Pavese - La guerra partigiana,
la Langa ed il senso del vivere.
L'impossibile viaggio di ritorno nella terra dell'infanzia.
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C. Pavese - La casa in collina
Il tema fondamentale del libro è il dramma
dell'intellettuale, solo ed isolato di fronte alla guerra, incapace di
aderire all'azione resistenziale e di inserirsi attivamente all'interno
delle formazioni partigiane. Egli vanamente si illude che proprio la guerra consenta di "vivere alla giornata" di "chiudersi ancor meglio nella sua solitudine sperimentata da gran tempo". Proprio la guerra invece lo pone di fronte ad una prova essenziale. Cate lo rimprovera della sua inerzia ed egli non sa che rispondere "alzando le spalle.." dall'alto della sua superiorità intellettuale. Anche se alla fine dirà :"Mi accorgo adesso che in tutto quest'anno e che anche prima...quand'eravamo ancora giovani e la guerra era una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra in un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscirne mai più ".
C'è infine il tentativo
di ritrovare il perduto equilibrio tra le colline delle Langhe (
simbolo dell'infanzia innocente ) con un ritorno avventuroso a S.Stefano
Belbo. Tale recupero del passato è comunque
impossibile: la guerra sta lasciando tragiche testimonianze della sua
presenza anche tra i filari delle vigne dove giacciono corpi martoriati dai
colpi delle armi. La città (Torino ) è in generale simbolo di
angoscia e morte, mentre la collina e la vigna ( colline torinesi e Langhe )
dovrebbero essere simbolo di purezza e rigenerazione. |
La conclusione del romanzo Niente è accaduto. Sono a casa da sei mesi, e la guerra continua. Anzi, adesso che il tempo si guasta, sui grossi fronti gli eserciti sono tornati a trincerarsi, e passerà un altro inverno, rivedremo la neve, faremo cerchio intorno al fuoco ascoltando la radio. Qui sulle strade e nelle vigne la fanghiglia di novembre comincia a bloccare le bande; quest'inverno, lo dicono tutti, nessuno avrà voglia di combattere, sarà già duro essere al mondo e aspettarsi di morire in primavera. Se poi, come dicono, verrà molta neve, verrà anche quella dell'anno passato e tapperà porte e finestre, ci sarà da sperare che non disgeli mai più. Abbiamo avuto dei morti anche qui. Tolto questo e gli allarmi e le scomode fughe nelle forre dietro i beni (mia sorella o mia madre che piomba a svegliarmi, calzoni e scarpe afferrati a casaccio, corsa aggobbita attraverso la vigna, e l'attesa, l'attesa avvilente), tolto il fastidio e la vergogna, niente accade. Sui colli, sul ponte di ferro, durante settembre non è passato giorno senza spari - spari isolati, come un tempo in stagione di caccia, oppure rosari di raffiche. Ora si vanno diradando. - Quest'è davvero la vita dei boschi come si sogna da ragazzi. E a volte penso che soltanto l'incoscienza dei ragazzi, un'autentica, non mentita incoscienza, può consentire di vedere quel che succede e non picchiarsi il petto. Del resto gli eroi di queste valli sono tutti ragazzi, hanno lo sguardo diritto e cocciuto dei ragazzi. E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri - noi non più giovani, noi che abbiamo detto «Venga dunque se deve venire» - anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe una cosa pulita. Del resto, chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra - né i vigliacchi, né i tristi, né i soli. Da quando vivo qui coi miei, ci penso spesso. Tutti avremo accettato di far la guerra. E allora forse avremo pace." Malgrado i tempi, qui nelle cascine si è spannocchiato e vendemmiato. Non c'è stata - si capisce - l'allegria di tanti anni fa: troppa gente manca, qualcuno per sempre. Dei compaesani soltanto i vecchi e i maturi mi conoscono, ma per me la collina resta tuttora un paese d'infanzia, di falò e di scappate, di giochi. Se avessi Dino qui con me potrei passargli le consegne; ma lui se n'è andato, e per fare sul serio. Alla sua età non è difficile. Più difficile è stato per gli altri, che pure l'han fatto e ancora lo fanno." Adesso che la campagna è brulla, torno a girarla; salgo e scendo la collina e ripenso alla lunga illusione da cui ha preso le mosse questo racconto della mia vita. Dove questa illusione mi porti, ci penso sovente in questi giorni: a che altro pensare? Qui ogni passo, quasi ogn'ora del giorno, e certamente ogni ricordo più inatteso, mi mette innanzi ciò che fui - ciò che sono e