J. Conrad - Cuore di tenebra ( 1898 )

Joseph Conrad


Conrad è considerato uno degli autori principali della letteratura inglese a cavallo tra 800 e 900. I suoi romanzi sono romanzi di mare e di avventura: storie di uomini che affrontano la straordinaria solitudine delle acque, divoratrici di mondi, preda continua dei rischi. E, in effetti, prima che  romanziere, Conrad fu veramente un uomo di mare: orfano di madre e con il padre incarcerato per questioni politiche (la famiglia era originaria di una parte della Polonia annessa alla Russia), crebbe nel sogno di solcare i mari in libertà e lontano dalla terra che gli aveva procurato, fin dall'infanzia, tanto dolore.
Joseph Conrad, pur essendo nato in Polonia, è di fatto considerato uno scrittore inglese scrittore inglese. La sua famiglia apparteneva appunto alla nobiltà terriera della Polonia, a quel tempo sotto il dominio russo. Il padre, patriota e uomo di lettere, morì nel 1867 , dopo molti anni di esilio politico (la madre invece era morta nel 1865). Affidato alla tutela di uno zio, Conrad compì gli studi secondari a Cracovia.
A soli diciassette anni, spinto da un'irresistibile vocazione per la vita di mare, partì per Marsiglia, dove s'imbarcò come semplice marinaio. Navigare significava per lui conoscere soprattutto il mondo marinaresco che si identificava anche in traffici, contrabbando, uomini che si imbarcavano per sfuggire a chissà quale colpa. Significava insomma incontrare mondi che stavano, non solo geograficamente, agli antipodi dell'Europa civile. Dopo lunga esperienza, servì dunque nella marina mercantile francese e, dal 1878, in quella britannica, dove raggiunse il grado di capitano di lungo corso. Nel 1886 diventò cittadino inglese.
Per vent'anni viaggiò per quasi tutti i mari, ma soprattutto nell'arcipelago malese. L'attenzione ottenuta dal suo primo romanzo ("La follia di Almayer"), e l'incoraggiamento di alcuni scrittori (Galsworthy, Wells, Ford Madox Ford, Edward Gamett) lo indussero, lasciata la marina e stabilitosi in Inghilterra, a dedicarsi interamente all'attività letteraria.
Il suo tema fondamentale è la solitudine dell'individuo, in balia dei ciechi colpi del caso di cui il mare è spesso eletto a simbolo. L'eroe solitario di Conrad è quasi sempre un fuggiasco o un reietto, segnato dalla sventura o dal rimorso,  conquista la sua identità affrontando con stoicismo le prove che il destino gli ha riservato.

Tra i suoi tanti capolavori, ricordiamo "Un reietto delle isole" (1894), "Il negro del Narciso" (1896), "Gioventù" (1898), "Cuore di tenebra" (una forte denuncia del colonialismo e un romanzo che ha costituito il canovaccio per il film di Francis Ford Coppola "Apocalipse Now"), "Tifone" e Lord Jim (1900). Romanzi in cui Conrad sonda gli stadi evolutivi dell'inconscio e che a tratti sembrano anticipare la tecnica dello "stream of consciousness" che poi Virginia Woolf e James Joyce trasformeranno in genere letterario. Ottiene un buon successo con "La linea d'ombra" (1917), un altro capolavoro assoluto, divenuto l'emblema della difficoltà di crescere e di ciò che questo passaggio comporta. Conrad muore il 3 agosto 1924.

liberamente ridotto da http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=359&biografia=Joseph%20Conrad

 



