La Parigi di Emile Zola.
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Manet, Ritratto di Emile Zola

 
E. Zola - Considerato il caposcuola del naturalismo ( movimento che si prefiggeva l'osservazione imparziale e oggettiva della psicologia umana e dei rapporti sociali, soprattutto delle classi subalterne, fino ad allora escluse dalla grande letteratura ), fu coinvolto in numerose polemiche, artistiche e non: prese le difese di Manet e degli impressionisti e si schierò con gli innocentisti nel caso Dreyfus, scrivendo un pamphlet (Accuso!, 1898) che gli costò la condanna a un anno di prigione (vi sfuggì riparando in Inghilterra). Dopo il primo successo, Teresa Raquin (1867), concepì il progetto di un ciclo di romanzi che doveva prendere in esame tutti gli strati della società attraverso le vicende di personaggi appartenenti a un unico ceppo familiare: nacquero così i Rougon-Macquart, 20 romanzi (1871-93), fra cui l'iniziale La fortuna dei Rougon, Il ventre di Parigi (1873), La conquista di Plassans (1874), L'Assommoir (1877), Nanà (1880), Germinal (1885), L'opera (1886), La bestia umana (1890) e il conclusivo Il dottor Pascal, spietati quadri di vita sociale, culturale e politica. Frattanto, nel 1880 erano apparsi il saggio Il romanzo sperimentale, in cui espose le sue convinzioni estetico-letterarie, e Le serate di Médan, una raccolta di novelle di Zola, Maupassant, Huysmans e altri, che costituì una specie di manifesto della scuola naturalista. L'ultimo progetto fu ancora un ciclo, I quattro vangeli, ma rimase incompiuto (Fecondità, 1899; Lavoro, 1901; Verità, postumo, 1903) per la morte improvvisa dell'autore, causata dalle esalazioni di una stufa (ma il sospetto di un attentato non venne mai del tutto dissipato). La sensibilità sociale e l'onestà intellettuale di Zola gli permisero di superare i limiti del naturalismo e il facile culto del progresso. Mentre le correnti estetizzanti e decadenti che ormai dominavano la letteratura sembravano non accorgersi neppure del problema sociale, Zola affrontò il conflitto cruciale del suo tempo, la lotta tra classe proprietaria e proletariato, dandone una rappresentazione potente, veritiera e impietosa.
 


E. Zola - Il ventre di Parigi ( 1873 )

Il ventre di Parigi, è un brulicante ritratto della vita delle Halles, ossia dei mercati generali di Parigi, così com'era organizzata nella seconda metà dell'Ottocento. Vi si muove una fauna umana variegata di personaggi popolari. Il libro si apre con pagine dedicate alla descrizione dei carri carichi di mercanzia che prima dell'alba dalle campagne si muovono verso Parigi. Si avverte il movimento, la confusione, il frastuono dell'arrivo, il disordine e la fretta nello scaricare la mercanzia, l'avvicinarsi dell'alba, quando tutto deve essere pronto per servire i clienti che si svegliano in città. Zola ci abituerà a queste descrizioni collettive, che rendono l'anima della Parigi proletaria e lo vedremo in altri suoi libri. Il suo stile è asciutto, teso a decifrare con esattezza la realtà. Delle Halles fa palpitare le merci esposte, dando ad esse i colori e le luminosità del vero. Nel capitolo quarto tratteggia i sotterranei delle Halles e pare anche a noi di trovarci in compagnia dei personaggi Marjolin e la bella Lisa, sotto le strade di Parigi.
 

( cap. 1)

