Contraddittorietà del rapporto con la donna nel Canzoniere di Petrarca

Mappa concettuale delle occorrenze del lemma fera nel Canzoniere di Petrarca
 


Ho condotto la mia ricerca sul Canzoniere di Petrarca, ispirandomi ad un tema spesso trattato in classe e che, a mio parere,  si è rivelato piuttosto fertile per una più precisa indagine testuale. Un supporto d’autorità all’idea di base mi è giunto dal Ferroni, che evidenzia come, nel Canzoniere “una serie di metafore sottolineano il carattere contraddittorio e paradossale del rapporto con la donna, che è dolce nemica, che consola e distrugge, che dà nello stesso tempo vita e morte, che fa bruciare come fuoco e gela come ghiaccio”
[1].

 

La ricerca è partita dalla notissima canzone Chiare, fresche e dolci acque, in cui, al verso 29, Laura viene definita fera bella e mansueta: l’ossimoro simboleggia la duplice natura di Laura, dolce in sé, ma apportatrice di angoscia per il poeta, perché lontana e irraggiungibile, e rende in modo significativo il dissidio interiore del poeta che, pur idealizzando la figura femminile, sa e sperimenta che il sentimento d’amore che prova non condurrà alla salvezza, ma, come emerge anche nel Secretum, alla distruzione morale.

La crudeltà della donna ricorre in altre liriche della raccolta, rintracciate attraverso l’uso della parola chiave fera: per le 23 ricorrenze, solo 8 si riferiscono esplicitamente, o attraverso l’espediente della metafora, alla donna.

Il percorso verrebbe avviato dalla canzone più nota alle antologie scolastiche e proseguirebbe seguendo l’ordine delle liriche nel Canzoniere.

La metafora compare nella canzone XXII, ove la donna è crudele più di un’aspra fera e il poeta non cessa di piangere, come anche nella successiva, XXIII, la cosiddetta canzone delle metamorfosi, in cui fera è la voglia del poeta (v.3), ma la donna è una fera bella e cruda. Da notare l’uso del termine come aggettivo (più raramente) e invece, più frequentemente come sostantivo. Nella canzone successivamente individuata, la L, l’Amore, crudo, obbliga il poeta a seguire la donna, una fera che strugge, che ne è invece risparmiata. Molto efficace il sonetto CXII, in cui il poeta, rivolgendosi all’amico Sennuccio del Bene, delinea la propria condizione interiore descrivendo l’atteggiamento continuamente mutevole di Laura (l’aura): torna, accanto ad una serie di antitesi, l’ossimoro fera e mansueta. Nella canzone CXXXV compare un nuovo, efficacissimo accostamento: fera angelica (innocente), che testimonia non solo il legame culturale e psicologico del poeta con la tradizione precedente, ma la gravità e insolubilità del suo dissidio interiore. Ancora un sonetto, il CLII, particolarmente carico di tensione dolorosa, affianca al sostantivo fera l’aggettivo umil, ma amplifica l’immagine attraverso altre metafore (la tigre, l’orsa, l’angelo). Risulta poi significativo il sonetto CLXXIV, in cui è l’aggettivo a comparire, ma per ben quattro volte entro la seconda quartina, in riferimento a elementi diversi (stella, cuna, terra e infine alla donna). Il contenuto si riferisce alla medesima sofferenza d’amore, ovviamente. A concludere l’indagine si colloca la canzone CCCXXIII, cosiddetta delle visioni (che adombrerebbero la vicenda della morte di Laura), tra le quali nuovamente quella della fera.

 

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[1] G. FERRONI, Storia della letteratura italiana, Dalle origini al Quattrocento, vol.1, Einaudi 1991, pag. 259.