Cuore di tenebra

Il libro tratta dell'esperienza di un uomo, di nome Marlow, navigatore nell'ambito delle esplorazioni coloniali operate, all'inizio del XX secolo, dal Belgio di Leopoldo II nei territori del Congo (ex-Zaire). Il fascino del viaggio di Marlow nasce dal desiderio di esplorare i territori misteriosi e cupi, che non erano ancora stati raggiunti dai colonizzatori e le loro spettrali atmosfere. Assistendo ad uno spettacolo inquietante quale una danza rituale di una tribù locale ("turbinare di membra nerissime"), Conrad, attraverso il discorso di Marlow, definisce in maniera perfetta le sensazioni suscitate in un uomo occidentale da tale visione. La "cornice" della visione, la giungla, perde qualsiasi caratteristica terrestre, ovvero ogni rapporto con ciò di cui abbiamo possibilmente fatto esperienza. Sostiene Marlow che "la mente dell'uomo può adeguarsi a qualunque cosa: poiché ogni cosa si trova in lei, il passato non meno del futuro", ma ogni ricerca è perduta in partenza, perché è in noi molto più presente quella bestiale componente dell'animo che la sua artificiosa negazione.
Mister Kurtz, un dipendente della compagnia per la quale lavora Marlow, ormai da tempo in Africa si occupa della cartografia di quei territori nonché della ricerca di avorio. La sua figura rappresenta il vano e insensato tentativo della società "occidentale" di omologare a se stessa tutto ciò che sente come estraneo. Non a caso si parla di Kurtz come di un "santo e reietto della "civilizzazione" del continente nero". Egli è venuto a contatto con la vita selvaggia, libera, feroce, bestiale, delle popolazioni indigene, che hanno fatto di Kurtz il loro idolo. Al momento dell'incontro fra Marlow e Kurtz la situazione di apparente supremazia dei bianchi è già venuta meno: il "cuore di tenebra" dell'Africa ha ripreso la sua intima vitalità. La voce recitante di Marlowe ci conduce appunto nel cuore di quest'Africa nera, a denunciare la terribile realtà del dominio coloniale. Su queste basi si sviluppa una profonda riflessione sul colonialismo in generale. Riflessione che si scontra con radicate certezze che derivavano da un diffuso ottimismo evoluzionistico ed eurocentrico. Da questo inquietante e coraggioso confronto con il diverso e il primitivo nasce un testo molto stimolante della letteratura anglosassone.
 

I - L'incipit: l'avvio del racconto di Marlow
 

La Nellie ruotò sull'ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che ormeggiare aspettando il riflusso.

L'estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile all'imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e, nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di aste verniciate. Una bruma riposava sulle sponde basse, le cui sagome fuggenti si perdevano nel mare. L'aria era cupa sopra Gravesend, e più indietro ancora sembrava addensarsi in una desolata oscurità che incombeva immobile sulla più grande, e la più illustre, città del mondo.

Il Direttore delle Compagnie era il nostro capitano e il nostro ospite. Noi quattro l'osservavamo con affetto mentre, a prua, volgendoci le spalle, guardava verso il mare. Su tutta la distesa del fiume, nulla aveva l'aria più navigata di lui. Si sarebbe detto un pilota, che per un marinaio è come dire la fiducia in persona. Era difficile credere che il suo lavoro non si svolgesse là, su quell'estuario luminoso, ma alle sue spalle, dentro quell'incombente oscurità.

Fra noi, come ho già detto da qualche parte, c'era il legame del mare. Oltre che tenere uniti i nostri cuori durante i lunghi periodi di separazione, aveva l'effetto di farci tollerare i racconti e addirittura le convinzioni gli uni degli altri. L'Avvocato, il migliore dei vecchi compagni, in ragione dei suoi numerosi anni e delle sue molte virtù, aveva diritto all'unico cuscino che ci fosse sul ponte ed era disteso sulla nostra unica coperta. Il Contabile aveva già preparato il domino e si divertiva ad architettare piccole costruzioni con le tessere d'osso. Marlow sedeva all'estrema poppa a gambe incrociate, appoggiato all'albero di mezzana. Aveva le guance incavate, la carnagione gialla, il dorso eretto, l'aspetto ascetico: con le braccia distese e il palmo delle mani aperte volto in fuori, assomigliava a un idolo. Il Direttore, soddisfatto della tenuta dell'ancora, venne a poppa e si sedette in mezzo a noi. Scambiammo qualche parola, svogliatamente. Poi ci fu silenzio a bordo dello yacht. Non ricordo per quale ragione non iniziammo la partita di domino. Eravamo in vena di meditazioni, a nient'altro disposti che a una placida contemplazione. Il giorno finiva in una serenità di calmo e squisito splendore. L'acqua scintillava pacifica; il cielo, senza macchia, era una benigna immensità di luce pura; sulle paludi dell'Essex, la foschia stessa era come una garza trasparente e radiosa che, impigliata ai pendii boscosi dell'interno, drappeggiava le sponde basse nelle sue pieghe diafane. Solo l'oscurità a ponente, che incombeva sui tratti superiori del fiume, diventava sempre più tetra, come irritata dall'avvicinarsi del sole.