Lungo il viale deserto, nel profondo silenzio della notte, i carri degli ortolani, diretti verso Parigi percuotevano con l'eco dei loro monotoni scossoni, a destra e a sinistra, le facciate delle case immerse nel sonno dietro i filari confusi degli olmi. Un carro di cavoli e un altro di piselli si erano riuniti sul ponte di Neully ad otto carri di rape e di carote calati da Nanterre; ed i cavalli procedevano a testa bassa, con andatura pigra e uguale rallentata dalla fatica della salita. Su in alto, sdraiati bocconi, sul carico dei legumi, sonnecchiavano i carrettieri coi loro mantelli a righe nere e grigie, le redini arrotolate ai polsi. Nell'ombra una fiamma improvvisa di gas rischiarava a tratti ora i chiodi di una scarpa, ora la manica azzurra di una blusa, o il cocuzzolo di un berretto in mezzo alla fioritura enorme dei mazzi rossi di carote e bianchi delle rape, tra la verdura traboccante dei piselli e dei cavoli. E sulla strada, e da quelle vicine, avanti indietro da ogni parte, il cigolio lontano di altri carri annunciava che altri convogli stavano arrivando tutti insieme, alle due del mattino, nelle tenebre della città, cullata nel sonno profondo di quell'ora dal rumore di tutte quelle provvigioni che la attraversavano.
   In testa era Balthazar, il cavallo di Mme François enorme; camminava mezzo addormentato, ciondolando le orecchie ad ogni passo, quando all'altezza di rue Longchamp, un sobbalzo di paura lo fece impuntare di colpo sulle quattro zampe. Le bestie che lo seguivano andarono a sbattere il capo sul dietro del carro che li precedeva. La fila si fermò con un gran rumore di ferraglia, tra le bestemmie dei carrettieri svegliati di soprassalto. Mme François, appoggiata all'asse che tratteneva i legumi sul davanti aguzzava gli occhi, ma non riusciva a distinguere niente, per la scarsa luce della piccola lanterna quadrata che rischiarava sulla sinistra, a mala pena, uno dei fianchi lucenti di Balthazar.
  «Oh, mamma, andate avanti!» gridò uno degli uomini che si era rizzato in ginocchio sulle rape.
«Che cosa c'è? Qualche porco ubriacone...?» La donna si era sporta in avanti ed aveva visto a destra, quasi tra le zampe del cavallo, un corpo nero che sbarrava la strada. Si voltò al carrettiere: «Non si può mica schiacciare la gente,» disse saltando a terra. L'uomo se ne stava disteso colle braccia aperte e il viso nella polvere; pareva straordinariamente lungo, magro come un ramo secco; ed era incredibile come Balthazar con una zampata non l'avesse spezzato in due. Mme François, sul momento, pensò fosse morto; si chinò, gli prese una mano e sentì che era calda.
    «Ehi voi...» disse con dolcezza. Ma i carrettieri non avevano altrettanta pazienza. Quello che si era alzato in ginocchio sulle rape gridò con voce rauca: «Dategli una frustata, mamma, è pieno, quel porco, sbattetelo nel fosso.»  In quel momento l'uomo aveva aperto gli occhi e fissava Mme François con aria sgomenta, impaurita, senza muoversi. Ella pensò che fosse davvero ubriaco. «Non dovete restare qui,» gli disse, «se non volete farvi schiacciare... Dove siete diretto?»
  «Non so...» rispose lui con un filo di voce; poi aggiunse a fatica girando attorno uno sguardo inquieto:
«Andavo a Parigi, e sono caduto non so...»
 
La donna poté distinguerlo meglio. Faceva pena: i calzoni neri, l'abito nero sbrindellato e quella magrezza tremenda. Un berretto di panno spesso e nero, calato per paura fin sulle sopracciglia, lasciava intravedere un paio di occhi scuri, grandi, singolarmente dolci in mezzo ad un viso duro e tormentato. Mme François pensò che era veramente troppo magro per aver bevuto.......
 



Bisson frères, Paris, Panorama de l'île de la Cité
et du Louvre près des tours de Notre-Dame

immagine tratta da
http://expositions.bnf.fr/zola/grand/z363.htm

 


Halles centrales de Paris,
Lithographie en couleurs, XIX
e siècle
immagine tratta da http://expositions.bnf.fr/zola/grand/z363.htm


