Comunicazione didattica

Scuola & Città
3/04/2006

di Edoardo Lugarini

   Per  comunicazione didattica si intende la comunicazione che interviene tra insegnante e allievo e tra allievo e allievo  e che si propone intenzionalmente di generare, produrre apprendimento. A scuola essa si realizza in eventi comunicativi canonici: spiegazione, esercitazione, interrogazione, lavoro di gruppo, discussione, ecc. e si conclude con una verifica e una valutazione.


l. COMPRENSIONE E PRODUZIONE ORALE: DAL PRODOTTO AL PROCESSO

   Nella letteratura didattica corrente le abilità di ascolto e parlato sono descritte in termini di competenze da acquisire, sviluppare ed impiegare in relazione ad una varietà di situazioni comunicative di tipo funzionale (correlate, cioè, a specifici contesti sociali) oppure scolastico (correlate ai contesti di apprendimento e di verifica dell'apprendimento stesso) e personale (quelle legate ai bisogni soggettivi del parlante), nell’ambito delle quali si comprendono e si producono diversi tipi di "testo" e di "discorso" usando varietà diverse di lingua secondo criteri di adeguatezza alla situazione comunicativa in cui il parlante agisce o, meglio, interagisce.
   Da questo punto di vista, e in riferimento a situazioni di apprendimento scolastico, l’ascolto e il parlato si possono considerare come un "prodotto", inteso come prestazioni dell’allievo, più o meno osservabili nel caso dell’ascolto, in relazione ad un compito definito nell’ambito di una situazione o sequenza di apprendimento avente lo scopo di esercitare e sviluppare una o più specifiche competenze sottese a queste due abilità.
   Considerare questo punto di vista prevede che l’insegnante costruisca un curricolo in base ad una preliminare definizione di obiettivi di apprendimento e sviluppo delle abilità orali, partendo, secondo uno schema classico dalla rilevazione dei livelli di partenza degli allievi, dalla determinazione degli standard di arrivo, dalla rilevazione dei bisogni extrascolastici e scolastici degli allievi stessi, dalla indicazione degli obiettivi e dalla programmazione dei percorsi didattici intesi al loro raggiungimento, in una interazione crescente e problemica di competenze e conoscenze. Tutto ciò in relazione a previa:
 
a) conoscenza delle caratteristiche della lingua parlata. L’insegnante sa, ad esempio, che:
- gli usi parlati di una lingua si amalgamano con gli usi informali;
- i poli estremi formale / informale sono sì attraversati da scritto e parlato, ma il polo di massima formalità attrae in particolare lo scritto e il polo di massima informalità il parlato;
b) nella comunicazione orale un ruolo forte è svolto, nella comprensione e nelle modalità e nella struttura del parlato, da fattori extralinguistici e dal contesto in cui avviene la comunicazione stessa, con la possibilità, da parte degli interlocutori, di fare maggiore ed implicito riferimento alle presupposizioni, alle conoscenze previe, ai valori condivisi, agli schemi interpretativi di chi, di volta in volta, nell’interazione, parla o ascolta. Rilevanza particolare assume perciò l'implicito e ruolo determinante ha la capacità inferenziale degli interlocutori;
c) nella lingua parlata svolge un ruolo importante la deitticità, l’occorrenza lessicale è più povera rispetto allo scritto, e frequente è il ricorso a stereotipi espressivi;
d) la lingua parlata è caratterizzata da discontinuità e frammentarietà e cioè da esitazioni, false partenze, cambiamenti di programma, autocorrezioni, sintassi fratta, frasi incompiute, ecc.;
e) analisi delle abilità di ascolto e di parlato in termini di capacità (tassonomia delle competenze): tecniche, ovvero relative agli aspetti fisici del codice lingua; semantiche, relative ai significati degli elementi linguistici; sintattiche, relative alle relazioni tra gli elementi linguistici; testuali, relative ai rapporti interni ad un testo (coesione e coerenza) e alla sua tipologia (narrativo, descrittivo, argomentativo, ecc.); pragmatiche, relative al rapporto tra messaggio e situazione comunicativa; selettive: utilizzazione del messaggio per uno scopo determinato; ideative (per la produzione orale), relative alla ideazione e pianificazione del messaggio;
f) analisi delle tipologie testuali e della tipologia dei mezzi/modi della comunicazione (faccia a faccia, a distanza; monologica, dialogica, ecc.);
g) analisi della tipologia delle situazioni comunicative: informali /formali; relative alla vita quotidiana, funzionali a scopi sociali, personali o di apprendimento in ambito scolastico, ecc.