        E infine, nella sua caduta obliqua e impercettibile, il sole toccò l'orizzonte e dal bianco incandescente passò a un rosso opaco, senza raggi e senza calore, come stesse per spegnersi all'improvviso, colpito a morte al contatto di quella oscurità che incombeva sopra una moltitudine di uomini.

        Anche sull'acqua ci fu un cambiamento repentino, e la serenità si fece meno brillante, ma più profonda. Il vecchio fiume riposava imperturbato al declinare del giorno, dopo secoli di onorato servizio reso alla razza che popolava le sue rive, disteso nella tranquilla dignità di una via che conduce ai confini più remoti della terra. Guardavamo quel venerabile corso d'acqua non nella passeggera vampata di un giorno che compare e poi scompare per sempre, ma nell'augusta luce dei ricordi duraturi. E di fatti, non c'è niente di più facile che un uomo che, come si usa dire, si è "votato al mare" con amore e riverenza, si metta a evocare il grande spirito del passato sull'estuario del Tamigi. La corrente della marea che va e che viene nel suo incessante lavorio, è popolata dal ricordo degli uomini e delle navi che ha portato verso il riposo nel nido natio o alle battaglie nell'Oceano. Li aveva conosciuti e serviti tutti, quegli uomini di cui la nazione è fiera, da Sir Francis Drake a Sir John Franklin, tutti cavalieri, con o senza investitura, i grandi cavalieri erranti del mare. Le aveva portate tutte, quelle navi dai nomi come gioielli scintillanti nella notte dei tempi, dalla Golden Hind, che rientrava in porto con i rotondi fianchi tutti pieni di tesori, per ricevere la visita di sua maestà la Regina e poi uscire dalla gloriosa leggenda, fino all'Erebus e alla Terror, partite per altre conquiste, e non più ritornate. Aveva conosciuto le navi e gli uomini, quelli partiti da Deptford, da Greenwich, da Erith, gli avventurieri e i coloni, navi di re e navi di banchieri, capitani e ammiragli, loschi "intermediari" dei traffici con l'Oriente e "generali" incaricati delle flotte delle Indie Orientali. Che cercassero l'oro o che inseguissero la gloria, tutti avevano disceso quelle acque, portando la spada e spesso la fiaccola, messaggeri della potenza di quella terra, depositari di una scintilla del fuoco sacro. Quale grandezza non aveva fluttuato sulla corrente di quel fiume verso il mistero di un mondo sconosciuto!... Sogni di uomini, semi di comunità, germi di imperi!...

        Il sole tramontò. L'ombra cadde sul fiume e le luci cominciarono ad apparire lungo le sponde. Il faro di Chapman, issato come su un treppiedi sul suo banco di fango, gettava uno sfavillio intenso. Le luci delle navi si spostavano nel canale: un gran movimento di luci che si avvicinavano e si allontanavano. E più a occidente, nel tratto a monte del fiume, il luogo della città mostruosa restava sinistramente segnato nel cielo: una cappa incombente alla luce del giorno, un riflesso livido sotto le stelle.

        «E anche questo», disse Marlow all'improvviso, «è stato uno dei luoghi di tenebra della terra.»

        Era il solo fra noi che ancora "corresse" il mare. Il peggio che si potesse dire sul suo conto, era che rappresentava in modo atipico la sua categoria. Era un marinaio, ma era anche un vagabondo, mentre la maggior parte dei marinai conduce, se così si può dire, una vita sedentaria. La loro indole è casalinga; e la loro casa, la nave, se la portano sempre dietro, e così il loro paese, il mare. Non c'è nave che non assomigli a un'altra, e il mare è sempre lo stesso. Nell'immutabilità di ciò che le circonda, le coste straniere, le facce straniere, la mutevole immensità della vita, tutto scivola e passa, velato non dal senso del mistero, ma da un'ignoranza un po' sdegnosa. Perché, per un marinaio, non c'è niente di misterioso al di fuori del mare, signore e padrone della sua vita, e imperscrutabile come il destino. Per il resto, gli bastano una passeggiata o una bisboccia a terra, di tanto in tanto, al termine del lavoro, per scoprire il segreto di un intero continente e per capire, di solito, che non valeva la pena di conoscerlo. I prolissi racconti dei marinai hanno una semplicità immediata e il loro significato sta tutto dentro un guscio di noce. Ma Marlow non era tipico (se non per la sua tendenza a essere prolisso); per lui il significato di un episodio non andava cercato all'interno, nel gheriglio, ma all'esterno, in ciò che, avviluppando il racconto, finiva col rivelarlo, come la luce rivela la foschia, allo stesso modo in cui l'illuminazione spettrale del chiaro di luna rende a volte visibili gli aloni nebulosi.

