Capitolo VIII - Psicanalisi
(....) Mi rese anche piú nervoso
l'incontro casuale con un plotone di
soldati che marciava sulla strada in direzione di Lucinico. Erano dei
soldati non giovini e vestiti ed attrezzati molto male. Dal loro fianco
pendeva quella che noi a Trieste dicevamo la Durlindana, quella baionetta
lunga che in Austria, nell'estate del 1915, avevano dovuto levare dai vecchi
depositi.
Per qualche tempo camminai dietro di loro
inquieto d'essere presto a casa.
Poi mi seccò un certo odore di selvatico frollo che emanava da loro e
rallentai il passo. La mia inquietudine e la mia fretta erano sciocche. Era
pure sciocco d'inquietarsi per aver assistito all'inquietudine di un
contadino. Oramai vedevo da lontano la mia villa ed il plotone non c'era piú
sulla strada. Accelerai il passo per arrivare finalmente al mio caffelatte.
Fu qui che cominciò la mia avventura. Ad uno svolto di via,
mi trovai arrestato da una
sentinella che urlò:
- Zurück! - mettendosi addirittura in posizione di sparare.
Volli parlargli in tedesco giacché in tedesco aveva urlato, ma egli del
tedesco non conosceva che quella sola parola che ripeté sempre piú
minacciosamente.
Bisognava andare zurück ed io guardandomi sempre dietro nel
timore che l'altro, per farsi intendere meglio, sparasse, mi ritirai con una
certa premura che non m'abbandonò neppure quando il soldato non vidi piú.
Ma ancora non avevo rinunciato di arrivare subito alla mia villa.
Pensai che varcando la collina alla mia destra, sarei arrivato molto dietro
la sentinella minacciosa.
L'ascesa non fu difficile specie perché l'alta erba era stata
curvata da molta gente che doveva essere passata per di là prima di me.
Certamente doveva esservi stata
costretta dalla proibizione di passare per la strada. Camminando riacquistai
la mia sicurezza e pensai che al mio arrivo a Lucinico mi sarei subito
recato a protestare dal capovilla per il trattamento che avevo dovuto
subire. Se permetteva che i villeggianti fossero trattati cosí,
presto a Lucinico non ci sarebbe venuto nessuno!
Ma arrivato alla cima della collina,
ebbi la brutta sorpresa di trovarla
occupata da quel plotone di soldati dall'odore di selvatico. Molti
soldati riposavano all'ombra di una casetta di contadini che io conoscevo da
molto tempo e che a quell'ora era del tutto vuota; tre di essi parevano
messi a guardia, ma non verso il versante da cui io ero venuto, e alcuni
altri stavano in un semi circolo dinanzi ad un ufficiale che dava loro delle
istruzioni che illustrava con una carta topografica ch'egli teneva in mano.
Io non possedevo neppure un cappello che potesse servirmi per
salutare. Inchinandomi varie volte e col mio piú bel sorriso, m'appressai
all'ufficiale il quale, vedendomi, cessò di parlare coi suoi soldati e si
mise a guardarmi. Anche i cinque mammelucchi che lo circondavano mi
regalavano tutta la loro attenzione.
Sotto tutti quegli sguardi e sul terreno non piano era difficilissimo di
moversi.
L'ufficiale urlò:
- Was will der dumme Kerl hier? - (Che cosa vuole quello
scimunito?).
Stupito che senz'alcuna provocazione mi si offendesse cosí, volli
dimostrarmi offeso virilmente ma tuttavia con la discrezione del caso,
deviai di strada e tentai di arrivare al versante che m'avrebbe portato a
Lucinico. L'ufficiale si mise ad
urlare che, se facevo un solo passo di piú, m'avrebbe fatto tirare adosso.
Ridivenni subito molto cortese e da quel giorno a tutt'oggi che scrivo,
rimasi sempre molto cortese.
Era una barbarie d'essere costretto di trattare con un tomo simile, ma
intanto si aveva il vantaggio ch'egli parlava correntemente il tedesco. Era
un tale vantaggio che, ricordandolo, riusciva piú facile di parlargli con
dolcezza. Guai se bestia come era non avesse neppur compreso il tedesco.
Sarei stato perduto.
Peccato che io non parlavo abbastanza correntemente quella lingua
perché altrimenti mi sarebbe stato facile di far ridere quell'arcigno
signore. Gli raccontai che a Lucinico m'aspettava il mio caffelatte da cui
ero diviso soltanto dal suo plotone.
Egli rise, in fede mia rise.
Rise sempre bestemmiando e non ebbe la pazienza di lasciarmi finire.
Dichiarò che il caffelatte di Lucinico sarebbe stato bevuto da altri e
quando sentí che oltre al caffè c'era anche mia moglie che m'aspettava,
urlò:
- Auch Ihre Frau wird von anderen gegessen werden. - (Anche
vostra moglie sarà mangiata da altri).
Egli era oramai di miglior umore di me. Pare poi gli fosse spiaciuto
di avermi dette delle parole che, sottolineate dal riso clamoroso dei cinque
mammalucchi, potevano apparire offensive; si fece serio e mi spiegò che non
dovevo sperare di rivedere per qualche giorno Lucinico ed anzi in amicizia
mi consigliava di non domandarlo piú perché bastava quella domanda per
compromettermi!
- Haben Sie verstanden? - (Avete capito?)