   Dal punto di vista delle abilità di ascolto e parlato intese come “prodotto”, qual è il ruolo dell'insegnante? Egli:

1. Definito un obiettivo, lo analizza in prerequisiti e capacità specifiche che l’allievo deve, attraverso l’esercitazione, acquisire. Ad esempio l’obiettivo “l’allievo sa prendere appunti ascoltando una spiegazione” può essere così descritto:
prerequisiti:
i)    l’allievo è capace di mantenere un ascolto attento e finalizzato (almeno in base ad uno scopo indicato
     dall’insegnante) per  8-10  minuti;
ii)  l’allievo ha alcune conoscenze di base sull'argomento, derivanti da precedenti esperienze scolastiche
      o extrascolastiche o appositamente fornite dall'insegnante.

capacità specifiche (testuali, semantiche, selettive):
i) l’allievo sa individuare il tema del testo orale in base sia alla struttura del testo sia alle proprie esperienze previe (struttura del contenuto);
ii) sa individuare i sottotemi di un testo orale e correlarli al tema centrale;
iii) sa selezionare le informazioni marginali e “cancellarle”;
iv) sa selezionare le informazioni importanti e riportarle sintetizzandole o generalizzandole;
v) riconosce le parole che non comprende e utilizza strategie adeguate a seconda che si tratti di parole-chiave o marginali (ascolto flessibile, annotazione per una consultazione successiva, capacità di porre domande pertinenti, ecc.);
vi) (produzione scritta) utilizza strategie per rendere efficaci gli appunti (ad esempio appunti lineari, appunti a schema; scelta di abbreviazioni, di segni convenzionali, ecc.)
vii) tenendo conto dell’analisi dell’obiettivo, individua e descrive le attività didattiche che possono essere sviluppate sistematicamente durante, ad esempio, un anno scolastico, per arrivare alla fine al raggiungimento dell'obiettivo.

2. Costruisce un piano di lavoro e, al suo interno, sequenze di lavoro entro le quali collocare, secondo un percorso graduale di difficoltà, le attività didattiche;
- assegna i compiti, dà istruzioni per la corretta esecuzione delle attività didattiche;
- monitora e segue il lavoro dell’allievo, suggerisce, dà spiegazioni, ecc.;
- verifica e valuta il lavoro dell’allievo nelle diverse fasi di realizzazione dei “compiti” e delle attività.

   Nel considerare le abilità orali come “prodotto” vi sono diversi vantaggi, fra i quali, non trascurabile, la possibilità da parte dell’insegnante di programmare per obiettivi, di individuare le attività didattiche idonee a raggiungerli, di pianificare percorsi di apprendimento di cui può controllare ogni fase, di osservare il comportamento degli allievi e, perciò, di verificarne e di valutarne prestazioni e risultati. L’apprendimento, da parte dell'allievo, avviene in modo lineare, per trasmissione di conoscenze, per imitazione di modelli, per attività guidate.
   Vi è tuttavia un limite in questo approccio “produttivo”: non si interviene sul come avviene l’apprendimento, non è possibile (o lo è poco) osservare, controllare e guidare i processi cognitivi che l’allievo attiva quando apprende. L’approccio produttivo può essere integrato con un approccio diverso, che potremmo definire processuale, in quanto attento a considerare le abilità, appunto, come processo cognitivo, oltre che linguistico, piuttosto che come prodotto. Si tratta di un approccio correlato al concetto di comunicazione didattica.
   Si tratta di un tema legato a tutte le aree disciplinari, non solo a quella dell’educazione linguistica, con numerosi elementi comuni a tutte le discipline ed alcuni specifici delle singole aree, e che coinvolge la metodologia e gli stili stessi dell’insegnamento. A seconda, infatti, che la comunicazione in classe si veda soprattutto nella sua dimensione informativa, secondo il modello lineare classico, o invece nella sua dimensione interattiva e relazionale, mutano sensibilmente la metodologia che l’insegnante adotta per far apprendere ai suoi allievi, l’organizzazione della classe, la percezione dei ruoli, ecc.
   La distinzione tra i due tipi di approccio, che trova probabilmente un suo punto di incontro sul piano della didattica, mette dunque a confronto operazioni più di tipo micro (obiettivi specifici, prestazioni) con creazione di contesti interattivi e progettazione dell’apprendimento come problem solving e come costruzione delle conoscenze.