        La sua osservazione non sorprese nessuno. Era nello stile di Marlow. Venne accolta in silenzio. Neanche un grugnito da parte nostra. E dopo un istante riprese a parlare, molto lentamente:

        «Stavo pensando a quei tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per la prima volta, millenovecento anni fa. L'altro ieri... È uscita la luce da questo fiume, da allora... I Cavalieri, dite? Già; ma è come una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c'erano le tenebre. Vi immaginate lo stato d'animo del capitano di una bella - com'è che si chiama? ah sì - trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l'ordine di portarsi al nord, attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle imbarcazioni che i legionari - altra manica di uomini in gamba - costruivano a centinaia, in un mese o due, se si deve credere a quello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d'altro. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e da bere, solo l'acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio - il freddo, la nebbia, le tempeste, le malattie, l'esilio e la morte - la morte in agguato nell'aria, nell'acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l'è cavata. E bene anche, indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le tenebre in faccia. E forse lui si faceva coraggio tenendo d'occhio di tanto in tanto la possibilità di una promozione alla flotta di Ravenna, sempre che avesse buoni amici a Roma e che sopravvivesse all'orribile clima. Oppure provate a pensare a un giovane cittadino di buona famiglia con tanto di toga - troppo dedito ai dadi, forse, sapete dove portano - che arriva qui al seguito di qualche prefetto, o di un esattore delle imposte, oppure di un mercante, per rimettere in sesto la sua fortuna. Sbarcare in una palude, marciare nei boschi, e in qualche posto dell'interno sentirsi circondato da una natura selvaggia, assolutamente selvaggia - tutta quella vita misteriosa della landa selvaggia che si agita nella foresta, nella giungla, nel cuore degli uomini selvaggi. E non c'è iniziazione a questi misteri. Lui deve vivere in mezzo all'incomprensibile, che in sé è già detestabile. Che però ha anche un fascino, e che comincia a far presa sul nostro uomo. Il fascino dell'orrido, capite? Immaginate i rimpianti, sempre più grandi, il desiderio ossessivo di fuggire, il disgusto impotente, la resa, l'odio.»

        Si interruppe.

        «Badate», ricominciò, alzando un avambraccio, il palmo della mano in fuori, le gambe incrociate: adesso aveva la posa di un Budda in preghiera, vestito all'europea e senza fior di loto. «Badate, nessuno di noi proverebbe niente di simile. Ciò che ci salva è l'efficienza, il culto dell'efficienza. Ma su quegli uomini non si poteva fare molto affidamento. Non erano colonizzatori e la loro amministrazione non era che l'arte di spremere, nient'altro, temo. Erano dei conquistatori e per questo, non ci vuole che la forza bruta, niente di cui essere fieri quando la si ha, perché questa forza non è che un accidente che deriva dalla debolezza altrui. Mettevano le mani su tutto quello che potevano arraffare, per il solo piacere di arraffare. Si trattava propriamente di rapina a mano armata, di omicidio premeditato su vasta scala, e gli uomini ci andavano alla cieca, come fanno tutti quelli che si devono misurare con le tenebre. La conquista della terra, che sostanzialmente consiste nello strapparla a quelli che hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato, non è una cosa tanto bella da vedere, quando la si guarda troppo da vicino. Quello che la riscatta è solo l'idea. Un'idea che la sostenga, non un pretesto sentimentale, ma un'idea e una fede disinteressata, qualcosa, insomma, da esaltare, da ammirare, a cui si possano offrire sacrifici.»

        Si interruppe. Dei bagliori passavano sul fiume, piccoli bagliori verdi, rossi o bianchi, che si inseguivano, si raggiungevano, si congiungevano, si incrociavano per poi separarsi, lentamente o in fretta. Il traffico della grande città proseguiva senza sosta nel cuore della notte sprofondata sul fiume senza sonno. Noi guardavamo e attendevamo con pazienza: non c'era altro da fare fino alla fine della marea. Solo dopo un lungo silenzio, quando, con voce esitante, ci disse: «Suppongo che vi ricordiate di quando, per un po' di tempo, son diventato marinaio d'acqua dolce», capimmo di essere destinati, prima che il riflusso si facesse sentire, ad ascoltare il racconto di una delle inconcludenti esperienze di Marlow.

