Il viaggio impossibile di Ulisse verso la piena conoscenza del vivere umano. G. Pascoli - L'ultimo viaggio


 


L'ultimo viaggio è il più ampio dei Poemi conviviali, un vero e proprio poemetto in ventiquattro canti brevi. «L'ordito è quello dell'Odissea: Ulisse ripercorre le varie tappe del suo lungo errare, a risognare il suo sogno giovanile, ma invano: a ogni tappa e Circe e il Ciclope e le Sirene si scoprono come illusioni dei sensi; col naufragio dinanzi all'isola di Calypso si spegne il suo sogno estremo».
 

XXI

LE SIRENE

Indi più lungi navigò, più triste.
E stando a poppa il vecchio Eroe guardava
scuro verso la terra de' Ciclopi,
e vide dal cocuzzolo selvaggio
del monte, che in disparte era degli altri,
levarsi su nel roseo cielo un fumo,
tenue, leggiero, quale esce su l'alba
dal fuoco che al pastore arse la notte.
Ma i remiganti curvi sopra i remi
vedeano, sì, nel violaceo mare
lunghe tremare l'ombre dei Ciclopi
fermi sul lido come ispidi monti.
E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo
squittiva dentro, come cane in sogno:
Il mio sogno non era altro che sogno;
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.
E gli sovvenne delle due Sirene.
C'era un prato di fiori in mezzo al mare.
Nella gran calma le ascoltò cantare:
Ferma la nave! Odi le due Sirene
ch'hanno la voce come è dolce il miele;
ché niuno passa su la nave nera
che non si fermi ad ascoltarci appena,
e non ci ascolta, che non goda al canto,
né se ne va senza saper più tanto:
ché noi sappiamo tutto quanto avviene
sopra la terra dove è tanta gente!
Gli sovveniva, e ripensò che Circe
gl'invidiasse ciò che solo è bello:
saper le cose. E ciò dovea la Maga
dalle molt'erbe, in mezzo alle sue belve.
Ma l'uomo eretto, ch'ha il pensier dal cielo,
dovea fermarsi, udire, anche se l'ossa
aveano poi da biancheggiar nel prato,
e raggrinzarsi intorno lor la pelle.
Passare ei non doveva oltre, se anco
gli si vietava riveder la moglie
e il caro figlio e la sua patria terra.
E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:
Uomini, andiamo a ciò che solo è bene:
a udire il canto delle due Sirene.
lo voglio udirlo, eretto su la nave,
né già legato con le funi ignave:
libero! alzando su la ciurma anela
la testa bianca come bianca vela;
e tutto quanto nella terra avviene
saper dal labbro delle due Sirene.
Disse, e ne punse ai remiganti il cuore,
che seduti coi remi battean l'acqua,
saper volendo ciò che avviene in terra:
se avea fruttato la sassosa vigna,
se la vacca avea fatto, se il vicino
aveva d'orzo più raccolto o meno,
e che facea la fida moglie allora,
se andava al fonte, se filava in casa.  

 

XXIII

IL VERO

  Ed il prato fiorito era nel mare,
nel mare liscio come un cielo; e il canto
non risonava delle due Sirene,
ancora, perché il prato era lontano.
E il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare calmo,
spingea la nave verso le Sirene
e disse agli altri d'inalzare i remi:
La nave corre ora da sé, compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite, il braccio su lo scalmo.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il divino Odisseo vide alla punta
dell'isola fiorita le Sirene,
stese tra i fiori, con il capo eretto
su gli ozïosi cubiti, guardando
il mare calmo avanti sé, guardando
il roseo sole che sorgea di contro;
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l'isola dei fiori.
Dormite? L'alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v'ascoltò, ma non poté sostare.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il Vecchio vide un grande mucchio d'ossa
d'uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch'io muoia, a ciò ch'io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E s'ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave

 

Giovanni Pascoli dedicò al mito di Ulisse un intero poema, incluso nella raccolta Poemi conviviali (1904).

Nelle note alla prima edizione dei Poemi conviviali,  Pascoli scriveva: « ... mi sono insegnato di mettere d'accordo l'Odissea (XI, 121-137) col mito narrato da Dante e dal Tennyson.  Odisseo sarebbe, secondo la mia finzione, partito per l'ultimo viaggio dopo che s'era adempito, salvo che per l'ultímo punto, l'oracolo di Tiresia».  L'«oracolo di Tiresia» è la profezia, che Ulisse riceve dall'indovino tebano Tiresía, incontrato nel mondo dei morti (il libro XI dell'Odissea narra infatti la discesa dell'eroe agli Inferi): Ulísse tornerà alla sua patria, ma dovrà quindi affrontare un nuovo viaggio: con un remo in spalla, camminerà fintanto che non sarà giunto ad una terra i cui abitanti, ignari del mare, scambino il remo per un ventílabro, strumento che i contadini usavano per separare il grano dalla pula; allora, confitto a terra il remo e fatti sacrífici a Posidone, potrà tornare a casa e riprendere il posto di re: «per te la morte verrà / fuori dal mare, così serenamente da coglierti / consunto da splendente vecchiezza: intorno avrai popoli ricchi.  Questo senza errore ti annunzio»
( Odissea - Libro XI, vv. 134-137).

Omero immagina per Ulisse, a conclusione di una vita tormentata ed errabonda, una serena vecchiaia; non così Dante e Tennyson che, come abbiamo visto, presentano un eroe o interamente dominato dal desiderio di conoscere, al punto di rinunciare al ritorno ad Itaca, o disgustato della vita mediocre e priva di attrattive che la sua isola e il suo ruolo di sovrano gli offrono, e deciso perciò a riprendere il mare.

