Des
Esseintes è il capostipite degli eroi decadenti. In aperta opposizione
col mondo e la vita di ogni giorno, con i valori e le norme borghesi egli è
un ribelle, a cui manca tuttavia una ricca vita interiore, che dia senso
alla sua costruzione di mondi alternativi. La sua violazione delle regole,
che determinano la civile convivenza, lo spingono ad un rigido
isolamento, retto sull'artificiosa
ricostruzione di un ambiente di vita del tutto fittizio, in cui il soggetto
tenta di ricostruirsi una dimensione esistenziale
privilegiata e protetta rispetto alla volgarità della normale vita della sua
società, producendo uno schermo dalle onde
della mediocrità umana che salgono fino al cielo.
In questa prospettiva arte e
bellezza divengono valori fondanti di questo mondo alternativo,
vacuo e sterile, che si ricrea progressivamente con un
processo di continua astrazione dalla realtà, dalla quale si finisce per
perdere ogni contatto. Nella costruzione artificiale di questo
concetto di bellezza esclusiva, la fantasia concretizza ogni desiderio di
appagamento e di piacere intenso e raffinato. Dapprima agisce
l'analitica perlustrazione dei sensi,
accuratamente esaminati nelle loro risposte a stimoli precisi. L'esame degli
effetti dei colori
sull'arredamento degli interni non è
solo finalizzato a creare una raffinata realizzazione decorativa, ma
piuttosto a concretizzare uno stabile legame tra certe
tonalità pregnanti sulla sensibilità dell'esteta e la loro soggettiva,
quotidiana frequentazione. Dallo studio delle abitudini percettive
del soggetto si ricrea artificialmente
un complesso sistema di concrete soluzioni, che
hanno il compito di rinnovare indefinitivamente
sensazioni forti ed esclusive. Tali sensazioni tuttavia si
esauriscono nello spazio chiuso del loro fruitore.
Una bellezza continuamente rifatta e manipolata: ogni senso richiede
di rispettare una sorta di codice di riferimento,
fatto non di semplici duplicazioni della bellezza della natura, ma di
infinite sue variazioni ed intrecci, che
facciano dimenticare la virtualità asettica e
falsificata del piacere stesso. La natura
è soppiantata dalla cultura, intesa come
artificio. Anche gli attributi classici
della bellezza ( purezza, armonia, linearità naturale ) vengono soppiantati
dalla manipolazione e dall'artificio umano. Interessante a questo proposito
il repertorio di profumi che Des Esseintes
colleziona nella sua dimora e che educano l'olfatto a
sensazioni sempre più particolari... staccate del tutto dall'abituale
contesto percettivo degli uomini comuni.
Sublimazione, condensazione, dislocazione, rarefazione sono le
operazioni che rendono possibile la nuova fruizione allucinata del piacere
estetico.
" Tutto sta saper fare, saper concentrare l'attenzione su un unico punto;
sapersi astrarre abbastanza da produrre l'allucinazione e da sostituire alla
realtà reale la realtà fantasticata".
Il distacco definitivo tra arte e vita ( ove la prima si
assume il compito di assorbire la seconda ) è segno di
malattia, di crisi esistenziale e di nevrosi, che rasenterà la follia.
Des Esseintes ama del resto la letteratura della decadenza,
il suo è un ritorno all'indietro ( A rebours
) a quelle età che hanno assaporato il gusto malato della crisi di valori e
l'estenuazione di una raffinata preziosità, che sa di morte e sconfitta di
antichi valori morali.
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da
Controcorrente
Ormai aspirava semplicemente a crearsi - pel proprio piacere, non più per
sbalordire altrui -
un interno provvisto d'ogni comodità, eppure
messo in
modo non comune;
a formarsi
un nido singolare e tranquillo, adatto ai
bisogni della futura solitudine.
Quando l'architetto cui l'aveva affidata, gli consegnò la casa allestita di
tutto punto in conformità dei suoi piani e desideri; quando non restò più
che fissarne l'arredamento e la decorazione, daccapo
egli riprese a suo agio
in esame tutti i possibili colori e le loro gradazioni.
Voleva dei colori che si affermassero alla luce fittizia delle lampade;
poco
gli importava che a quella del giorno risultassero sfacciati o scialbi.
