G. Leopardi - Il rapporto tra l'io e la natura

Alcune meditazioni sul ruolo della natura nella vita dell'uomo

La souffrance della natura. L’infelicità come legge oggettiva dell’universo - Zibaldone, La souffrance di un giardino (1826)

L’infelicità umana e la protesta contro la Natura che esclude dalla bellezza. Il suicidio eroico di Saffo - L'ultimo canto di Saffo ( 1822 )

Il vano tentativo umano di sottrarsi alla legge del dolore universale - Dialogo della Natura e di un Islandese (1824)

La crudeltà e l’indifferenza della Natura: l’assurdità della morte - “Dialogo della Natura e di un Islandese” (1824)

Le appassionate interrogazioni alla natura sul senso della vita - Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1828 )

L’inesorabile,cieca forza del Vesuvio e la dignità della debole ginestra - La ginestra o fiore del deserto (1836)
 


L'io coglie una condizione di necessario patimento nella Natura. Questa condizione è vissuta con empatia e coinvolgimento a livello fisico e psicologico da parte di Leopardi. Tale legge sarà ben presto trasferita ed allargata all'intera condizione di vita dell'uomo sulla Terra ( pessimismo cosmico ).


P.Klee, Singolarità di piante, 1929
 


Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassiscè,- Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. II dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta.
Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro.

( Zibaldone, Bologna, 19 Aprile 1826).
 

L'Islandese è l'esempio paradigmatico dell'uomo che si confronta con le dure leggi di natura ( sofferenza, noia, dolore, morte ), ma possiede anche una moderna sensibilità e vive la paradossale esclusione dal consorzio sociale, che persegue solo falsi obiettivi ed alimenta ricorrenti inutili contrasti tra gli uomini.
 


M. Chagall, Solitudine, 1933
 

ISLANDESE: Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto, tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano.

L'abbandono del desiderio, l'isolamento, l'impossibile ricerca del piacere è sostituita dalla tentata fuga dal dolore ( sensismo )

Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso.

E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell'isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà.

Tuttavia le leggi di natura rendono impossibile l'eliminazione del dolore e della noia

Fatto questo, e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l'intensità del freddo, e l'ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m'inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl'incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi.

L'isolamento forzoso del resto e l'abitudine ad una vita priva di stimoli, nella piena solitudine,  risultano disagevoli. Così l'Islandese tenta di ritrovare la tranquillità mutando la sua sede di vita ( illusione del viaggio )

Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell'animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi restringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d'impedire che l'esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire.

Forse la natura ha previsto che solo in alcuni climi ( luoghi, situazioni ambientali ) gli uomini potessero vivere felicemente

E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane.

La ricerca di un luogo sereno ed adatto in cui vivere è comunque vana; ovunque la legge è quella della sofferenza e del dolore per l'uomo

Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall'incostanza dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove.
 


La Natura è soprattutto bellezza, che gli dei donarono al mondo degli uomini. La bellezza è dunque l'unico tramite che unisce l'io alla realtà esterna e a quella degli altri esseri, essendo generatrice di amore


C. D. Friedrich, Un uomo e una donna davanti alla luna, 1819
 


A. Fontanesi, Aprile, 1873

Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna
; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.


W. Turner, Tempesta di neve, 1842


G. Friedrich, Il mare di ghiaccio,  1823- 24


Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti,
e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,

Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti,
o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno.
A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo.

(....)

L'esclusione dalla bellezza sprofonda l'essere nella legge inesorabile e inspiegabile del dolore. Solo il suicidio, come  volontaria protesta contro la Natura, è capace di annullare l'iniqua crudeltà del destino umano.


John Everett Millais, Ofelia, 1851-1852

Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor.
Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa.
Oh cure, oh speme
De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti;
e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de' casi.

 


La Natura èscoperta nemica dell'uomo, poiché lo perseguita con l'inevitabilità delle sue leggi
( dolore, vecchiaia, morte, esclusione dal piacere ). Questo è il materialismo nell'oggettività dei suoi cicli.


Statua del bosco di Bomarzo

ISLANDESE: In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi.
E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de' viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa:
in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne seguono.

L'irrevocabilità delle leggi materiali è sconosciuta all'uomo. La Natura ha una sua forza intrinseca, operante nell'universo; essa esclude l'uomo da ogni progettualità e finalità ultima.