2. LA COMUNICAZIONE DIDATTICA

   Le variabili in gioco nella comunicazione in classe sono tante e tali (caratteristiche degli interlocutori, età, sesso, loro conoscenze, “curricolo implicito”, ruolo reciprocamente riconosciuto, stile dell’insegnante, modalità di relazione tra insegnante e allievi e tra allievo e allievo, scopi condivisi, ecc.) da renderne assai complessa l’analisi, anche per la varietà dei punti di vista che possono essere adottati in proposito.
   In generale appaiono costitutive della comunicazione didattica l’asimmetria dei ruoli insegnante/allievo, a cui si accennerà più avanti, e un certo grado di artificiosità, che è propria di una comunicazione fortemente finalizzata e, dunque, continuamente monitorata, quanto meno dall’interlocutore “docente”.
   A seconda poi di specifici punti di vista si possono individuare altre caratteristiche particolari: 

a) se si analizza la comunicazione didattica per individuare le funzioni (cfr. Amidon-Hunter, 1966) svolte direttamente o indirettamente dal docente, l’attenzione si pone sulle funzioni propositive, direttive e di feedback esercitate dall'insegnante e/o degli allievi. Da questo punto di vista la ricerca ha rilevato, in termini anche quantitativi, l'assoluta prevalenza e centralità dell'insegnante che ben poco spazio lascia agli interventi dell'allievo e come, nella comunicazione didattica, sia sempre presente un elemento relazionale/affettivo che può facilitarla, ostacolarla o addirittura bloccarla;

b) se si analizza la comunicazione didattica dal punto di vista dell’analisi della conversazione o del discorso emergono indicazioni diverse in relazione, sembra, al diverso modello di scuola. Mentre ad, esempio, le ricerche inglesi o americane rilevano, nell’interazione verbale in classe, come prevalenti mosse discorsive del tipo “sollecitazione - risposta - reazione” e del tipo “sollecitazione-risposta”, le ricerche condotte in Italia agli inizi degli anni Ottanta (cfr. Berruto, 1983) e Novanta hanno messo in evidenza come le mosse interattive docente - allievo si dispongono secondo un modello meno rigido, facendo supporre che, all’interno della comunicazione didattica stessa, coesistono o tendono ad essere compresenti e intersecantesi due modelli interazionali diversi, quello didattico vero e proprio focalizzato sull’insegnamento e quello riportabile al modello corrente di conversazione quotidiana, focalizzato almeno in parte sulla definizione e messa in discussione dei ruoli e sull’espressione personale. Così mosse di apertura sono presenti anche nel discorso dell’allievo, come pure mosse di contro-prosecuzione che spezzano la sequenza classica sollecitazione - risposta - reazione, rimettendo in discussione i ruoli istituzionali;

c) la comunicazione didattica può essere analizzata anche dal punto di vista della organizzazione della comunicazione in classe, là dove la classe sia intesa come sistema di interazione e l’insegnante visto come "regista" della comunicazione/interazione. Si tratta di un punto di vista meno strettamente linguistico e che si può definire “sistemico” in quanto la classe viene considerata come un gruppo caratterizzato dalla integrazione di tutte le modalità interattive dei suoi membri. In questa ottica l’intervento su un elemento del sistema (ad esempio le diverse modalità di organizzazione dello spazio classe e la diversa disposizione in questo spazio (disposizione frontale, a cerchio, a piccoli gruppi di lavoro, ecc.) si traduce a tutti i livelli del sistema stesso.