        «Non ho intenzione di affliggervi con quello che mi è capitato personalmente», incominciò, tradendo con questa osservazione l'errore comune a tanti narratori che sembrano così spesso non sapere quello che il loro uditorio preferirebbe sentire. «Però, per capire l'effetto prodotto su di me, bisogna che sappiate come sono giunto fin là, cosa ho visto, e come ho risalito quel fiume fino al luogo in cui per la prima volta ho incontrato quel poveraccio. Era il limite estremo accessibile alla navigazione: fu anche il punto culminante della mia avventura. Mi è sembrato che emanasse una specie di luce su tutte le cose intorno a me e sui miei pensieri. Era oscuro, ciononostante, e penoso, per nulla straordinario, ma neanche chiaro. No, non molto chiaro... Eppure sembrava emanare una specie di luce...

        «Ero appena tornato a Londra, ve lo ricordate?, dopo anni di Oceano Indiano, Pacifico, mari della Cina - una buona dose di Oriente, sei anni o poco meno - e bighellonavo qua e là, impedendovi di lavorare e invadendo le vostre case, proprio come se avessi ricevuto dal cielo la missione di civilizzarvi. Per un po' andò benissimo, ma ben presto cominciai ad averne abbastanza di stare a riposo. Allora mi misi a cercare una nave: penso che sulla terra non ci sia un lavoro più ingrato. Ma le navi non sapevano cosa farsene di me. E anche quel gioco finì con lo stancarmi.

        «Dovete sapere che, quand'ero un ragazzino, avevo la passione per le carte geografiche. Passavo delle ore a guardare l'America del sud, o l'Africa o l'Australia, e mi perdevo in tutte le glorie dell'esplorazione. A quei tempi c'erano molti spazi vuoti sulla carta della terra, e quando ne vedevo uno dall'aria particolarmente invitante (ma ce l'hanno tutti quell'aria) ci posavo il dito sopra e dicevo: "Quando sarò grande, ci andrò." Il Polo Nord era uno di quei luoghi, mi ricordo. Non ci sono ancora stato e non mi ci proverò certo adesso. L'incanto è finito. Altri di quei luoghi erano disseminati intorno all'Equatore, alle più diverse latitudini su tutti e due gli emisferi. In qualcuno ci sono stato, e... beh, non è di questo che voglio parlarvi. Ma ce n'era uno ancora, il più grande, il più vuoto, se così si può dire, dal quale ero particolarmente attratto.

        «È vero che nel frattempo non era più uno spazio vuoto. Dalla mia infanzia, si era riempito di fiumi, di laghi, di nomi. Non era più una macchia bianca deliziosamente avvolta nel mistero, un terreno vergine su cui un ragazzo potesse fare i suoi sogni di gloria. Era diventato un luogo di tenebra. Ma là dentro c'era soprattutto un fiume, un fiume possente, che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa nel mare, il corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del continente. E mentre io guardavo la carta nella vetrina di un negozio, lui mi affascinava, come un serpente affascina un uccello, un povero stupido uccellino. Mi ricordai allora che c'era una grossa impresa, una Compagnia che commerciava su quel fiume. Diamine, mi dissi, non potranno commerciare senza usare una qualche specie di imbarcazione su tutta quella massa d'acqua dolce - i battelli a vapore! Perché non tentare di farmene affidare uno? Camminavo avanti e indietro per Fleet Street senza riuscire a scuotermi l'idea di dosso. Il serpente mi aveva incantato.

        «Si trattava in realtà di un'impresa continentale, la Compagnia commerciale, ma io ho molte conoscenze nel Continente; vivono lì, perché, a sentir loro, costa poco e non è così sgradevole come sembra.