Quasi solo di notte viveva, stimando che di notte in nessun luogo si stava
bene come in casa, in nessun luogo era più solo e che
l'anima non spiccava
il volo e non fiammeggiava che nell'immediata vicinanza dell'ombra. Trovava
pure un particolare godimento a restare in una camera bene illuminata, desta
e all'erta essa sola, tra tante case piene di buio e di sonno; godimento in
cui entrava forse una punta di
vanità;
compiacimento affatto egoistico, che
conosce chi lavora sin tardi, quando, alzando le tendine della finestra,
constata che tutto intorno a lui è spento, tutto è muto, tutto è morto.
A suo agio, scelse a una a una le tinte.
L'azzurro, alla luce delle candele, dà in un verde posticcio; se è carico,
come l'indaco e il cobalto, diventa nero; se è chiaro, volge al grigio; se è
limpido e tenero come la turchese, s'offusca e si ghiaccia. A meno dunque di
associarlo come complementare ad un altro colore, non c'era da pensare di
farne la nota dominante d'un ambiente.
D'altra parte, i
grigi ferro, alla luce artificiale, s'imbronciano di più e
s'appesantiscono; i
grigi perla
perdono l'azzurro e si mutano in bianco
sporco; i
bruni, s'addormentano e si raffreddano; quanto ai
verdi carichi,
come sarebbe il verde-imperatore ed il verde-mirto, si comportano nello
stesso modo dei verdi densi e si fondono coi neri.
Restavano dunque i
verdi più chiari, come il
verde-pavone, i cinabri e le
lacche; ma allora la luce artificiale esilia il loro azzurro, per non
serbare che il giallo, il quale non conserva a sua volta che un tono falso,
un sapore equivoco.
Neanche c'era da pensare ai colori salmone, granoturco; né ai rosa:
l'effeminatezza di queste tinte contraria i propositi d'isolamento.
Non
c'era infine da prendere in considerazione i
violetti, i quali si spogliano:
solo il
rosso
che contengono viene a galla la sera; e che rosso! un rosso
vischioso, la feccia d'un vino ignobile. Giudicava d'altronde affatto
inutile ricorrere a questo colore quando, ingerendo una certa dose di
santonina, si vede violetto: ciò che rende agevole mutare, lasciandole al
loro posto, la tinta delle tappezzerie.
Scartati questi colori,
non ne rimanevano che tre: il rosso, l'arancione, il
giallo.
A tutti preferiva l'arancione.
Trovava così in se stesso conferma ad una
teoria ch'egli dichiarava pressoché matematicamente esatta:
che una armonia,
una rispondenza esiste tra la natura sensuale d'un vero artista ed il colore
che i suoi occhi apprezzano meglio e cui sono più sensibili.
Trascurando infatti la grande maggioranza degli uomini che han la retina
così grossolana da non apprezzare né la cadenza propria a ogni colore né
l'arcano fascino delle gradazioni e delle sfumature; trascurando del pari
l'occhio del borghese, insensibile alla pompa e al vittorioso squillo dei
toni alti e vibranti;
non prendendo in considerazione che gli individui
dalla pupilla squisita, educata dalla letteratura e dall'arte, gli pareva
fuori dubbio che l'occhio di quello fra di essi che sogna l'ideale, che
reclama delle illusioni, che implora dei veli nei tramonti, è di solito
accarezzato dall'azzurro e dai colori che ne derivano, quale il malva, il
lilla, il grigio perla: purché tuttavia essi restino tenui e non varchino il
limite oltre il quale divengon altri, si trasformano in violetti puri, in
meri grigi.
Quelli invece che procedono a passo di carica, i pletorici, i bei sanguigni,
i solidi maschi che disdegnano i preludi e gli intermezzi e s'avventano
perdendo subito la testa, per la maggior parte
costoro applaudono ai
luccichii sfacciati dei gialli e dei rossi, ai colpi di tamburo dei cinabri
e dei cromi che li accecano e li sborniano.
Insomma, l'occhio delle persone deboli e nervose che han bisogno, per
risvegliare l'appetito, di cibi affumicati o piccanti;
l'occhio di chi è
sovreccitato ed estenuato predilige, quasi sempre, l'arancione: questo
colore dagli splendori fittizi, dalle febbri acide.