   Il funzionamento di un sistema di questo tipo è generalmente “regolato”, ma non necessariamente determinato, da un insegnante-regista, che comunque fa parte egli stesso del sistema e ne è condizionato. La ricerca ha messo in evidenza come in ogni sistema-classe scatti una sorta di autoregolazione che permette di sostituire progressivamente modi di comunicazione poco efficaci con altri ritenuti più idonei allo scopo di apprendimento. In questa prospettiva può essere riletta la programmazione didattica dell’insegnante che diviene sostanzialmente allestimento, organizzazione e direzione delle condizioni comunicative cui deve far seguito, da parte degli allievi, un apprendimento non solo disciplinare, ma anche comunicativo (“apprendere a comunicare per apprendere”: per comunicare, analizzare, confrontare, mettere in relazione, sistematizzare, interpretare, verificare, valutare conoscenze, esperienze, metodi, ecc.).
   Nell’ambito del sistema l’insegnante ha dunque una funzione centrale, ma, nella “regia” della comunicazione, pone in atto non solo situazioni di tipo asimmetrico, ma anche di tipo simmetrico, quando, ad esempio, attivi, su un compito dato, un lavoro tra gruppi di allievi, e quindi tra “pari” ruolo, oppure si ponga egli stesso solamente come “risorsa” degli allievi all’interno di una attività euristica. In effetti la comunicazione didattica è tendenzialmente una comunicazione simmetrica complementare in quanto si basa sulla differenza di contenuti e di ruoli tra insegnante e allievi, ma si tratta di una differenza percepita in modo esplicito e accettata tanto dall’insegnante quanto dagli allievi: tra insegnante e allievi può intercorrere un vero e proprio “contratto formativo” con la dichiarazione delle finalità, degli obiettivi, dei metodi, delle procedure dell’attività didattica e dei diversi ruoli interazionali che possono essere assunti a seconda dei tipi di “compiti” e dei “lavori”, dei “progetti didattici” atti a quelle finalità e quegli obiettivi da raggiungere.
   Comunicazione asimmetrica non è dunque, da questo punto di vista, sinonimo di stile d’insegnamento direttivo, in cui l’insegnante persegue i propri scopi educativi e didattici tenendo in poco o nessun conto i bisogni formativi dei suoi allievi, la loro reazione alle proposte didattiche e, più in generale, senza considerare gli aspetti relazionali. Al contrario in una comunicazione asimmetrica complementare lo stile educativo dell’insegnante si configura come “attento alle relazioni”, ragion per cui egli:

a) manifesta costante attenzione per quanto i suoi allievi esprimono, non dà mai disconferme, ad esempio non valorizzando gli interventi degli allievi, non rispondendo loro o comportandosi come se non avesse recepito il loro messaggio;
b)  promuove in modo sistematico momenti e processi di feed-back, di risposta da parte degli allievi;
c) valorizza tali processi di feed-back sia utilizzandoli come risorsa, integrandoli nel proprio discorso sia riprendendoli in momenti successivi dell’attività didattica;
d) stimola gli allievi ad ampliare, ad approfondire il loro discorso attraverso forme di “intervento a specchio” (1), riprendendo cioè parole, espressioni dell’allievo per riesporgliele in forma dubitativa, quasi per chiedergli se ha capito bene, in realtà per incoraggiarlo a continuare il discorso, arricchendolo dal punto di vista motivazionale, argomentativo, esplicativo, esemplificativo, descrittivo o narrativo, a seconda dei casi;
e) nel caso debba intervenire correggendo o “rifiutando” in quanto non pertinente l’intervento dell’allievo, si preoccupa di chiarire, attraverso un atteggiamento appropriato, che la valutazione dell’intervento riguarda esclusivamente il suo contenuto informativo, linguistico e non la persona dell’allievo che è invece sempre oggetto di stima. L’insegnante non mette in discussione la positiva relazione con l’allievo, ma solo il "prodotto" e comunque per migliorarlo onde consentire all’allievo di avere poi successo;
f) tutte le volte che è possibile, valorizza l’allievo come “iniziatore” della comunicazione, consentendogli cioè di avviare la comunicazione e non solo di rispondere agli stimoli come nel modello classico della comunicazione didattica;
g) osserva con attenzione la comunicazione tra allievi, il modo e la qualità delle loro relazioni all’interno del gruppo, le modalità espressive, la capacità di assunzione e di gestione di ruoli e, se necessario, interviene allo scopo di rafforzare il ruolo degli allievi che meno partecipano e di evitare comunicazioni distorte.