        «Devo purtroppo ammettere che incominciai a scomodarle. Già questa era una novità per me. Non è mia abitudine ricorrere a questi sistemi per ottenere quello che voglio, sapete. Son sempre andato per la mia strada, e con le mie gambe, dove avevo in mente di andare. Non avrei mai creduto di esserne capace, ma, vedete, avevo proprio l'impressione che lì ci dovevo andare, a qualunque costo. Così li scomodai. Gli uomini mi dissero "Carissimo" e non fecero nulla. Allora, ci credereste?, provai con le donne. Sì, io, Charlie Marlow misi le donne all'opera per avere un lavoro. Dio santo! Ma capite, era l'idea a trascinarmi. Io avevo una zia, una tenera anima entusiasta. Mi scrisse: "Con immenso piacere. Sono pronta a fare qualsiasi cosa, proprio qualsiasi cosa per te. La tua è un'idea straordinaria. Conosco la moglie di un personaggio molto in vista nell'Amministrazione e anche un signore che ha molta voce in capitolo...", ecc., ecc. Era decisa a smuovere mari e monti per farmi nominare capitano di un vapore fluviale, se questo era il mio desiderio.

        «Naturalmente ottenni il posto, e anche rapidamente. Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei suoi capitani era stato ucciso in una rissa con gli indigeni. Fu questa la mia occasione, che mi rese ancor più impaziente di partire. Solo dopo molti mesi, quando cercai di recuperare ciò che restava del corpo, seppi che all'origine della questione c'era stato un malinteso per delle galline. Sì, per due galline nere! Fresleven - è così che si chiamava quell'uomo, un danese - pensando di essere stato in qualche modo imbrogliato nell'affare, scese a terra e iniziò a picchiare il capo del villaggio con un bastone. Oh, non mi sorpresi neanche un po' quando me lo raccontarono e neanche quando, contemporaneamente, mi assicurarono che Fresleven era l'essere più mite e più pacifico che avesse mai camminato su questa terra. Era sicuramente vero, ma erano già due anni che era laggiù, al servizio della nobile causa, sapete, e probabilmente sentiva un estremo bisogno di riaffermare in qualche modo la sua dignità. Perciò bastonò il nero senza pietà, sotto gli occhi impietriti degli indigeni, finché un uomo - mi dissero che era il figlio del capo del villaggio - spinto alla disperazione dalle urla del vecchio, provò, in via sperimentale, a colpire il bianco con la lancia che, naturalmente, entrò senza difficoltà fra le due scapole. Al che l'intera popolazione se la svignò nella foresta, aspettandosi ogni genere di calamità, mentre, dal canto suo, il vapore che Fresleven comandava se la filava anche lui in preda al panico, agli ordini, credo, del macchinista. In seguito, nessuno sembrò preoccuparsi molto dei resti di Fresleven, fino al giorno in cui arrivai io a prendere il suo posto. Non potevo non seppellirlo; ma quando finalmente mi si presentò l'occasione di incontrare il mio predecessore, l'erba che gli cresceva tra le costole era abbastanza alta da nascondere le sue ossa. C'erano tutte. Dopo la sua caduta, l'essere soprannaturale non era stato toccato. E nel villaggio abbandonato, le capanne si spalancavano come bocche nere, putrescenti, tutte sghembe entro i recinti caduti. Una calamità si era davvero abbattuta su di lui. E la popolazione era svanita. Un terrore folle li aveva dispersi tutti nella boscaglia, uomini, donne, bambini, e non erano più ritornati. Anche le galline, non so che fine abbiano fatto. Immagino, però, che siano andate alla causa del progresso. In ogni modo, fu per quest'affare glorioso che io ricevetti la mia nomina, prima ancora che avessi iniziato a sperarci.

        «Corsi come un matto per essere pronto in tempo e, meno di quarantott'ore dopo, attraversavo la Manica per presentarmi ai miei datori di lavoro, e firmare il contratto. In pochissime ore arrivai in quella città che mi fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato. Un pregiudizio, certo. Non mi fu difficile trovare gli uffici della Compagnia. Era la cosa più notevole della città ed era sulla bocca di tutti quelli che incontravo. S'accingevano a gestire un impero d'oltremare e a trarne una barca di soldi con il commercio.

