in rigorosa soggettiva, viene attratto dal volto di un vecchio. Lo pedina: e l'inseguimento, in un succedersi di svolte ubriacante e onirico, che si fa a ogni passo più angoscioso, lo porterà per ventiquattr'ore ininterrotte nelle zone più nebbiose, depressive, alienate della città, le zone del proletariato, dove si respirano un "disagio", un'"irrequietezza", una "disperazione" che sono le stesse viste sul volto del vecchio. Al tramonto successivo, l'inseguitore cede, esasperato dal fatto che l'inseguito ("l'uomo della folla") non si fermi mai, che sia come costretto a macchiarsi del "crimine più abietto", cioè "rifugge la solitudine". Ma è davvero una fuga? Nell'inizio del racconto Poe descrive degli impiegati - dei dannati - che procedono "con fare inquieto, gesticolando e parlando tra sé, come se si sentissero soli proprio a causa della folla".

Dunque, una contraddizione, un'ambiguità: da una parte gli uomini moderni hanno bisogno della folla; dall'altra, quando vi si immergono, si sentono ancora più soli, più estranei a se stessi. E' questa contraddizione a riassumere la ricerca di tre dei massimi sociologi del secondo Novecento: Riesman, Goffman, Bauman. Con La folla solitaria (1948) David Riesman (americano, docente a Harvard) fissa nel titolo l'ambiguità del racconto di Poe. Ma la sua analisi della "società di massa" è lontana dai toni critici della Scuola di Francoforte: è equilibrata, non di denuncia, e il suo sguardo non allarmato, ma attento a chiaroscuri particolari come il dialogo impossibile tra generazioni o il nuovo rapporto tra lavoro e tempo libero.
Più vicino ai francofortesi - ma anche lui tendente allo sguardo oggettivo dell'etologo - è Erving Goffman, canadese attivo soprattutto a Berkeley. Per lui, la società capitalistica dei Paesi "sviluppati" è composta da scenari socialmente predefiniti. Non c'è nessuna sostanza etica nei rapporti: tutto è puramente convenzionale e cerimoniale. E non c'è, quindi, nessuno spazio privato per l'individuo, nessun "recesso intimo" in cui rifugiarsi. Come ricorda nella Vita quotidiana come rappresentazione (1959), l'io biologico (pulsionale) dell'individuo deve cedere il passo all'io sociale: con il risultato finale di una scissione tra personalità e comportamento, e con la conseguenza che chi non si adegua all'aspettativa del teatro sociale viene marchiato con lo "stigma" del deviante e del diverso. Zygmunt Bauman (polacco, già noto per Modernità e Olocausto) prosegue il discorso dei suoi predecessori nel nuovo libro appena tradotto da Feltrinelli (La solitudine del cittadino globale), portandolo nell'attuale contesto socioeconomico. La diagnosi è chiara: la forza di persuasione della sola ideologia rimasta, quella liberal-liberista, è tale da far credere che "non ci siano alternative". O, detto in altri termini, la capacità di creare consenso da parte di tale ideologia è così invasiva da far credere di essersi imposta "naturalmente", e da togliere così ogni capacità critica nei soggetti che la compongono.
Questo non vuol dire che l'individuo (il cittadino) non soffra più. Anzi: secondo Bauman, la sua sofferenza è il rovescio simmetrico di quella descritta da Goffman: consiste, cioè, nel non poter tradurre il disagio personale in questione sociale, il conflitto pulsionale privato nell'"agorà" del dibattito pubblico. I motivi per cui questo brusio di sofferenze solitarie rimane schiacciato e inesploso sono altrettanto chiari: da una parte ci sono l'"incertezza" e la "precarietà" delle nuove - e tanto decantate - economie puntiformi, basate sull'imprevedibilità dei mercati finanziari e sulla flessibilità del lavoro; dall'altra l' "insicurezza" provocata dalle dinamiche dei migranti e dal conseguente innalzarsi del grado di aggressività sociale.

tratto da http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/000520a.htm


Emanuele Rebuffini - Se la folla è antidoto alla follia . Intervista ad Enzo Bianchi.

La folla atomizzata è composta di individui, ciascuno con l'illusione di una sua privatezza, ciascuno raggiunto dagli stessi consumi, dalle stesse informazioni. A questa folla viene chiesto di produrre, comprare e usare beni che decadono in fretta; di muoversi in luoghi senza radici; di accettare una perdita di identità personale a favore di un'identità collettiva. La folla un tempo comunicava nella piazza, nel tempio. Scambiava beni e parole. Oggi, la comunicazione naufraga nell’oceano dell'informazione virtuale. La folla non ha più luoghi di scambio. La piazza è vuota. Religione, politica, psicoanalisi sembrano impotenti. Come evitare il passaggio dall'individuo-folla all'individuo-folle? Lo abbiamo chiesto al priore della comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi, teologo e biblista, che con lo scrittore Erri De Luca e il sociologo Ilvo Diamanti partecipa oggi a un convegno organizzato dall'Infinity Festival, la rassegna sul cinema e la ricerca dello Spirito in corso di svolgimento ad Alba fino al 12 aprile.
Un racconto di E.A Poe narra di un uomo che quando si ritrova da solo è colto da terrore e inizia a correre fino a che non si ritrova in mezzo alla folla. Siamo tutti diventati come «L'uomo della folla»?
«La folla può essere anche un momento necessario, ma se l’uomo che si cala nella folla non è munito di una precisa capacità di pensiero, allora c’è il dramma del totalitarismo. La folla è un concetto che oggi non significa né maggioranza né democrazia, anzi, può essere la negazione più efficace della democrazia. La folla permette a delle dominanti ideologico-culturali di instaurarsi e fa sì che un'idea impazzita diventi maggioritaria».
 

La solitudine può essere un antidoto alla follia?
«Pascal diceva che il mondo cambierebbe se l'uomo fosse capace di restare in solitudine a pensare. Oggi è importante pensare ad architetture della solitudine e del silenzio per fuggire le patologie che la folla porta con sé. Senza la dimensione della solitudine ci resta solo l'incapacità di pensare, di elaborare, di vedere le cose in modo distanziato. Un uomo che pensa di più sa entrare e uscire dalla folla con un equilibrio che la folla non è in grado di distruggere».
Anche le religioni sembrano subire la seduzione della folla…
«La folla è una delle epifanie del religioso. La tendenza prevalente nello spazio religioso è di favorire i grandi raduni dove non si pensa, ma si celebra. Le giovani generazioni sono molto sensibili a questa dimensione, basta pensare ai raduni con il Papa. E così abbiamo i «cristiani a intermittenza», che non vanno alla messa domenicale, che non frequentano la diocesi, ma sono presenti a tutti i grandi raduni. La folla impedisce il confronto, il dibattito, quindi serve molto alle istituzioni che non vogliono al loro interno la possibilità di un pensiero critico. La folla nutre un tipo di uomini religiosi che vivono di questi momenti come degli happening, come momenti di interazione epidermica gli uni con gli altri».

tratto da http://ilmattino.caltanet.it/hermes/20030409/NAZIONALE/21/FOGLIA.htm