E. Zola: L'ammazzatoio ( 1877 )

 In questo libro, in alcune parti finali, sfugge al grande scrittore il controllo del sentimento e vi sono accenti romantici che non mi aspettavo. Come nel XII capitolo, quando la sfortunata protagonista Gervaise viene presa da una profonda disperazione. Ma lo stile che innalza il libro al livello di capolavoro resta incontaminato: la misura vi detta legge. Anche qui Zola rende immortali scorci di una Parigi che gli deve molto della sua popolarità nel mondo. La descrizione del lavatoio dove si recano le lavandaie e dove si intrecciano liti e pettegolezzi ne è un esempio. È l'apertura del libro. Memorabile è anche, nel VI capitolo, la descrizione della fabbrica dei chiodi dove lavora il bel Goujet; qui è titanica la sfida tra il giovane ed un compagno di lavoro, per forgiare un enorme chiodo, davanti ai begli occhi di Gervaise. Parigi sotto la neve è descritta nel XII capitolo, con Gervaise che gira disperata nella notte per prostituirsi nella speranza di alleviare così i morsi della fame. Con Zola, le miserie e le sofferenze del proletariato acquistano dignità e s'innalzano a protesta universale di uno sfruttamento dell'uomo.
 

PREFAZIONE

        I Rougon-Macquart dovranno comprendere una ventina di romanzi. Il piano generale è fissato fin dal 1869, ed io lo seguo con estremo rigore. Arrivato il momento dell'Assommoir, l'ho scritto, così come scriverò gli altri, senza deviare nemmeno per un attimo dalla mia linea retta. Ecco da cosa deriva la mia forza. Ho un obiettivo cui tendere.
Quando L'Assommoir è apparso su un giornale, è stato attaccato con una violenza senza precedenti. È stato imputato di tutti i crimini. Occorre dunque ch'io spieghi qui, in poche righe, le mie intenzioni di scrittore? Quello che ho voluto dipingere è il fatale decadimento d'una famiglia operaia nell'ambiente appestato dei nostri sobborghi. Al fondo dell'ubriachezza e della poltroneria, troviamo l'allentamento dei legami familiari, gli orrori della promiscuità, il progressivo oblio d'ogni onesto sentimento; quindi, come scioglimento, la vergogna e la morte. Non è altro che morale in atto.

  L'Assommoir
è senza dubbio il più casto dei miei libri. Ho dovuto spesso toccare delle piaghe ben altrimenti spaventose. Soltanto la forma ha scandalizzato. Se la son presa con le parole. Il mio crimine è stato quello d'aver avuto la curiosità letteraria di raccogliere e fondere in uno stampo adeguatamente elaborato la lingua del popolo. Ah! la forma, ecco il più grande dei crimini! Eppure, di tale lingua, esistono dei dizionari. Gli eruditi la studiano e ne apprezzano il vigore, l'imprevedibilità e la forza delle immagini. È un boccone prelibato per i grammatici ficcanaso. Non conta. Nessuno si è accorto che volevo fare un lavoro puramente filologico, un lavoro che credo del più vivo interesse storico e sociale.
   Ma nemmeno mi difendo. La mia opera mi difenderà. È un'opera di verità, il primo romanzo sul popolo che non menta e abbia lo stesso odore del popolo. Ma non bisogna affatto concluderne che il popolo per intero sia cattivo: i miei personaggi non sono infatti cattivi, sono soltanto ignoranti e corrotti dall'ambiente di dura fatica e di miseria in cui vivono.


Cap.1

Gervaise aveva aspettato Lantier fino alle due del mattino. Poi, tutta in brividi per essere rimasta in camicia all'aria frizzante della finestra, s'era assopita, gettata di traverso sul letto, febbricitante, le guance inondate di lacrime.
Da otto giorni. appena uscivano dal Veau à Deux Têtes, dove mangiavano, lui la mandava a dormire con i bambini e ricompariva soltanto a notte fonda, raccontandole che andava a cercar lavoro.
Quella sera, mentre spiava il suo ritorno, le era sembrato di vederlo entrare al ballo del Grand-Balcon, le cui dieci finestre fiammeggianti illuminavano come in un manto d'incendio la nera colata dei boulevards esterni; e dietro di lui, a cinque o sei passi di distanza, le mani penzoloni, come se gli avesse appena lasciato il braccio per non passare insieme sotto il crudo chiarore dei globi del portone, aveva visto avanzare la piccola Adèle, una brunitrice che mangiava al loro stesso ristorante.
   Quando Gervaise si svegliò, verso le cinque, irrigidita, le reni a pezzi, scoppiò in singhiozzi. Lantier non era tornato. Era la prima volta che dormiva fuori casa. Restò seduta sulla sponda del letto, sotto il brandello di perse sbiadita che pendeva da un braccio attaccato al soffitto con una cordicella. E lentamente, i suoi occhi velati di lacrime facevano il giro della misera camera ammobiliata: un cassettone di noce cui mancava un cassetto, tre sedie di paglia e un tavolino bisunto, su cui languiva una brocca slabbrata. Era stato aggiunto, per i bambini, un lettino di ferro che bloccava il cassettone e occupava i due terzi della stanza. Il baule di Gervaise e Lantier, spalancato in un angolo, mostrava i suoi fianchi vuoti e, sul fondo, un vecchio cappello d'uomo, nascosto sotto un mucchio di camicie e di calzini sporchi. Lungo le pareti, sulle spalliere dei mobili, pendevano uno scialle bucato, un paio di pantaloni mangiati dal fango, gli ultimi stracci rifiutati perfino dai rigattieri. Al centro del camino, fra due candelieri di zinco spaiati, c'era un pacchetto di bollette del Monte dei pegni, d'un rosa tenue. Era la camera migliore della locanda, la camera del primo piano, che dava sul boulevard.