        «Una strada stretta e deserta, sprofondata nell'ombra di alte case, piene di finestre, con le persiane chiuse, un silenzio mortale, l'erba che spuntava fra le pietre, imponenti portoni a destra e a sinistra, immense doppie porte che stavano faticosamente socchiuse. Mi infilai in una di queste fessure, salii una scala spoglia e pulita, arida come un deserto, e aprii la prima porta che trovai. Due donne, una grassa e una magra, sedute su seggiole impagliate, sferruzzavano della lana nera. La magra si alzò e venne dritta verso di me, sempre sferruzzando, con gli occhi bassi, e proprio mentre pensavo di scansarmi per lasciarle il passo, come si farebbe per un sonnambulo, lei si fermò e sollevò lo sguardo. Indossava un vestito insignificante come il fodero di un ombrello. Si voltò senza dire una parola e mi precedette in una sala d'aspetto. Dissi il mio nome e mi guardai attorno. Un tavolo di abete nel mezzo, seggiole comuni intorno alle pareti, su un lato una grande carta lucida, segnata con tutti i colori dell'arcobaleno. Una gran quantità di rosso - sempre bello da vedere, perché si sa che lì si lavora sul serio - un bel po' di azzurro, un po' di verde, macchie di arancione e, sulla costa orientale, una chiazza violacea, che stava a indicare il luogo in cui gli euforici pionieri del progresso bevono l'euforizzante birra bionda. Ma io non andavo né qui né lì. Io andavo nel giallo. Dritto nel centro. E il fiume era là, mortalmente affascinante, come un serpente. Ohi, ohi! Una porta s'aprì, e comparve una canuta testa da segretario, ma con un'espressione di compatimento, e il suo indice ossuto mi fece cenno di entrare nel santuario. La luce era fioca, e una massiccia scrivania ingombrava il centro della stanza. Dietro quel monumento si distingueva una pallida pinguedine in redingote. Il grand'uomo in persona. Poco più alto di un metro e sessanta, a quanto potei giudicare, teneva in pugno le fila di chissà quanti milioni. Mi strinse la mano, se non mi sbaglio, mormorò qualcosa, si dichiarò soddisfatto del mio francese. Bon voyage.

 


UN'INTERVISTA SUL TESTO DI CONRAD

STUDENTESSA: C'è una dimensione mitica nel viaggio compiuto da Marlow?

VERONESI: Questo è un testo base che può essere interpretato in chiave mitica in tutte le direzioni, però, secondo me, la cosa alla quale bisogna prestare più attenzione, come ho detto prima, è il senso del tempo che ha prodotto quest'opera, senza tener conto di tutto ciò che è avvenuto cent’anni più tardi. Conrad ha cominciato ad andare per mare a sedici anni e, forse, non c'è persona più avvezza al viaggio e quindi che si impressiona meno, di colui che per mare c’è andato veramente. Prendiamo Melville e Moby Dick. L’autore qui non mitizza il viaggio, perché quello di andare per mare è solo lavoro, lavoro duro dei balenieri. Mitizza la balena come simbolo di tutti i miti possibili dell'Occidente: questa balena bianca. Cuore di tenebra è più o meno la stessa cosa e vedremo che ci sono delle condizioni proprio esterne, storiche, che hanno determinato in quel momento la composizione di dell’opera.

STUDENTESSA: Come per Dante nella Divina Commedia, anche il viaggio di Marlow potrebbe essere definito un viaggio all'inferno. C'è un qualche rapporto tra i due?

VERONESI: Il rapporto è che sono entrambe composizioni letterarie e quindi hanno in comune di avere poco a che fare con la realtà. Perché un'opera letteraria può anche essere fedelissima nella riproduzione della realtà, ma è quanto di più irreale ci sia perché stabilisce un rapporto tra un lettore e un pezzo di carta e di realtà lì ce n'è veramente poca. È tutta riflessione, è tutta fantasia, è tutta immaginazione. Quello che, secondo me, conta non è tanto il rapporto con la Divina Commedia o con altre opere storiche, che forse Conrad non aveva neanche letto, ma il fatto che, a distanza di secoli, in quel preciso momento, succeda che un Capitano di Vascello scriva un’opera che diventa il simbolo del secolo successivo, di tutta la sua civiltà, così come è stata il simbolo, per parecchi secoli, della propria civiltà la Divina Commedia. Queste sono le cose importanti che uniscono certe opere fondamentali.

STUDENTESSA: Leggo due passi dell’opera: "La conquista della terra, che più che altro significa toglierla a chi ha un diverso colore di pelle e il naso un po' più schiacciato del nostro, non è una bella cosa a guardarla, a guardarla bene", e ancora: "I loro discorsi comunque erano discorsi di sordidi pirati, avventati senza ardimento, avidi senza audacia e crudeli senza coraggio". Ecco, come è visto da Conrad il progresso?