   Nei punti d, f, e g si fa riferimento a due altre prospettive, per altro strettamente correlate, che possono essere considerate nell’ambito della comunicazione didattica: la comunicazione come strumento di facilitazione ed individualizzazione e l’arte dell’incoraggiamento.
   La prima trae spunto dalle strategie di tipo terapeutico previste da Rogers che, rielaborate ed utilizzate nella pratica di classe, consentono di favorire la comprensione orale e l’interazione degli allievi, in particolare quelli portatori di svantaggio linguistico-comunicativo e cognitivo. Caratteristiche fondamentali di questa prospettiva sono l’attenzione costante al singolo e il tentativo di migliorarne progressivamente le strategie comunicative attraverso:
-  la riflessione dell'insegnante su momenti critici della comunicazione e della interazione verbale;
-  l’adozione di un comportamento comunicativo consapevole;
- la verifica dei risultati immediati (il comportamento comunicativo dell’allievo in una situazione interazionale finalizzata all’apprendimento mentre questa si attua) e a lungo termine (gli effetti autocorrettivi in progress).
  
   La seconda, dalle connotazioni per certi aspetti più comportamentistiche che cognitive, è la prospettiva dell’agire educativo come incoraggiamento mirante a modificare i comportamenti comunicativi e interazionali, anche sul piano affettivo, degli allievi. L’insegnante svolge la funzione centrale di promuovere non solo uno sviluppo graduale e ottimale degli apprendimenti, ma anche della personalità dell’allievo, attivando processi e strategie di intervento che favoriscano nell’allievo la crescita dell’autostima, della sicurezza personale, della fiducia nelle proprie possibilità e capacità, la consapevolezza delle competenze acquisite.
   L’incoraggiamento passa, in buona parte, attraverso una corretta organizzazione della comunicazione in classe e ciò richiede che l’insegnante abbia egli stesso, oltre a solide competenze linguistiche e comunicative, anche adeguate capacità relazionali.
   I tratti della comunicazione didattica sopra indicati implicano da parte dell’insegnante almeno le capacità seguenti:
a) saper analizzare ed osservare chi interagisce (decodificazione dei comportamenti verbali);
b) saper progettare i propri atti comunicativi verbali e non (pianificazione dell’interazione);
c) saper ordinare i propri atti (interazione come azione pertinente rispetto a momenti e situazioni diverse);
d) saper verificare i propri atti comunicativi (auto-osservazione) e quelli altrui (osservazione degli effetti dell'interazione organizzata).
 
   L’importanza di queste capacità diventa chiara se si considera il fatto che l’interazione verbale risulta più o meno favorevole allo sviluppo linguistico e cognitivo non in base al tipo di attività o di compito proposto dall’insegnante quanto piuttosto in base al modo in cui esso è proposto e svolto. Ma questo dipende, a sua volta, dalla capacità dell’insegnante di controllare il processo e le strategie comunicative e interrelazionali poste in atto.
 
   Anche dal punto di vista dell’insegnamento l’approccio coerente con tali tratti della comunicazione didattica è quello che viene definito “costruttivista”, un approccio in cui:
a) apprendere non significa "assorbire" un prodotto, ma integrare i meccanismi di un processo che tende a modificare durevolmente un comportamento;
b) si valorizzano i progetti degli allievi e si tiene particolarmente conto delle loro conoscenze pregresse, delle loro idee, delle loro concezioni, del loro punto di vista, degli ostacoli che essi incontrano nell’apprendere e del modo con cui essi costruiscono il loro sapere;
c) gli allievi sono parte attiva nel processo di apprendimento;
d) conduce ad una conoscenza di tipo concettuale;
e) sono integrati in un unico processo il sapere, il saper fare e il saper essere.


3. MONOLOGICITÀ E DIALOGICITÀ: MODALITÀ DI COMUNICAZIONE FACILITANTI O MENO L’APPRENDIMENTO.

   A questo punto è necessario focalizzare l’attenzione sulle forme di comunicazione che caratterizzano la scuola.  In genere, in ambito scolastico, si presentano tre diversi tipi di comunicazione:
l.  dialogica;
2. apparentemente dialogica;
3. monologica.