Io avevo capito, ma non era mica facile di adattarsi di rinunziare
al caffelatte da cui distavo non piú di mezzo chilometro. Solo perciò
esitavo di andarmene perché era evidente che quando fossi disceso da quella
collina, alla mia villa, per quel giorno, non sarei giunto piú. E, per
guadagnar tempo, mitemente domandai all'ufficiale:
- Ma a chi dovrei rivolgermi
per poter ritornare a Lucinico a prendere almeno la mia giubba e il mio
cappello?
Avrei dovuto accorgermi che all'ufficiale tardava di esser lasciato
solo con la sua carta e i suoi uomini, ma non m'aspettavo di provocare tanta
sua ira.
Urlò, in modo da intronarmi l'orecchie, che m'aveva già detto che
non dovevo piú domandarlo. Poi m'impose di andare dove il diavolo vorrà
portarmi (wo der Teufel Sie tragen will). L'idea di farmi portare non
mi spiaceva molto perché ero molto stanco, ma esitavo ancora. Intanto però
l'ufficiale a forza d'urlare s'accese sempre piú e con accento di grande
minaccia chiamò a sé uno dei cinque uomini che l'attorniavano e appellandolo
signor caporale gli diede l'ordine di condurmi già della collina e di
sorvegliarmi finché non fossi sparito sulla via che conduce a Gorizia,
tirandomi addosso se avessi esitato
ad ubbidire.
Perciò scesi da quella cima piuttosto volontieri:
- Danke schön, - dissi anche senz'alcun'intenzione d'ironia.
Il caporale era uno slavo che parlava
discretamente l'italiano. Gli parve di dover essere brutale in presenza
dell'ufficiale e, per indurmi a precederlo nella discesa, mi gridò:
- Marsch! - Ma quando fummo un po' piú lontani si fece dolce e
familiare. Mi domandò se avevo delle
notizie sulla guerra e se era vero ch'era imminente l'intervento italiano.
Mi guardava ansioso in attesa della risposta.
Dunque neppure loro che la facevano sapevano se la guerra ci fosse o
no! Volli renderlo piú felice che
fosse possibile e gli diedi le notizie che avevo propinate anche al
padre di Teresina. Poi mi pesarono sulla coscienza.
Nell'orrendo temporale che scoppiò,
probabilmente tutte le persone ch'io rassicurai perirono. Chissà
quale sorpresa ci sarà stata sulla loro faccia cristallizzata dalla morte.
Era un ottimismo incoercibile il
mio. Non avevo sentita la guerra nelle parole dell'ufficiale e meglio ancora
nel loro suono?
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Dal Maggio dell'anno scorso non avevo piú toccato questo libercolo.
Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto
avessi ancora annotato.
È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli
anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e
della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche
queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua
edificazione. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai
tanto che oramai ho le idee ben chiare.
Intanto egli crede di
ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la
descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza
inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare
la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non
proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti
martiri.
Non è per il confronto ch'io mi senta sano. Io sono sano,
assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere
altro che la mia convinzione e ch'era una sciocchezza degna di un sognatore
ipnagogico di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensí di certi
dolori, ma mancano d'importanza nella mia grande salute. Posso mettere un
impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi
nell'immobilità come gl'incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma,
non può essere considerata quale una malattia perché duole.
Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino
dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col
trionfo. Fu il mio commercio che mi guarí e voglio che il dottor S. lo
sappia.
Attonito e inerte, stetti a
guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell'Agosto dell'anno scorso.
Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo
perché ha un significato piú alto di prima della guerra. In bocca di un
commerciante, allora, significava ch'egli era disposto a comperare un dato
articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch'io ero compratore di
qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti,
io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna.
L'Olivi non era a Trieste, ma è certo ch'egli non avrebbe permesso un
rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un
rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza.
Dapprima m'ero messo, secondo
l'antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in
oro, ma v'era una certa difficoltà di comperare e vendere dell'oro.
L'oro per cosí dire liquido, perché piú mobile, era la merce e ne feci
incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in
misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei
acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi
mezzi di cui abbisognavo per quelli.
Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura
apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la
mia nuova idea: una partita non grande d'incenso. Il venditore mi vantava la
possibilità d'impiegare l'incenso quale un surrogato della resina che già
cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che
l'incenso mai piú avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente
toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una
miseria tale da dover accettare l'incenso quale un surrogato della resina. E
comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai
l'importo che m'era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel
momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento
della mia forza e della mia salute.
Il dottore, quando avrà ricevuta quest'ultima parte del mio
manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera
perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest'ultimo
periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso!
Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere
nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco
alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri
miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è
sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che
abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena
curati.
La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli
alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio.
Può avvenire di peggio. Il triste e
attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre
forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande
ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da
un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al
pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può
appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del
proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era
altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che
muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo.
La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il
cavallo s'ingrandí e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo
il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo
corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca
in chi li usa. Gli ordigni si
comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre piú furbo e piú
debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua
debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non
potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai,
l'ordigno non ha piú alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la
malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice.
La legge del piú forte sparí e perdemmo la selezione salutare. Altro che
psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero
di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una
catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.
Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli
altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo
incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti
saranno considerati quali innocui giocattoli.
Ed un altro uomo fatto anche lui
come tutti gli altri, ma degli altri un po' piú ammalato, ruberà tale
esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il
suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che
nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli
priva di parassiti e di malattie. |