G. Gozzano - La Signorina Felicita ovvero la Felicita' 
L'autoironico distacco della memoria dalle buone cose di pessimo gusto. 
   


Guido Gozzano è forse la voce più profonda del Crepuscolarismo italiano, che fa della memoria del passato un campo di riflessione privilegiato e il terreno prediletto della sua creazione poetica. Egli pone le premesse per uno
stile di vita molto diverso dal dannunzianesimo, che fa capo al sostanziale vuoto di certezze che il trapasso al nuovo secolo porta con sé, suggerendo un atteggiamento esistenziale fatto di ripiegamenti piuttosto che di velleitari propositi superomistici.
La tendenza
a guardare indietro, negli anni appena trascorsi del tardo '800, a rievocare gli arredi e le modeste e ripetitive attività  di una residenza di provincia, piuttosto che le pretestuose atmosfere urbane, fanno di Gozzano un letterato eminentemente antidannunziano, che guarda ironicamente alle lusinghe della modernità.

Il suo interesse curioso per il passato ( unica dimensione di vita che si presti al gioco poetico nella schermaglia rievocativa e colloquiale ) si coniuga ad un naturale scetticismo verso la vita, di cui sente tutta la fisica precarietà: Gozzano morirà a soli 32 anni. E così, escludendo il rimando nostalgico ad ambienti, cose e persone di un tempo ormai irrevocabile, non resta che la sua celebrazione ironica ed autoironica. L' autoironia è appunto il tratto distintivo dell'arte di Gozzano, che dà valore particolare alla sua rilettura del mondo ottocentesco. In fondo rinvii consolanti al passato, all'antica semplicità di stili di vita rurali o familiari, non mancano né in Pascoli, né in D'Annunzio, ma sempre con finalità rigenerative dell'animo, impiegando toni idealizzanti o falsamente coinvolgenti. In Gozzano c'è invece il distacco dell'interprete moderno e critico delle "buone cose di pessimo gusto".

Nei suoi versi, intelligentemente organizzati in  piana e colloquiale narrazione, sfilano ordinatamente tutti gli emblemi della vita fuori dal tempo di Villa amarena, la dimora austera e signorile di Agliè Canavese, che accolse il giovane avvocato torinese Gozzano in brevi permanenze occasionali. Il testo fa riferimento alla Signorina Felicita, la giovane oggetto di una fragile avventura amorosa, senza seguito, inserita com'è naturalmente nell'atmosfera ovattata e sonnolenta di quell'ambiente di provincia isolato dalle voci del mondo. L'edificio, gli arredi, i personaggi che popolano gli interni, i riti quotidiani di intrattenimento ( la cena, la partita a carte, le discussioni sulle proprietà....) tutto coerentemente costruisce l'atmosfera virtuale di una realtà pensabile, ma non certo vivibile. L'argomentazione continua del poeta ( che finge di colloquiare con la signorina Felicita in un' ideale condivisione di antiche sensazioni ) sovrappone di continuo il presente al passato, scavando tra questi due mondi quella distanza incolmabile che separa la realtà dal sogno razionalmente rivissuto.
 

I)

Signorina Felicita, a quest'ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo
. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest'ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all'avvocato che non fa ritorno?
E l'avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d'un autunno addietro,
Vill'Amarena a sommo dell'ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l'orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa...

Vill'Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell'edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga dalle stanze morte!
Odore d'ombra! Odore di passato!
Odore d'abbandono desolato!

Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell'eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d'Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore...

Penso l'arredo - che malinconia! -
penso l'arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell'Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere... Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente... Avita
semplicità che l'anima consola,

semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II.

Quel tuo buon padre - in fama d'usuraio -
quasi bifolco, m'accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell'uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

«Senta, avvocato...» E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l'ascoltavo docile, distratto
da quell'odor d'inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto...
«...la Marchesa fuggì... Le spese cieche...»
da quel parato a ghirlandette, a greche...
«dell'ottocento e dieci, ma il catasto...»
da quel tic-tac dell'orologio guasto...
«...l'ipotecario è morto, e l'ipoteche...»

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: «Ma l'ipotecario
è morto, è morto!!...». - «E se l'ipotecario
è morto, allora...» Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
«Ecco il nostro malato immaginario!».
 

III.

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d'efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un azzurro di stoviglia...

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:

e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un'amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l'ignoto villeggiante forestiero.

Talora - già la mensa era imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d'altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita...

Per la partita, verso ventun'ore
giungeva tutto l'inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m'avevano in dispregio...

M'era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:

godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d'aglio di cedrina...

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell'acciottolio.

Sotto l'immensa cappa del camino
(in me rivive l'anima d'un cuoco
forse...) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d'un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino...

Vedevo questa vita che m'avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!

Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell'altra stanza.

 

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