L'ansia di conoscenza spinge l'eroe ad abbandonare le sterili rocce di Itaca per l'ultimo viaggio. A.Tennyson - Ulisse
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Nell'Ulisse di Tennyson ritroviamo il bisogno di ripartire, di ricominciare. Il re ad Itaca, seduto davanti al suo focolare, si sente neghittoso, inetto e debole, in quanto sembra non assolvere a pieno il suo destino. Governare gente selvaggia, che ignora il suo glorioso passato non gli giova: altro è il suo compito. Gioie e dolori grandi hanno caratterizzato la sua esperienza di eroe, esule e viaggiatore: ora la vita va sperimentata fino in fondo, attraverso nuovi viaggi e conoscenze. |
Ciò che incontrai nella mia strada, ora ne sono una
parte. Pur, ciò ch'io vidi è l'arcata che s'apre sul nuovo: sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro. Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine, il restare sotto la ruggine opachi nè splendere più nell'attrito. Come se il vivere sia quest'alito! vita su vita poco sarebbe, ed a me d'una, ora, un attimo resta. Pure, è un attimo tolto all'eterno silenzio, ed ancora porta con sè nuove opere, e indegno sarebbe, per qualche due o tre anni, riporre me stesso con l'anima esperta ch'arde e desìa di seguir conoscenza: la stella che cade oltre il confine del cielo, al di là dell'umano pensiero. |
La
conoscenza è legata al procedere nei viaggi ed al susseguirsi delle
esperienze: essa è parte della vita stessa dell'eroe.
I margini di novità si fanno via via più sfocati, man mano si procede nella
scoperta di nuove mete. Porre un limite alle esperienze è insensato, l'arrestarsi al di qua della conoscenza, il negarsi il rischio dell'avventura diventa sinonimo di opacità della vita. La metafora dell'attrito con la nuove realtà diviene correlativo di una vita splendente, luminosa nell'attivo conoscere e misurarsi. L'animo del resto arde e desidera nuove prove; sarebbe indegno non rispondere a tale interiore richiamo. |
Ecco mio figlio, Telemaco mio, cui ed isola e scettro lascio; che molto io amo; che sa quest'opera, accorto, compiere; mansuefare una gente selvatica, adagio, dolce, e così via via sottometterla all'utile e al bene. Irreprensibile egli è, ben fermo nel mezzo ai doveri, pio, che non mai mancherà nelle tenere usanze, e nel dare il convenevole culto agli dei della nostra famiglia, quando non sia qui io: il suo compito e' compie; io, il mio. |
Ulisse lascia la cura della sua terra,
Itaca, al figlio
Telemaco , che avrà dunque un compito diverso dal
suo, cioè quello di governare e di civilizzare gente selvaggia, educandola
all'utile ed al bene, conservando l'antico culto degli dei. Ulisse dovrà invece ancora viaggiare, conoscere, spingersi su nuove terre e nuovi mari.... un dovere che pare legato ad un ordine divino e superiore: Tale imperativo morale Ulisse sembra condividere simbolicamente con il popolo inglese del XIX secolo nel suo ruolo pionieristico di missione vittoriana alla colonizzazione. |
Eccolo il porto, laggiù: nel vascello si gonfia la vela: ampio nell'oscurità si rammarica il mare. Compagni, cuori ch'avete con me tollerato, penato, pensato, voi che accoglieste, ogni ora, con gaio ed uguale saluto tanto la folgore quanto il sereno, che liberi cuori, libere fronti opponeste: oh! noi siam vecchi compagni; pur la vecchiezza anch'ella ha il pregio, ha il compito: tutto chiude la Morte; ma può qualche opera compiersi prima d'uomini degna che già combatterono a prova coi Numi! Già da' tuguri sui picchi le luci balenano: il lungo giorno dilegua, la luna insensibile monta; l'abisso geme e sussurra all'intorno le sue mille voci. Venite: tardi non è per coloro che cercano un mondo novello. |
Ulisse in porto vede nel mare un suo antico compagno, il referente obbligato al suo ultimo viaggio, che sta per intraprendere in età avanzata in compagnia dei fedeli marinai. Essi lo seguirono sempre nelle sue peregrinazioni ed anche ora lo affiancheranno fino alla morte. La memoria è qui dominante; Ulisse è pronto a ripartire e le vele, già gonfie di vento, riportano alla sua mente il ricordo dei giorni in cui, ancora giovane, fu costretto ad abbandonare la patria per la guerra di Troia. |
Uomini, al largo, e sedendovi in ordine, i solchi sonori via percotete: ho fermo nel cuore passare il tramonto ed il lavacro degli astri di là: fin ch'abbia la morte. Forse è destino che i gorghi del mare ci affondino;forse, nostro destino è toccare quelle isole della Fortuna, dove vedremo l'a noi già noto, magnanimo Achille. Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza più che nei giorni lontani moveva la terra ed il cielo: noi, s'è quello che s'è: una tempra d'eroici cuori, sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri sempre in lottare e cercare e trovare ne cedere mai. |
Egli sa di non essere più un uomo simile a
quello di allora, ma è pure conscio
del fatto che, se la forza fisica cambia, la tempra dura degli eroi non muta.
Ulisse dunque si sente capace di affrontare i
nuovi compiti di scoperta, che il viaggio porta con sé, con intraprendenza e
tenacia, senza arrestarsi di fronte ai pericoli ed all'idea stessa della
morte in mare. La vecchiaia in questo senso non è un freno
all'azione, ma è capace di aggiungere una nuova consapevolezza al proprio
destino. |