G. Ungaretti - Allegria di naufragi


"Ci ripugnava fin alle radici del sangue il Decadentismo, quella scuola i cui maestri, e i ridicoli epigoni, si consideravano come gli ultimi superstiti d'una società da esaltare, come la stessa vita, con atteggiamenti neroniani: Ci si renda ben conto di questo:era giusto che allora i giovani sentissero che il discorso fosse da riprendere dall'abbicì e che tutto fosse da recuperare. I Futuristi; in un certo senso avrebbero potuto non ingannarsi se non avessero rivolto l'attenzione ai mezzi forniti all'uomo dal suo progresso scientifico, invece che alla coscienza dell'uomo, che quei mezzi avrebbe dovuto moralmente dominare. S'ingannavano perché avevano fatto proprie le più assurde illusioni derivate dal Decadentismo; immaginando che dalla guerra e dalla distruzione potesse scaturire qualche forza e qualche dignità. Così immaginarono che anche la lingua fosse da mandare in rovina, per restituirle qualche attività e qualche gloria. (....)

La parola; che fosse travolta nelle pompose vuotaggini da un'onda oratoria o che si gingillasse in vagheggiamenti decorativi e estetizzanti, o che fosse prevalentemente presa ; dal pittoresco bozzettistico o da malinconie sensuali, o da scopi non puramente soggettivi e universali mi pareva che fallisse al suo scopo poetico.

Ma fu durante la guerra, fu la vita mescolata all'enorme sofferenza della guerra; , fu quel primitivismo, sentimento immediato e senza veli; spavento della natura e cordialità rifatta istintiva dalla natura; spontanea ed inquieta immedesimazione nell'essenza cosmica delle cose - fu quanto d'ogni soldato alle prese con la cecità delle cose, con il caos e con la morte, faceva un essere che in un lampo si ricapitolava dalle origini, stretto a risollevarsi nella solitudine e nella fragilità della sorte umana, faceva un essere sconvolto a provare per i suoi simili uno sgomento ed un'ansia smisurati e una solidarietà paterna - fu quello lo stato d'estrema lucidità e d'estrema passione a precisare nel mio animo la bontà della missione già intravista, se una missione avessi dovuto attribuirmi e fossi stato atto a compiere, nelle lettere nostre.

Se la parola fu nuda; , se si fermava a ogni cadenza del ritmo, a ogni battito del cuore, se si isolava momento per momento nella sua verità, era perché in primo luogo l'uomo si sentiva uomo, religiosamente uomo; e quella gli sembrava la rivoluzione che necessariamente dovesse in quelle circostanze storiche muoversi dalle parole. Le condizioni della poesia nostra e degli altri paesi allora, non reclamavano del resto altre riforme se non questa fondamentale."
 


S. Martino del Carso

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
è il mio cuore
il paese più straziato
 

Da una parte c'è il richiamo descrittivo che fa riferimento alla devastazione di un paese colpito dalle artiglierie nemiche ed alla perdita ancor più dolorosa di tanti compagni, dei quali non resta alcun concreto riferimento.
Del resto sul piano simbolico, la situazione evocata serve per ribadire che il ricordo dei morti è incancellabile, nel suo cuore - il paese più straziato - nessuna traccia di quelle presenze e di quelle esperienze condivise manca. La croce diviene emblema di sacrificio patito, quasi religiosamente, e, come tale, altrettanto religiosamente ricordato dal poeta.

Veglia

Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore.
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.

Cima Quattro il 23 dicembre 1915
 


L'uomo in guerra è per Ungaretti: " un essere che in un lampo si ricapitola dalle origini, stretto a risollevarsi nella solitudine e nella fragilità della sorte umana".
La poesia Veglia esemplifica tale concetto con forza, delineando - nell'evidente crudezza dei particolari - la contiguità angosciante con l'orrore della morte. La presenza del corpo di un compagno massacrato, con lo sguardo vanamente proteso alla luce lunare ( testimonianza crudele dell'umana distruttività dinnanzi alla bellezza perdurante della natura ) si protrae un'intera notte. Tale vicinanza diventa forse incubo ossessivo ma ancor di più monito e spinta a ritrovare il senso vero della vita umana.
Solo la parola poetica può salvare dallo strazio della morte, cruda testimonianza di odio insensato: le parole di Ungaretti sono piene d'amore e l'attaccamento alla vita è la naturale, involontaria rivolta dell'uomo presente alla sua fragilità ( I fiumi )
 

Non gridate più

Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
 

Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo


La poesia è stata scritta nell’immediato dopoguerra. Assume la forma di preghiera rivolta a coloro che hanno superato la tragedia di quegli anni. Il dolore privato che gli individui sopportano per la perdita dei propri cari si trasforma in dolore universale che permette di comprendere la sofferenza patita da tutti durante la guerra. Coloro che hanno perso la vita in battaglia non devono essere dimenticati perché il loro sacrificio serva a riscoprire i valori della solidarietà e della pietà. I caduti, quindi, inviano ai vivi il loro messaggio (“l’impercettibile sussurro”), per superare  odi e divisioni di parte che ancora insanguinano la vita politica e civile.
 

Un'altra opinione sul rapporto tra guerra e letteratura
Renato Serra - La guerra...... una distruzione enorme e inutile

 
 

«... La letteratura non cambia.  Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell'ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l'aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni;
[... ]. E' inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un'altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra.

Forse il beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in se stessa: un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie.  Si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità, individui e nazioni: finché non disimparino...
Ma del resto è una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile.

Parlavo prima di coloro che vorrebbero, per un istinto dei cuore, sospendere quasi il corso dell'universo: obbligare tutte le cose a subire l'effetto di questa guerra, a conservarla, a continuata, a non lasciar perdere niente dello sforzo durato dall'umanità. E' un'illusione; non meno naturale che vana.
Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d'accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore.
Può esserci anche qualche cosa di vero, finché si resta per quelle strade,  fra quelle case.
Ma io vivo in un altro luogo.  In quell'italia che mi è sembrata sorda e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l'uno all'altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché: se venga l'ora.»

MODULI ITALIANO CLASSE 5^, DOCUMENTI