          Coricati l'uno accanto all'altro sullo stesso guanciale, i due bambini intanto dormivano. Claude, che aveva otto anni, con le manine distese fuori della coperta, respirava lentamente, mentre Etienne, di soli quattro anni, sorrideva, un braccio passato attorno al collo del fratello. Lo sguardo smarrito della madre si fermò su di loro: scoppiò allora nuovamente in singhiozzi, si schiacciò un fazzoletto sulla bocca per soffocare le piccole grida che le sfuggivano. E a piedi nudi, senza curarsi di rimettere le ciabatte cadute a terra, tornò ad affacciarsi alla finestra, ricominciò la stessa attesa della notte, frugando con lo sguardo i marciapiedi, in lontananza.

          La locanda si trovava sul boulevard de la Chapelle, a sinistra della barriera Poissonnière. Era una catapecchia a due piani, dipinta di color rosso vino fino al secondo, con persiane infradiciate dalla pioggia. Al di sopra d'un lampione dai vetri incrinati, si poteva leggere, fra le due finestre, in grandi lettere gialle da cui la muffa del gesso aveva portato via qualche frammento: Locanda Boncoeur, tenuta da Marsouillier. Gervaise, ostacolata dal lampione, doveva sporgersi, con il fazzoletto sempre sulle labbra. Guardava a destra, dalla parte del boulevard de Rochechouart, dove gruppi di beccai, davanti ai mattatoi, parevano immobili nei loro grembiali insanguinati: e il vento fresco trascinava con sé, a tratti, un fetore, un odore selvaggio di bestie massacrate. Guardava a sinistra, abbracciando d'infilata il lungo nastro del viale, per arrestarsi quasi dirimpetto a sé, alla massa bianca dell'ospedale di Lariboisière, allora in costruzione. Lentamente, da un capo all'altro dell'orizzonte, seguiva il muro del dazio, al di là del quale, la notte, sentiva a volte delle grida come di assassinati: e frugava allora con gli occhi gli angoli più appartati, i punti più oscuri, neri di umidità e lerciume, con la paura di scoprirvi il corpo di Lantier, crivellato nel ventre dalle coltellate. Quando sollevava lo sguardo, oltre la grigia e interminabile muraglia che circondava la città come in una fascia di deserto, intravedeva un immenso chiarore, un pulviscolo di sole, già riempito del chiasso mattutino di Parigi. Ma era pur sempre alla barriera Poissonnière che tornava, con il collo teso, sentendosi stordita dal veder scorrere, fra i due tozzi padiglioni del dazio, il flusso ininterrotto di uomini, bestie e carri, che calava dalle alture di Montmartre e della Chapelle. Era tutto uno scalpiccio d'armenti, una folla che arrestandosi all'improvviso s'allargava in pozzanghere sulla via, uno sfilare senza fine di operai che andavano al lavoro, con i loro arnesi sulla schiena e il loro pane sotto braccio. E quella folla si lasciava inghiottire da Parigi, per annegarvi, continuamente. Quando Gervaise, fra tutta quella gente, credeva di riconoscere Lantier, si sporgeva ancora di più, rischiando di cadere. Si premeva poi ancora più forte il fazzoletto sulla bocca, come per ricacciare indietro il suo dolore.