La scelta di Des Esseintes non lasciava dunque adito a dubbi; ma innegabili
difficoltà si presentavano ancora. Se il rosso e il giallo s'esaltano alla
luce, lo stesso non sempre si può dire del loro composto, l'arancione: che
si tramuta ben spesso in rosso-nasturzio, in rosso-fuoco.
Alla luce delle candele studiò tutte le sue gradazioni e ne scoperse una che
gli parve non dovesse subire squilibri ed eludere la sua attesa.
Ottenuto questo primo risultato,
si propose di scartare, per quanto
possibile - nell'addobbo almeno dello studio - stoffe e tappeti orientali,
diventati, oggidì che i mercanti arricchiti se li procurano con poca spesa
negli empori di novità, così stucchevoli e così ordinari.
Tutto considerato,
decise di far fasciare le pareti come si rilegano i libri:
di marocchino a
grana grossa schiacciata, con pelle del Capo resa lustra da robuste lastre
di acciaio sotto un torchio pesante.
Quando le pareti furono addobbate, fece dipingere i tondini e la cimasa in
indaco carico, in un indaco laccato simile a quello che si adopera per i
pannelli delle carrozze; e la volta, un po' arrotondata, rivestita del pari
di marocchino, schiuse, come un'immensa finestra tonda incastonata nella sua
buccia d'arancio, un cerchio di cielo in seta azzurro-del-re, nel quale si
libravano ad ali spiegate serafini d'argento, recentemente ricamati dalla
Confraternita dei Tessitori di Colonia per un antico piviale.
La sera, quando ogni cosa fu a posto, tutto si conciliò, s'affatò, prese
unità.
Lo zoccolo immobilizzò il suo azzurro, sostenuto per così dire,
riscaldato dagli arancioni: che, a loro volta, si mantennero schietti,
appoggiati e in certo modo attizzati che furono dall'incalzare dei blu.
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Cap III
Quando il tempo in cui l'uomo di talento si trova forzato
a vivere è stupido e piatto, l'artista, anche a propria insaputa, è
assillato dalla nostalgia di un altro secolo. Non potendo che raramente e
per poco accordarsi con l'ambiente in cui cresce, esaurito che abbia il
godimento che può dargli lo studio di quell'ambiente, l'osservazione e
l'analisi esercitate su chi lo subisce - piacere che bastava a distrarlo -;
sente sorgere in sé e sbocciare una confusa brama di emigrare: aspirazione
che studio e riflessione portano poi a chiarirsi.
Istinti, sensazioni,
tendenze ataviche si risvegliano, si precisano, s'impongono, divengono
imperiosa esigenza. S'affacciano in lui reminiscenze di cose e persone
estranee alla sua personale esperienza; finché l'ora scocca che a forza egli
evade dal reclusorio del suo tempo per aggirarsi in piena libertà in un
altro tempo, che crede per un'estrema illusione a sé più consono.
C'è così chi torna ad età defunte, a civiltà
scomparse, a secoli perenti; chi si avventa nei mondi della fantasia e del
sogno, vivendo con più o meno intensità il miraggio d'un tempo a venire;
d'un tempo che rispecchia, senza ch'egli lo sappia, per influenze ataviche,
l'immagine di epoche trascorse.
In Flaubert si trattava d'imponenti e vasti
affreschi, dove dalla smagliante cornice d'una sfarzosa barbarie
si
staccavano soavi creature frementi di vita, enigmatiche e altere;
donne che
a una compiuta bellezza accoppiano
un'anima
tormentata, nel cui segreto Des Esseintes ravvisava
una paurosa inettitudine
a vivere, folli aspirazioni scaturite dalla desolante consapevolezza che già
esse avevano della mediocrità delle gioie che potevano aspettarsi dalla
vita. La genialità del grande artista sbocciava in
pieno nelle incomparabili pagine della Tentazione di S. Antonio e di
Salambò
dove, dimentico della nostra meschina esistenza, egli evocava gli splendori
asiatici del passato, gli amori di quegli antichi, i loro mistici
scoramenti, le follie che suggeriva l'ozio, gli atti di ferocia cui li
spingeva il pesante tedio che nasce, prima ancora che se ne veda il fondo,
dall'opulenza e dal fanatismo.