NATURA: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro, che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

Ancora una volta l'uomo si ribella alla crudeltà di tale legge. Perché dare la vita ad esseri condannati fin dalla nascita al dolore ed alla morte?

ISLANDESE: Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza, e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.


La distruzione e la riproduzione della materia e degli esseri viventi costituiscono le due fasi interconnesse e complementari di vita e di morte in un ciclo necessario per la stessa esistenza dell'universo.



Statua del bosco di Bomarzo

NATURA: Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

ISLANDESE. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?

Le forze di Natura, incontrollabili e imprevedibili, possono annullare in un attimo l'esistenza umana, ignorando ogni argomentazione atta a rivendicare la dignità della vita, vissuta senza patimento.


Statua del bosco di Bomarzo

Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero la forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.
 

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1828 )

La luminosa sagoma della luna in un cielo notturno identifica una presunta purezza della Natura che nelle sue forme squaderna all'uomo un'immutabile e rassicurante presenza, ferma e pacata,  capace di coinvolgere l'animo umano nella quiete appagante dell'atmosfera notturna.

Invece l'animo dell'uomo è segnato dalla continua tensione e dall' inappagato desiderio di pienezza vitale, mentre un'inesausta tensione lo caratterizza per una meta smarrita o inesistente. L'uomo è  del resto conscio dell'epilogo tragico e incomprensibile del suo viaggio doloroso: la morte.

La luna, pura e lontana, fredda e ricca di una saggezza ignota al pastore, pare un oracolo da invocare e non solo una presenza confidente e muta.

Anche la greggia - come la luna - del resto sembra godere di una condizione più invidiabile rispetto a quella umana. Il suo ozioso peregrinare nei prati o il suo giacere all'ombra degli alberi sembra parlare di una fiduciosa sosta sul presente, senza attesa nel domani, di un tranquillo riposo senza domande e senza risposte.

La continua interrogazione sul senso dell'esistere rende invece ancora più angosciosa l'esistenza dell'uomo. La noia, il tedio - intesi come latente insoddisfazione della propria condizione - impediscono di fruire di qualsiasi quiete interiore.

Tuttavia questo fronteggiarsi dell'uomo con le forse naturali - mute e in apparenza proficuamente inserite  nelle leggi dell'universo - non ha alcun senso. Le leggi universali non distinguono la sorte degli esseri. Un'unica ottica nichilista accomuna l'intero universo. E' questa una legge di dolore cosmico che accomuna astri, animali, vegetali ed esseri umani. E' la legge della materia che riunisce inesorabile la vita alla morte di altri esseri.


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.

Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
 

L'interrogazione alla luna, silenziosa presenza e compagna di strada del pastore. Due esperienze parallele - quelle della luna e la vita dell'uomo - che si consumano nella solitudine, eppure con finalità diverse. Eterna è la peregrinazione della luna, breve e finita l'esistenza del pastore.

 

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,

per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s'affretta,
senza posa o ristoro,

lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale
è la vita mortale.
 

La metafora della vita come cammino cieco verso il nulla. Una confessione disperata di estrema sincerità è quella del pastore.
La morte è la meta assurda del viaggio, abisso tragico e immensa vacuità, ove ogni memoria dell'essere si perde inesorabilmente.

Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

 

 

Il destino di sventura dell'uomo ed il suo incomprensibile trapasso verso la vecchiaia e la morte. Perché reggere in vita chi debba essere consolato della sua condizione?

La condizione non mortale, imperitura della luna ( emblema della Natura con le sue eterne forze ) è molto diversa da quella dell'uomo, il cui destino le è forse estraneo.

 

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.

spesso quand'io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?

Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so.
Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.
 

 

O forse la solitaria luna arriva a comprendere il senso del tutto, della stessa legge dolorosa dell'esistenza che l'uomo sopporta in silenzio  quotidianamente.

La presunta saggezza della luna la porta forse a conoscere il senso recondito della realtà e lo scopo di tutte le forze dell'universo.

Il pastore certamente è estraneo a questa condivisione. L'unica realtà percepita è quella del dolore.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno
quasi libera vai;

ch'ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? -

 

 

La greggia felice della sua semplice esistenza a confronto della dolorosa esperienza di vita dell'uomo, contrassegnata dalla noia.

Come si è rivolto alla luna ora il pastore interroga la greggia sul perché l'oziosa vita dell'animale è fonte di appagamento, mentre la noia ( strana e particolare tensione vitale ) consuma l'esistenza umana.

Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
 

 

Nessun essere è detentore di conoscenza superiore e di felicità naturale sconosciuta all'uomo. L'intero universo è sottoposto alla medesima oscura legge.

Il pessimismo cosmico: in ogni tempo ed in ogni luogo l'essenza del vivere è dolore ed infelicità per ogni essere.

La ginestra o fiore del deserto (1836)

La ginestra è compagna di grandezze abbattute.... il suo dolcissimo profumo consola il deserto. La ginestra sorge sul pendio spoglio e sterile del Vesuvio. Essa abbelliva anche le solitarie campagne della città di Roma, ed è tuttora muta testimonianza di antiche glorie ormai scomparse. Un tempo Stabia, Ercolano e Pompei sorgevano sulle falde del monte, che devastò con i suoi fiumi di lava campi e città. La rovina avvolge quei luoghi, ma la ginestra con il suo profumo sembra compiangere le disgrazie umane.

Le magnifiche sorti e progressive. Il secolo attuale ( l'Ottocento ) è considerato da Leopardi superbo e sciocco, poiché non riconosce lo strapotere delle forze di Natura e cerca consolazione nell'ottimismo progressista settecentesco o nel provvidenzialismo cattolico.
E' animo magnanimo chi riconosce la miseria umana e la sopporta con dignità. Solidarietà ci deve essere tra gli uomini, non odio reciproco. La natura matrigna è la sola nemica dell'uomo. Verità, onestà, socialità sono i valori dell'etica laica di Leopardi.


Per rendere emblematico il contrasto tra la dignitosa debolezza della ginestra e lo strapotere delle forze di natura si evoca lo spazio sterminato che avvolge la Terra. Il cielo stellato osservato dalle pendici del Vesuvio dà l'idea della siderale distanza degli astri e più in generale della relatività delle cose umane. Così la fragilità dell'uomo e l'orgoglio umano vanno di pari passo con l'illusione ottimistica nella religione. Tali credenze sono oggetto di riso o di pietà.

L'indifferenza della natura verso le sue creature è totale. L'eruzione del Vesuvio e simile alla distruzione di un formicaio con la sua vita operosa per la caduta di un frutto. Ugualmente la furia del vulcano erompe dalle viscere della terra e in pochi istanti sconvolge e seppellisce ricche città. La natura non rispetta dunque le opere umane.

Si rinnova l'angoscia sempre risorgente da parte degli abitanti della zona vesuviana, ogni volta che il vulcano manda segni di minaccia. La Natura è perennemente giovane. I suoi lunghi cicli la rendono quasi immutabile. L'uomo è invece immerso nella caducità e si vanta ingenuamente di essere eterno.

La ginestra è docile si piega alla furia del vulcano reclinando i suoi steli e soccombendo dignitosamente alla Natura. L'uomo è invece ben più stolto e vanamente superbo, credendosi immortale. Dignità, umiltà, saggezza della ginestra ( simbolo della Natura debole e indifesa, ma suggestiva e bellissima nelle sue esigue forme ) e stoltezza presuntuosa dell'uomo si fronteggiano.

L'ultima opera di Leopardi risolve il confronto tra l'io e la Natura ammonendo sui pericoli dovuti alla mancanza di umiltà e di razionalità da parte dell'umanità. E' la ragione che deve guidarci consapevolmente a cogliere i nostri limiti.


Il Vesusio in una stampa del XVII secolo

 


La ginestra


Qui su l'arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesèvo,
la qual null'altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra, contenta dei deserti.

La Natura è anche la fragranza della delicata ginestra; che si piega cedevole al destino amaro di distruzione sulle falde del Vesuvio.


" Dipinte in queste rive
son dell'umana gente
le magnifiche sorti e progressive;
Qui mira e qui ti specchia
secol superbo e sciocco;
che il calle insino allora
del risorto pensier segnato innanti abbandonasti,
e, volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami

L'uomo è arrogante, orgoglioso del suo sapere e crede di poter comandare facilmente le leggi di natura.


"..Nobil natura; è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,;
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sè nel soffrir........
........................
 tutti fra sé confederati estima
gli uomini;, e tutti abbraccia
con vero amor,..."

La solidarietà; degli uomini deve rivolgersi contro la Natura, la vera nemica dell'uomo.

MODULI DI ITALIANO CLASSE 5^, PAGINA INIZIALE, DOCUMENTI