Degas, L'absinthe
 





Degas, Le stiratrici
 


E. Zola: Nanà ( 1880 )


Le radici di questo personaggio si trovano nella piccola Nanà, figlia di Gervaise Macquart e di Coupeau, che ne L'ammazzatoio fugge di casa, per sottrarsi allo squallore di una vita che pare ormai senza alcuna speranza. Le qualità dello scrittore Zola qui sono tutte espresse al massimo grado, e sebbene la materia che tratta avrebbe potuto offrirgli l'occasione di qualche cedimento romantico, Zola domina il sentimento e ci regala ancora una volta uno straordinario personaggio e una incancellabile Parigi. Abbiamo già notato come le aperture dei suoi libri sono spesso dedicate ad immortalare scorci di Parigi. Nanà si apre con la descrizione del piccolo Théatre des Variétés, che a poco a poco, tra le basse luci, si riempie di personaggi, accorsi ad ammirare la bella soubrette, di cui un po' tutti sono innamorati. Nel capitolo settimo, Zola si sofferma sulla sua stupenda creatura e la descrive mentre si ammira allo specchio, sotto gli sguardi di un corteggiatore. Nel capitolo undicesimo la corsa dei cavalli a Longchamp nel Bois de Boulogne: "Quella domenica, sotto un cielo gonfio dei primi temporali di giugno"
 



Tolouse Lautrec




Tolouse Lautrec, la Goulue arriva al Moulin Rouge
con due
donne

Cap 1

Alle nove, la sala dei teatro delle Variétés era ancora vuota.  Poche persone, in balconata e in platea, aspettavano, sperse in mezzo alle poltrone di velluto granata, nella scarsa luce del lampadario a fiamma abbassata.  Un'ombra copriva la grande macchia rossa dei sipario; e dal palcoscenico non proveniva nessun rumore, la ribalta era spenta, i leggii dei suonatori sparsi qua e là.  Soltanto in alto, nella galleria di terz'ordine, intorno alla rotonda dei soffitto su cui donne e bambini nudi spiccavano il volo in un cielo inverdito dal gas, da un brusio continuo di voci si alzavano risa e richiami, e teste coperte da cuffiette e da berretti si assiepavano sotto'gli ampi vani concavi, incorniciati d'oro.  Di tanto in tanto si scorgeva una maschera, indaffarata, con dei biglietti in mano, che faceva passare davanti a sé un signore e una signora, i quali prendevano posto, l'uomo in frac, la donna sottile e flessuosa, che lentamente lasciava vagare intorno lo sguardo. In platea apparvero due giovani.  Restarono in piedi, guardandosi intorno.
«Che ti dicevo, Hector?», esclamò il meno giovane, un ragazzone con baffetti neri. «Siamo arrivati troppo presto.  Avresti potuto lasciarmi finire in pace il sigaro.»
Passava una maschera.
«Oh! monsieur Fauchery», disse in tono confidenziale, «non si comincerà certo prima di una mezz'ora.»
«Allora, perché lo annunciano per le nove?», mormorò Hector, il cui lungo volto magro assunse un'aria scontenta. «Stamattina, Clarisse, che recita nello spettacolo, mi ha giurato che avrebbero cominciato alle otto in punto.»
Tacquero un istante, alzando la testa, esplorando con lo sguardo l'ombra dei palchi, ma la carta verde con cui erano tappezzati li rendeva ancora più bui.  In basso, le barcacce erano immerse in una completa oscurità.  Nella balconata c'era soltanto una grossa signora, arenata sul velluto del parapetto.  A destra e a sinistra, tra alte colonne, ì palchi di proscenio erano ancora vuoti, sotto i drappeggi di velluto a lunghe frange.  La sala, tutta bianco e oro, ravvivata in verde chiaro, sembrava dissolversi, come se le fiamme basse dei grande lampadario di cristallo la riempissero di un finissimo pulviscolo.
«Sei riuscito ad avere il palco di proscenio per Lucy?», chiese Hector. «Sì», rispose l'altro, «ma non senza fatica... Oh! non c'è pericolo che Lucy arrivi troppo presto!»
Soffocò un leggero sbadiglio, poi, dopo un momento di silenzio:
«Hai fortuna, tu, a non aver mai assistito a una prima...
La Bionde