In De Goncourt, era la nostalgia del secolo
precedente, un viaggio
a ritroso alla ricerca delle eleganze d'una società
per sempre perduta. La grandiosa cornice d'un mare che flagella i moli, di
deserti che si perdono a vista d'occhio sotto torridi cieli, mancava alla
sua opera nostalgica; ad essa bastava, presso un parco aristocratico,
il
salottino che intiepidisse l'effluvio voluttuoso di una donna dal sorriso
stanco, dall'espressione perversa, dallo sguardo irrasegnato e pensoso.
L'anima dei suoi personaggi non era più quella
che Flaubert prestava ai propri: un'anima nauseata in anticipo dalla
spietata certezza che nessuna felicità nuova è possibile; quella dei suoi,
era un'anima disillusa, dopo averne fatto la prova, di tutti gli inutili
sforzi tentati per creare legami spirituali inediti, per non rassegnarsi al
piacere che, da che mondo è mondo va a finire nella sazietà, più o meno
ingegnosamente procacciata, dell'accoppiamento. Sebbene vivesse in mezzo a noi ed appartenesse
in tutto e per tutto al tempo nostro, la Faustin era, per influssi atavici,
una creatura del settecento; di quel secolo aveva il piccante nell'anima, la
stanchezza cerebrale, la spossata sensualità. Questo, di Edmond De Goncourt, era uno dei
libri che Des Esseintes amava di più; e in verità,
di inviti al sogno - che
è ciò ch'egli alla lettura chiedeva - quest'opera traboccava; sotto ogni
riga stampata, un'altra traspariva visibile solo all'anima; suggerita da un
aggettivo che apriva spiragli a fughe appassionate; da una reticenza che
lasciava intravedere abissi che nessun linguaggio può colmare.
Poi, non era più la lingua di Flaubert, quella
lingua d'una inimitabile magnificenza; sì, uno stile avvertito e morbido,
nervoso e scaltrito, preciso nel rendere lo stimolo impercettibile che
determina la sensazione; uno stile che sapeva rendere con esattezza e grazia
insieme le complicate sfumature di un'epoca già di per sé singolarmente
complessa. Era il verbo, insomma, indispensabile alle civiltà decrepite che,
per esprimere i loro bisogni, esigono, qualunque sia l'età in cui
fioriscono, delle eccezioni, delle movenze sintattiche nuove, la fusione di
nuovi modi di dire e di nuovi vocaboli.
A Roma, sul morire, il paganesimo aveva
modificato la prosodia, trasformato la lingua con Ausonio, con Claudiano,
con Rutilio, il cui stile attento e scrupoloso, avvincente e sonante, dove
soprattutto descrive riflessi, ombre, mezze tinte, presentava un'analogia,
che non poteva non sorprendere, con lo stile dei De Goncourt.
A Parigi s'era per tal modo verificato un
fenomeno unico nella storia delle letterature. L'agonizzante società del
settecento, che aveva visto i suoi gusti e il suo pensiero interpretati da
pittori, scultori, musici, architetti, non aveva saputo esprimere dal suo
seno un autentico scrittore che fermasse nelle lettere le sue grazie
moribonde, che consegnasse alla parola scritta l'essenza delle sue gioie
febbrili, così duramente espiate, era occorso aspettare la comparsa di De Goncourt - di quest'uomo dal temperamento fatto di ricordi,
di rimpianti
acuiti ancora dal doloroso spettacolo della miseria spirituale e delle basse
aspirazioni dei suoi contemporanei - perché, non solo in volumi di storia,
ma anche in un'opera nostalgica come la Faustin, potesse resuscitare l'anima
stessa di quell'epoca, incarnare la sua isterica sensibilità in quella
attrice, così tormentata da strizzarsi il cuore e da martoriarsi il cervello
per assaporare i dolorosi revulsivi dell'amore sino allo spossamento e sino
all'arte.