   Qui si formula l’ipotesi che, man mano che si procede nei diversi livelli di scolarità, ovvero dalla scuola primaria (6-11 anni), alla scuola secondaria di primo grado (12-14 anni) alla scuola secondaria superiore (14-19 anni), la comunicazione “tenda” al monologico e si basi su presupposti dell’insegnante, spesso non verificati, di una base conoscitiva e soprattutto culturale comune (“culture” diverse dalla propria possono essere spesso dal docente non riconosciute come tali e perciò non accolte, non accettate e, per così dire, “emarginate”).

1. All’interno di una comunicazione didattica asimmetrica, definiamo come dialogico un discorso in cui il regista della comunicazione, l’insegnante (one-up) non solo si rivolge esplicitamente agli allievi (one down), formula domande e raccoglie risposte, ma anche:
- cerca di far emergere conoscenze precedenti;
- raccoglie dagli allievi informazioni associabili in vario modo all’argomento;
      - data dall’allievo una risposta errata, la discute in modo da attivare il frame, la mappa cognitiva adatta;
- accetta la contraddizione;
- fornisce un supporto per la rielaborazione dei vari interventi suoi e degli allievi.

2. Nelle situazioni solo apparentemente dialogiche, la forma è quella dell’interazione, dello scambio, ma in realtà l’insegnante costruisce a più voci un discorso da lui rigidamente predeterminato e programmato. Le conoscenze non “utili” che gli allievi possono apportare vengono non discusse e messe da parte come non pertinenti.

3. Il discorso monologico, che sembra caratterizzare il momento della spiegazione nei livelli superiori di scuola, non è monologico solo come forma, ma risulta spesso non tenere in alcun conto le conoscenze previe degli allievi (se non quelle già proposte all'interno della disciplina), il loro punto di vista, il loro “interesse”, i loro “frames” e le loro mappe concettuali.

   Il dialogo apparente e il monologo hanno in comune il fatto che la conoscenza e il ragionamento sono completamente costruiti dall’insegnante; la funzione degli allievi è di dimostrare che stanno seguendo il ragionamento dell’insegnante rispondendo correttamente ad eventuali domande e/o di ascoltare e capire con uno scopo (e una verifica) rinviato: quello di dimostrare in seguito, spesso ad una distanza di tempo di diverse settimane, attraverso l’interrogazione, di aver appreso, di “sapere”.
   Dominante è dunque la funzione trasmissiva dell’insegnare, non vi è esplita didattica dell’ascolto e del parlato, anzi, il possesso di competenze adeguate è dato per scontato. Lo stile d’insegnamento latente nella comunicazione monologica o apparentemente dialogica è quello diretto, ovvero per trasmissione di conoscenze: gli allievi apprendono a riprodurre, confondono memorizzazione con apprendimento (e difficilmente i contenuti permangono nella memoria a lungo termine), non sono spesso in grado di utilizzare quello che sanno, o, meglio, come si diceva sopra, non possono utilizzarlo che in situazioni a loro volta monologiche o falsamente dialogiche come l’interrogazione, hanno poche possibilità di sviluppare il pensiero critico e la creatività.
   Il dialogo apparente sembra inoltre risvegliare una partecipazione alla comunicazione di tipo soprattutto competitivo; la forma monologica, che rispecchia la tradizionale “lectio”, probabilmente, se può in qualche caso coinvolgere con la forza del ragionamento e l’interesse degli argomenti portati o della affabulazione, in molti altri è vissuta dagli studenti come un momento “lontano”, che non li implica se non occasionalmente e alla quale si può prestare un’attenzione relativa e fluttuante o che addirittura si può spegnere, consapevoli che le stesse informazioni saranno ricavabili da altre fonti, ad esempio il libro di testo. E la distanza tra insegnamento e apprendimento attraverso lo studio aumenta nel dilazionarsi nel tempo della riutilizzazione eventuale delle informazioni e del momento della verifica e della valutazione.
   Anche se la comunicazione monologica e quella apparentemente dialogica possono, con alcune cautele, essere previste nelle fasi dell’insegnamento-apprendimento scolastico ed essere comunicazioni felici, esse, come abbiamo visto, funzionano, nel migliore dei casi, come momenti di trasmissione delle conoscenze, mentre qui si assume che la comunicazione didattica deve anche prevedere momenti di co-costruzione delle conoscenze. Momenti che si possono attuare sia nel dialogo tra pari sia in una comunicazione guidata dall’insegnante, ma realmente aperta ai contributi di tutti, con l’insegnante e l’allievo che, nel caso, usano insieme strumenti e risorse didattiche per la co-costruzione delle conoscenze (oggetti, fonti, dati, testi, documenti, appunti, schemi, grafici, immagini, video, computer, Internet, ecc.).