Vénus
sarà l'avvenimento dell'anno.  Se ne parla da sei mesi.  Ah!  Caro mio, che musica!  Che fuoco!  Bordenave, che sa il fatto suo, l'ha tenuta per l'Esposizione.»
Hector ascoltava religiosamente.  Domandò:
«E Nanà, la nuova stella, quella che interpreta Venere, la conosci?».
«Ma guarda un po'!  Ci risiamo!», gridò Fauchery alzando le braccia al cielo. «Da stamattina, tutti mi tormentano con questa Nanà.  Ho incontrato più di venti persone, e Nanà di qua, e Nanà di là!  Che ne so, io!  Non conosco mica tutte le ragazze di Parigi!... Nanà è un'invenzione di Bordenave.  Vedrai che bella roba!»
Si calmò.  Ma la sala vuota, la mezza luce dei lampadario, quel raccoglimento da chiesa pieno di voci bisbiglianti, quell'aprirsi e chiudersi di porte lo infastidivano.
«Ah!  No!», disse improvvisamente. «Ci s'intristisce, qui.  Io esco... Forse giù troveremo Bordenave.  Ci darà un po' di particolari.»
A pianterreno, nel grande vestibolo pavimentato di marino, dov'era il botteghino, il pubblico cominciava ad affluire.  Dai tre cancelli aperti si vedeva scorrere la vita ardente dei boulevard, brulicanti di folla e fiammeggianti di luci nella bella notte d'aprile.  Si sentivano arrivare e fermarsi carrozze, sportelli sbattere rumorosamente, e la gente entrava, a gruppetti, sostando davanti al botteghino, e raggiungendo poi, nel fondo, il doppio scalone, che le donne salivano lentamente, con un leggero ondeggiare dei fianchi.  Nella cruda luce dei gas, sulla smorta nudità di quella sala, che una squallida decorazione Impero trasformava nel peristilio di un tempio di cartone, facevano un violento spicco alti manifesti gialli, coi nome di Nanà in grosse lettere nere.  Alcuni uonúni, come agganciati mentre passavano, li leggevano; altri, in piedi, chiacchieravano, bloccando le porte; mentre, vicino al botteghino, un uomo massiccio, dalla larga faccia rasata, rispondeva burberamente alle persone che insistevano per avere dei posti.
«Ecco Bordenave», disse Fauchery scendendo lo scalone.
Ma il direttore l'aveva già visto.
«Eh!  Siete proprio un amico!», gli gridò da lontano. « è così che mi avete scritto la cronaca?... Ho sfogliato Le Figaro di stamattina: niente.»
«Un momento!», rispose Fauchery. «La dovrò almeno vedere, la vostra Nanà, prima di poterne parlare... Oltretutto, non vi avevo promesso nulla.»
Poi, per tagliar corto, gli presentò suo cugino, Monsieur Hector de La Faloise, un giovane venuto a Parigi a compiere la sua educazione. 
Il direttore lo soppesò con un'occhiata.  Hector, invece, lo osservava con emozione.  Era proprio lui Bordenave, quell'esibitore di donne, che trattava da aguzzino, quel cervello sempre desideroso di pubblicità, quell'uomo vociante. scatarrante, che si dava grandi manate sulle cosce, cinico, con un'anima da sbirro!  Hector pensò che fosse il caso di dirgli una frase gentile.
«Il vostro teatro ... », cominciò con voce flautata.
Bordenave l'interruppe asciuttamente, con una parola cruda, da uomo che ama le situazioni chiare.
«Dite pure il mio bordello.»
Allora, Fauchery fece una risata d'approvazione, mentre La Faloise restava col suo complimento in gola, scandalizzato, ma cercando di far vedere che aveva apprezzato la battuta.  Il direttore, nel frattempo, si era precipitato a stringere la mano a un critico teatrale, il cui giornale aveva una grande influenza. Quando tornò, La Faloise si era ripreso. Temeva di essere considerato un provinciale, mostrandosi troppo sconcertato.

 




Tolouse Lautrec, Au Moulin Rouge
 


Monet, Corsa di Longchamp

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