Di tutt'altro genere era la scontentezza di
Zola. Nessuna velleità in lui di emigrare verso modi di vita scomparsi,
mondi perduti nella notte dei tempi. Tutto preso dallo spettacolo della vita
e delle sue esuberanze, innamorato dell'uomo moralmente sano, cui scorre
nelle vene un sangue impetuoso, il suo temperamento solido e possente lo
distraeva tanto dalle grazie artefatte e dalle imbellettate clorosi del
settecento che dalla solennità ieratica, dalla ferocia brutale e dai sogni
effeminati e ambigui dei vecchio Oriente. La volta che anche lui era stato aggredito
dalla nostalgia, dal bisogno - che fa tutt'uno insomma con la poesia -
di
fuggire lontano da quel mondo che stava studiando: quel giorno egli
s'era
rifugiato in una campagna idealizzata, dove in pieno sole le linfe ribollono;
aveva fantasticato d'una terra che spasima nell'amplesso d'un cielo in
amore; di polline che cade in pioggia su organi di fiori anelanti d'essere
fecondati. Aveva messo capo ad un colossale panteismo: con l'Eden dove pone
ad abitare il suo Adamo e la sua Eva, aveva, forse senza saperlo, creato un
prodigioso poema indù; un poema che in uno stile prodigo di smaltati colori,
d'uno spicco da pittura indiana, celebra l'apoteosi della carne,
la materia
animata, vivente, nell'atto che rivela alla creatura umana, con la sua
frenesia generatrice, il frutto proibito dell'amore, le sue soffocazioni, le
sue naturali positure, le sue carezze istintive.
Nella letteratura francese, moderna e profana,
questi tre erano, con Baudelaire, i maestri che avevano influito di più
sulla mentalità di Des Esseintes, che avevano meglio contribuito a formarla.
Senonché, a forza di rileggerseli, di pascersi delle loro opere, aveva
finito per conoscerle da cima a fondo a memoria; ed aveva dovuto, per non
togliersi di trarne altro nutrimento, sforzarsi di scordarle, lasciarle per
un certo tempo dormire negli scaffali.
Cosicché adesso che il domestico gliene recava,
egli le apriva appena; e si limitava ad indicargli dove doveva collocarle,
avendo cura che venissero a trovarsi tutti insieme, a lor agio e nell'ordine
dovuto.
Un nuovo apporto di volumi lo imbarazzò di più.
Erano libri pei quali s'era preso d'interesse poco a poco; libri, che
grazie appunto ai loro difetti, lo riposavano della perfezione dei primi.
Pure in questi, così sottilmente li aveva letti, pure nel grigiore di quelle
pagine, Des Esseintes era giunto a scoprire, inattese, delle frasi che, pel
contrasto con la sordità del resto, l'avevano fatto trasalire come a una
scossa elettrica.
Anche l'imperfezione gli piaceva, purché non fosse parassitaria né
servile. E qualche cosa di vero c'era probabilmente nella sua teoria:
che lo
scrittore meno dotato della decadenza, lo scrittore imperfetto ma ancora
personale, distilla un balsamo più mordente, più acre, più suggestivo
dell'artista veramente grande, veramente perfetto che gli è contemporaneo.
A suo credere, era nei confusi abbozzi di
siffatti scrittori che si coglievano gli spasimi più acuti della
sensibilità, i capricci più morbosi della psicologia, i pervertimenti più
azzardati della lingua incaricata di confinare, di sequestrare in libri di
scarto le più estrose effervescenze delle sensazioni e delle idee.
Fra questi scrittori era
Paul Verlaine, il
quale, molto tempo prima, aveva esordito con un volume di versi: i Poèmes
Saturniens: un libretto tenue tenue, dove accanto ad imitazioni di Leconte
de Lisle, incontravi esercitazioni di retorica romantica; ma dove pure in
taluni componimenti come nel sonetto Rêve familier, s'annunciava
un'autentica personalità poetica. Nell'incertezza di quei primi abbozzi, Des
Esseintes ravvisava un talento già profondamente imbevuto di Baudelaire, la
cui influenza s'era in seguito meglio precisata, senza tuttavia che il
viatico concessogli dall'impeccabile maestro fosse evidente. I libri dello stesso ch'erano seguiti, la Bonne
Chanson, le Fêtes Galantes, Romances sans paroles, infine il suo ultimo
volume Sagesse racchiudevano poemi dove l'originalità dello scrittore si
affermava, staccandolo nettamente dalla folla dei colleghi. Avvalendosi come rima di forme che il verbo
assume nella sua flessione, talvolta persino di lunghi avverbi, traboccanti
da un monosillabo come dall'orlo d'una pietra una pesante massa d'acqua,
il
suo verso, spezzato da inverosimili cesure, diventava spesso singolarmente
astruso per l'audacia delle elissi e per strane scorrettezze non prive
tuttavia di grazia.
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