4. COMUNICARE PER CO-COSTRUIRE LE CONOSCENZE

   Vediamo ora alcune implicazioni didattiche in termini di competenze e funzioni dell’insegnante, di scelte che questi deve fare relativamente all’organizzazione della comunicazione, e più in generale, alle metodologie da utilizzare e delle competenze comunicative degli allievi. In buona parte tali implicazioni sono già emerse nella discussione dei paragrafi precedenti, esse vanno completate tenendo conto dei fattori che rendono felice oppure non felice la comunicazione didattica.
  
La comunicazione didattica non è felice quando:
a) non vi è sufficiente attenzione da parte dell’insegnante alle differenze tra sé e gli allievi e tra gli allievi in termini conoscitivi e culturali;
b) la comunicazione tende ad appiattirsi su un’informazione monologica, per altro povera nei suoi codici;
c) non si prevede uno spazio cognitivamente impegnativo e interattivo: uno spazio dialogico in cui sia effettivamente possibile negoziare e costruire significati e conoscenze.

Per uno sviluppo felice della comunicazione è necessario che:
a) gli insegnanti si pongano il problema della comunicazione, insieme  con quello  della differenza,   come   aspetto centrale della propria professionalità, attraverso la consapevolezza che, quando la comunicazione non funziona  o funziona male, le stesse finalità della scuola, sia formative che di “istruzione”, sono poste a rischio;
b) si ripensi agli strumenti che possono essere utilizzati per il passaggio di informazioni e per sperimentare seriamente i processi indotti e i risultati raggiungibili attraverso strumenti multimediali che, a loro volta, richiedono interazione, seppure di altra natura, da parte degli allievi che “dialogano” con la macchina;
c) si dedichino, nella scuola, degli spazi consistenti al dialogo come momento comune, cognitivamente impegnativo, di costruzione delle conoscenze, intendendo che il termine dialogo sia assunto nel suo valore forte ed originario di “conversare, discutere, domandare e rispondere tra persone associate dal comune interesse per la ricerca”; va dunque analizzato come il dialogo possa e debba instaurarsi sia tra pari (cooperative learning) sia in situazione di interazione tendenzialmente asimmetrica, studiandone anche le potenzialità telematiche;
d) la  comunicazione diventi un reale oggetto di riflessione anche per gli allievi i quali devono essere resi consapevoli delle variabili comunicative che più frequentemente ricorrono nelle loro esperienze al di fuori della scuola e di quelle che sono proprie della comunicazione per apprendere in ambito scolastico; delle caratteristiche, dei vantaggi e dei limiti dei diversi mezzi di comunicazione; dei comportamenti da loro messi in atto nelle diverse situazioni. Deve essere loro permesso di scoprire forme e mezzi di comunicazione che risultano, per il singolo, particolarmente efficaci.
  
   In questa prospettiva occorre prevedere anche situazioni in cui l’allievo impari a capire l’altro (l’importanza di saper porre domande è spesso sottovalutata nella pratica di insegnamento), a esprimere se stesso, a descrivere, argomentare, esemplificare, spiegare, narrare, in modo che il parlare non sia solo un parlare regolativo, ma anche euristico e formativo.
   La comunicazione deve infine essere considerata un oggetto trasversale di studio e di sperimentazione tra tutti gli insegnanti delle diverse discipline, insegnanti che, in una più generale prospettiva metodologica, hanno cura di sostenere e focalizzare l’attenzione degli allievi per far progredire l’analisi di un problema, la conoscenza disciplinare e di produrre “conflitto cognitivo”, connettendo le posizioni, i saperi degli allievi ed esplicitando le divergenze e le convergenze tra questi.
   Non considerando qui le competenze relazionali, che pure sono centrali quando si voglia insegnare e imparare dialogando, possiamo dire che le abilità linguistico-comunicative implicate nel dialogo sono molte e complesse; in un certo senso esse si manifestano a specchio nell’insegnante e nell’allievo (per dialogare bene bisogna saper dialogare bene in due), anche se possiamo supporre una maggiore competenza dialogica nell’insegnante, il cui comportamento può, in senso debole, fare da modello per l’allievo.

