G. Leopardi. La protesta di Saffo contro la natura che
l'ha esclusa dal mondo della bellezza.
 


La bellezza è colta da Leopardi sotto una duplice valenza. Innanzitutto
sensisticamente, come percezione di una condizione di vita segnata dai bisogni del corpo e dei sensi e legata al concetto stesso di piacere. Quindi l'idea di bello viene argomentata concettualmente ( filosoficamente ) come legge di natura, come vuota dimensione da cui l'uomo si sente escluso.
Costantemente - in questa seconda prospettiva -
l'idea di bellezza si pone in contrapposizione ai bisogni dell'uomo. Tanto più è seduttiva - ad esempio - la natura nei suoi aspetti esteriori ( che toccano il nostro animo con l'intenerimento profondo del cuore ) tanto più è doloroso il percepire l'esclusione dal nostro sostanziale coinvolgimento. L'amore, che innanzitutto è intuito come forza creatrice di tale bellezza, è precluso al poeta ed ai personaggi che diventano emblema del suo dramma. L'ultimo canto di Saffo ( 1824 ) segna - col suicidio della poetessa greca - il passaggio ad un pessimismo integrale ( cosmico ) giustificato dalla convinzione che il bello delle forme sia l'unica, prepotente spinta al conseguimento della felicità per l'uomo, e che, di conseguenza, l'esclusione da tale legge, comporti il permanere in una perenne dimensione di dolore
 


[...] perchè in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita,
e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più [...]". 

G. Leopardi, lettera a Pietro Giordani, 1818

"chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandola nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio di amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorchè l’anima"

G. Leopardi, Zibaldone
 

G. Leopardi - Ultimo canto di Saffo ( 1824 )
  commento sonoro


J. E. Millais, Ofelia, 1852

L’opera fa parte di un gruppo di canzoni pubblicate nel ’24; ha uno stile diverso dai precedenti idilli, in quanto
Leopardi non parla più in prima persona, ma
delega il compito di esprimere tutta l’infelicità umana a Saffo , antica poetessa greca che, secondo la leggenda, si sarebbe uccisa, gettandosi dal promontorio di Leùcade, per amore del giovane Faone. Il canto esprime i motivi di angoscia di un animo tormentato, come quello di Leopardi, che si sente escluso dalla bellezza della natura. Saffo è spinta al suicidio come unica soluzione alla sua pena amorosa e soprattutto per protesta contro la dura legge di natura che preclude il piacere e l’intensità delle sensazioni. L’infelicità coinvolge tutti gli uomini, derivando da terribili mali esterni e materiali, che richiamano anche ad un oscuro e misterioso senso di colpa dell’uomo nei confronti della natura creatrice.
 



Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno.
A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante,
alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo
. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta: e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge.

 

Saffo non prova piacere di fronte al delicato spettacolo della luce lunare o di fronte al sorgere della stella del mattino che annuncia il nuovo giorno. Le immagini soavi e suggestive di una natura amica non parlano al cuore della poetessa

Saffo si riconosce solo in una natura tempestosa, 
nei campi sconvolti dove si aggira turbinando la furia dei venti, quando il tuono incombe minacciosamente sulla Terra oppure tra greggi spaurite che si disperdono nei campi, mentre scorre la furia devastatrice dell’onda .

 

Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sí torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
in che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
de’ piú verd’anni!
Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtú non luce in disadorno ammanto.
...............

 

Saffo si chiede di quale colpa ancestrale, di quale eccesso si sia macchiata prima della nascita per essere depositaria di un destino tanto infelice. La sua vita istintiva di bambina, ignara di ogni male, come ha potuto disporre la Natura così insensibilmente nei suoi confronti, tanto da escluderla stabilmente dalla felicità, facendole prefigurare anzitempo l'idea della vecchiaia e della morte?

Un oscuro destino muove le sorti terrene: unica certezza è la legge del dolore. Le stirpi umane sono infatti trascurate dagli dei e non ha spiegazione il dramma di alcune creature. 
L'unica legge di natura che, contraddittoriamente, sembra assegnata agli uomini è quella della seduzione della bellezza, come apparenza e come valore intrinseco delle cose. Essa scavalca e si impone istintivamente sulle stesse doti morali e sulle virtù creative ed artistiche dell'uomo. Solo nella bellezza delle forme riesce a trovare il suo giusto completamento ogni altro valore esistenziale.


Dall'intervista a Ezio Raimondi in occasione dell'uscita del suo libro "Cara beltà" dedicato all'opera di G. Leopardi.
http://www.tracce.it/arch/LUGLIO96/leopar.html

"Leopardi denuncia di vivere in un'età di snaturamento, dove il rapporto tra soggetto e cose sembra mostrare all'uomo il suo essere un destino mancato, dove non c'è legame.
E, a differenza di altri come Schiller, Leopardi non vede un momento di ventura riconciliazione: essa sembra avvenire solo in quelle straordinarie resurrezioni negative di figure come Silvia, palpito di vita richiamato ad esistere, poi a morire e di nuovo a rivivere attraverso la nominazione poetica. Come fantasmi.
L'immaginazione negata torna a stabilire legami con il reale attraverso una parola povera, ma carica di affettività. Alla negatività, infatti, l'affettività non può arrendersi. Spesso mi chiedo, infatti: come mai c'è la bellezza nel sistema negativo leopardiano, che senso ha la presenza della bellezza?

 

Prima pagina - Presentazione percorso