avevo scordato. Se gli incontri e i casi di quest'anno mi ossessionano, mi avviene a volte di chiedermi: «Che c'è di comune tra me e quest'uomo che è sfuggito alle bombe, sfuggito ai tedeschi, sfuggito ai rimorsi e al dolore?». Non è che non provi una stretta se penso a chi è scomparso, se penso agli incubi che corrono le strade come cagne - mi dico perfino che non basta ancora, che per farla finita l'orrore dovrebbe addentarci, addentare noi sopravvissuti, anche più a sangue - ma accade che l'io, quell'io che mi vede rovistare con cautela i visi e le smanie di questi ultimi tempi, si sente un altro, si sente staccato, come se tutto ciò che ha fatto, detto e subìto, gli fosse soltanto accaduto davanti - faccenda altrui, storia trascorsa. Questo insomma m'illude: ritrovo qui in casa una vecchia realtà, una vita di là dai miei anni, dall’Elvira, da Cate, di là da Dino e dalla scuola, da ciò che ho voluto e sperato come uomo, e mi chiedo se sarà mai capace di uscisse. M'accorgo adesso che in tutto quest'anno, e anche prima, anche ai tempi delle magre follie, dell'Anna Maria, di Gallo, di Cate, quand'eravamo ancora giovani e la guerra una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai più. E qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche Giorgi c'è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: « Avremo tempo le sere di neve a riparlarne»), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo avesse sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vedere, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto dei morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. Rimpiango che Belbo sia rimasto a Torino. Parte del giorno la passa in cucina, nell'enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in cantina, col passo del vecchio Gregorio. A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è «La smettessero un po'», e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: - Non è giusto. Non hanno il diritto. La chiedano piuttosto in regalo. - Chi ha il diritto? - gli faccio. - Lascia che tutto sia finito e si vedrà, - dice lui.
lo non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è
guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero
chiedersi: - E dei caduti che facciamo? perché sono morti? - Io non saprei
cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo
sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra
è finita davvero. |
La collina è attraversata dalla guerra esattamente come la città, anzi la morte è in agguato in ogni angolo, tra i filari delle viti, ad una svolta della strada che costeggia i crinali, dietro ad un carro di fieno che si nasconde tra il fogliame.
Proprio dove la guerra non parrebbe poter
giungere a disturbare quegli eterni ritmi di vita contadina in sintonia con
l'alternarsi ordinato delle stagioni, ebbene proprio lì infuria più cruenta
la guerra partigiana. Corrado capirà la vera legge della guerra; solo tra le sue terre egli rifletterà al senso dei morti di entrambe le parti lasciati sul campo. Sentirà la responsabilità indiretta di quelle morti, per non aver arrestato il fascismo e la guerra in tempo. Le responsabilità storiche sono comuni. E' impossibile vivere come l'eterno ragazzo che tenta fino all'ultimo di nascondersi sotto un cespuglio aspettando che tutto passi.
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L'ideologia non basta a giustificare i nemici uccisi, le ragioni storiche per lo scrittore del '47-'48 non sono ancora sufficienti. Forse la charitas cristiana aiuta a trovare ragioni per i nemici uccisi? Ma anche la religione sembra rientrare nella storia disperata dell'uomo. Si disegna allora sul secondo piano un senso ultimo di nichilismo vero e proprio: nella storia (dove non esiste vera pace, vera salvezza per l'uomo), si ripete, nell'orrore e nel sangue, la distruzione che è eterna qualità < selvaggia» dell'essere, la cui essenza, dionisiaca e nietzscheana, sta nell'eterna creazione e distruzione di sé.
E perciò si deve nutrire
pietà per tutti i morti, e il fratricidio è di tutte le guerre («ogni guerra
è una guerra civile»). Questa maggiore problematicità collega perfettamente
e direttamente il romanzo a Il diavolo sulle colline, che riapprofondirà il
tema del «selvaggio naturale» della collina come teatro dionisiaco e,
soprattutto, a La luna e i falò, di cui La casa in collina costituisce, in
un certo senso, una sorta d'introduzione." |