L'eroe del Pascoli, invece, dopo aver compiuto il viaggio alla ricerca degli uomini che non conoscono il mare, prescrittogli da Tíresia, per nove anni rimane ad Itaca.  La sua non è però la «splendente vecchiezza » di cui parla il testo omerico, perché Ulisse, assorto nella rievocazione del proprio passato, nel rimpianto dei tempi eroici, è nello stesso tempo colto da un dubbio sempre più tormentoso: gli episodi che egli va ricordando appartengono alla realtà o all'immaginazione?

E' questo dubbio che, nel decimo anno, lo spinge a riprendere la navigazione, con queí compagni che fedelmente lo hanno atteso e ai quali, come in Dante e in Tennyson, Ulisse rivolge un'allocuzione. ( E' il canto XII de L'ultimo viaggio, diviso, a somiglianza dell'Odissea, in ventiquattro canti, con un'inversíone, però: i primi dodici canti presentano l'eroe a terra, gli ultimi dodici ne raccontano il viaggio).

Il viaggio è un navigare a ritroso, alla ricerca dei luoghi e delle figure che più fortemente hanno segnato l'esperienza dell'eroe: Circe, il Ciclope, le Sirene, Calípso.  Ma nulla di ciò che Ulisse ha conservato nel ricordo corrisponde a verità: Circe non esiste, la sua canzone, che l'eroe si illude di risentire, non è che lo sciacquio del mare mosso dal vento; nella grotta di Polifemo abita un innocuo pastore, che a stento ricorda di aver udito raccontare che da quel monte piovevano pietre in mare « ... e che appariva un occhio / nella sua cima, un tondo occhio di fuoco » (XX, vv. 40-41).

Il mito si dissolve, l'avventura di Ulisse si rivela sogno, non realtà.  Ogni certezza sembra dunque crollare: a chi chiedere il «vero», dove cercare risposta al dubbio sempre più inquietante circa l'illusorietà di ogni esperienza umana?  Nell'Odíssea, le Sirene avevano invitato Ulísse a fermarsi ad ascoltare il loro canto, giacché gli avrebbero rivelato ogni cosa:

«Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,
e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.
Nessuno mai è passato di qui con la nera nave
senza ascoltare dalla nostra bocca il suono di miele,
ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose.
Perché conosciamo le pene che nella Troade vasta
soffrirono Argivi e Troiani per volontà degli dei;
conosciamo quello che accade sulla terra ferace»
(X1, vv. 186-191).

Alle Sirene ora si rivolge Ulisse, deciso ad affrontare il rischio di restare ammaliato dal dolce canto e di non far più ritorno in patria; rischio che, nell'Odissea, ammonito da Circe, egli evita turando con la cera le orecchie dei compagni e facendosi legare all'albero della nave.  Ora è invece determinato ad ascoltare fino in fondo, a permettere che la corrente spinga la nave agli scogli delle Sirene.

Il mito greco aveva dato alle Sirene le sembianze di uccelli con volto di donna.  Nei versi del Pascoli, esse hanno inizialmente l'aspetto di enigmatiche sfingi, immobili «alla punta dell'ísola fiorita,, verso cui la corrente «tacíta e soave» spinge inesorabilmente la nave di Ulisse.  La ripresa dei due versi che fungono da ritomello («E la corrente tacita e soave /più sempre avanti sospíngea la nave,» sottolinea in maniera assai evidente (anche la presenza della rima collabora) il mutamento della situazione, ríspetto al racconto di Omero: non è tanto l'eroe padrone di sé, artefice del proprio destino, a scegliere di incontrare le Sirene, ma è piuttosto una forza a lui superiore che ad esse lo trascina.

Certo Ulisse non ha perso la sua fisionomia di eroe della conoscenza: "Son io!  Son io, che tomo per sapere! / Ché molto io vidi " alla ricerca tenace dell'eroe, tuttavia, non ha corrisposto alcuna acquisizione di certezze:  "...ma tutto ch'io guardai nel mondo, mi riguardò; mi domandò: Chi sono?»

Davvero più modemo, questo Ulisse dei Pascoli, non più segnato da quella determinazione a varcare il «límite», a conoscere terre ignote, che caratterizzava gli eroi di Dante e di Tennyson; o meglio, fornito anch'eglí di uguale determinazione, ma diversamente orientata: il suo viaggio non è più volto all'estemo, alla ricerca di nuovi lidi, ma all'intemo, alla scoperta dell'ambiguo confine tra sogno e realtà; mentre il «límite» non è costituito dalle mitiche Colonne d'Ercole, bensì connaturato nella condizione umana, irrevocabilmente volta alla morte.

L'unica risposta all'affannoso interrogare di un Ulisse ormai giunto oltre l'illusione, ormai in grado di intravedere l'ídentità Sírene-scogli, prato fíorito-grande mucchio d'ossa, è il concretízzarsi della sola certezza che l'uomo può avere: la morte.  La sostituzione del consueto ritomello di due versi con l'unico verso «E tra i due scogli si spezzò la nave», che funge da chiusa al canto XXIII, sancisce il carattere «ultimo» del naufragio di Ulisse.  L'Eroe navigatore (così il Pascoli altrove lo designa) è pervenuto alla meta definitiva.

Nel canto XXIV (Calipso), l'ultimo approdo è ímmaginato nell'isola della dea, cui l'eroe senza vita sarà trascinato dalle onde; ma fin d'ora siamo in grado di intendere ciò che il Pascoli ha voluto significare. Il suo Ulisse, così « antieroe » nell'assenza di sicurezze, nel dubbio che investe ogni momento della vita passata e presente, è in realtà anch'eglí «eroe»: nel voler indagare nel mistero dell'animo umano, nell'affrontare il crollo delle illusioni, nell'accettare la realtà della morte.
 

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