   Proviamo tuttavia ad enunciare alcune “consapevolezze” ed abilità cruciali sottese al dialogo. Per bene dialogare occorre avere consapevolezza di che cosa significhi dialogare e, in particolare, dialogare per costruire conoscenze:
a) necessità di ascolto attento, finalizzato verso lo scopo condiviso, creativo, che prevede cioè,  motivazione, interesse e un’attiva partecipazione mentale, con l’evocazione rapida di dati pertinenti ricavati dalla propria mappa cognitiva, per un’interazione a sua volta pertinente, e, infine, critico, tale da poter percepire e poter valutare il messaggio dell’altro per aderirvi o per dissentire, per integrare, per stabilire confronti, per argomentare, e così via;
b) necessità della cooperazione verso uno scopo comune attraverso l’argomentazione cooperativa e non competitiva;
c) la capacità di “costruire” l’interlocutore, ovvero di riconoscere impliciti e presupposizioni logiche diverse dalle proprie.

   Dal punto di vista più strettamente linguistico il dialogo richiede:
a) lo sviluppo delle capacità di ascolto focalizzato e critico più sopra ricordate;
b) l’uso di strategie “per mantenere aperto il canale”, ad esempio formulare domande, ripetere consapevolmente l’intervento di un altro, confermare, riferirsi in modo pertinente ad una esperienza personale, ecc.;
c) l’uso di strutture e forme proprie dell’argomentazione cooperativa: ad esempio saper intervenire per sviluppare il ragionamento comune con i seguenti atti:
- apportare elementi nuovi;
- mettere in relazione;
- spiegare;
- esemplificare;
- delimitare l’ambito di rilevanza di un dato, di un argomento, ecc.;
- opporsi o contropporsi con argomentazioni motivate;
- giustificare, dimostrare;
- comporre delle relazioni di livello più alto;
- problematizzare;
- riformulare;
- ristrutturare;
- sintetizzare;
- generalizzare.

    Occorre considerare che l’utilizzo della lingua in queste e altre funzioni tipiche della comunicazione dialogica avviene dapprima in forme quasi inconsapevoli e poco differenziate e articolate linguisticamente. Risulta perciò chiaro che nel dialogo l’attenzione maggiore, anche da parte dell’insegnante, non dovrà riguardare gli aspetti linguistici, se non per assicurare una certa coerenza del discorso nel suo complesso, diversamente da quanto accade, in genere, nella didattica dell’ascolto e del parlato come “prodotto”, richiamata all’inizio di questa intervento. Tuttavia l’uso sistematico di modalità dialogiche sia da parte dell'insegnante che “spiega” sia in gruppi di pari può permettere un’evoluzione verso una maggiore “precisione linguistica” all’interno del dialogo stesso e nei momenti di generalizzazione e di sistematizzazione delle conoscenze costruite che dovrebbero seguire una sequenza dialogica (fase della “formalizzazione” delle conoscenze), per coniugare, fra l’altro, la co-costruzione dialogica dei saperi agli altri momenti formativi e di istruzione, alle altre attività curricolari di apprendimento, alle altre abilità linguistiche di lettura, di scrittura e di studio che richiedono in modo più esplicito usi linguistici diversi, di registro più formale, e che attivano altri processi cognitivi così che questi si integrino tra loro per una più sicura interiorizzazione e padronanza mentale delle conoscenze.
 

NOTE

1. Si vedano a questo riguardo gli articoli di Lucia Lumbelli ripubblicati nel n. 1, 2005 di «Scuola e Città ».
2. Dall’analisi qui condotta è esclusa, poiché pone questioni particolari e specifiche legate, tra l’altro, all’apprendimento di una lingua seconda in contesti naturali e/o scolastici la comunicazione con allievi non italofoni.


BIBLIOGRAFIA

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ANOLLI L. 2002. Psicologia della comunicazione. Bologna: Il Mulino.
CARLI, A. (a  cura di), Stili comunicativi in classe. Milano: Franco Angeli
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