VERONESI: I due passi appena letti esprimono un attacco forte per i tempi in cui è stato scritto. Marlow paragona l'imperialismo britannico, del quale lui e i suoi compagni sono strumenti, perché marinai che vivono proprio di missioni all'interno della espansione coloniale britannica, all'invasione dei Romani della Britannia. Probabilmente ciò avrà scatenato l’ira di molti lettori britannici del tempo. Quello che Conrad vuole dire è che esiste un falso mito del progresso, che poggia esclusivamente sul concetto di espansione, ma che si tratta di un fenomeno che non si può arrestare, né correggere. Si tratta di un problema che, tuttavia, esiste ancora oggi. La convinzione che l’arricchimento dei Paesi più poveri porti al benessere di tutta l’umanità, perché il prodotto deve crescere continuamente senza che vi sia una fine, è una realtà con la quale facciamo i conti tutti i giorni, pagandone le conseguenze sia in termini sociali che ambientali.

STUDENTE: Le ultime parole che Kurtz pronuncia prima di morire sono: "The horror! The horror!". Ma precisamente che cosa voleva intendere?

VERONESI: Credo che Conrad abbia voluto identificare la sua stessa esperienza al terrore, alla paura, al dubbio, all’incerto di ciò che ci aspetta quando si intraprende un viaggio. Egli ha descritto lo sgomento di fronte a questa unità indivisibile che è l'io e che improvvisamente è inconoscibile, è ingovernabile, incontrollabile e che può generare orrore. È quello che poi in seguito è stato definito il , cioè questo oceano impetuoso che circonda e assedia l'isoletta dell'io. La consapevolezza di questo pericolo è stata poi rafforzata da Freud con L’Interpretazione dei Sogni, secondo il quale la realtà interiore di ogni singolo essere umano è veramente molto più complessa e forse, in quella complessità, contiene l'orrore. Anche se viviamo normalmente la nostra vita, tale normalità è solo apparenza, perché quell’orrore di cui parla Conrad, ce l'abbiamo dentro. E credo che non sia un caso che Conrad, anzi Marlow, non abbia avuto il coraggio di riportare alla moglie di Kurtz le parole che questi ha pronunciato prima di morire, ovvero: "The horror! The horror!".

STUDENTE: Come sarebbe l'opera scritta dal punto di vista dei colonizzati e non dei colonizzatori?

VERONESI: Il colonizzato non potrebbe far altro che tenere un diario nel quale riportare quotidianamente ciò che lui e il suo popolo subiscono. Il suo manoscritto non sarebbe un’opera, ma una testimonianza, una documentazione realistica dei fatti accaduti. La qual cosa, ovviamente, i colonialisti si sono guardati bene dal lasciare. Ma l'opera la fa il colonizzatore, perché è lui che ha l'obbligo di trovare Kurtz dentro sé stesso.

STUDENTESSA: La vicenda di Cuore di tenebra è stata ripresa nel film Apocalypse now, anche se l'ambientazione è diversa. Che rapporto c'è tra il film e il romanzo?

VERONESI: Innanzi tutto la struttura del film ricalca molto fedelmente quella del racconto. Non soltanto i nomi dei personaggi vengono riprodotti così come alcune battute. Coppola è stato geniale nell’ambientare il film in Vietnam, cosicché gli spettatori potessero sentirlo vicino, attuale e non soltanto come un semplice racconto del colonialismo. Nonostante la diversità del contesto ambientale, sia l’opera letteraria, sia il film, hanno in comune il tema della conoscenza di sé ben oltre i limiti conosciuti, fino a un certo punto della nostra storia di occidentali. Oltre quel limite, questa conoscenza di sé, forse, spaventa fino a inorridire.

STUDENTE: Nel corso degli anni com'è cambiato il suo rapporto con il testo sia come lettore che come scrittore?

VERONESI: Il mio rapporto con questo testo è cambiato quando ho notato che la sua uscita ha coinciso con quella de L’Interpretazione dei Sogni di Freud. Ciò ha destato in me la consapevolezza che l’Occidente abbia preso coscienza di sé, dei suoi limiti, partorendo un’opera che descrive tutt’altro che l’invincibilità dell’uomo occidentale. Conrad, tra i primi, è stato uno scrittore che avvertiva l’urgenza di evidenziare in tutta la sua drammaticità quello che era e che sarebbe stato per tutto il secolo successivo il problema principale dell’umanità, ovvero la frammentazione dell'io.

da http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=894#mito
 

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