Th. Mann -  “Da questa festa mondiale della morte, da questo malo delirio che incendia intorno a noi la notte piovosa, sorgerà un giorno l’amore?”-  La montagna incantata ( 1924 )
 


Nelle pagine conclusive dell’opera "La montagna incantata"  si riflette la profonda crisi di coscienza operatasi in Mann rispetto agli scritti politici degli anni 1915-18. La guerra, coi suoi orrori e le sue assurdità, ha completamente mutato le sue convinzioni. Ha abbandonato l’infatuazione nazionalistica e bellicistica e scoperto una diversa realtà, quella dei tremila soldati “di sangue giovane” votati alla morte in uno dei tanti sterili attacchi per ricuperare un’altura. Di fronte a tanta follia si può ancora sperare nei valori della vita? Si può ancora sperare nell’uomo? “Da questa festa mondiale della morte, da questo malo delirio che incendia intorno a noi la notte piovosa, sorgerà un giorno l’amore?”. Lo scrittore ha ancora un barlume di fede: il miracolo può forse ancora compiersi.
 



Il fonte della Somme

La montagna incantata

A distanza di oltre vent’anni da I Buddenbrook comparve nel 1924 un altro grande romanzo, forse il capolavoro di Mann, La montagna incantata (Der Zauberberg). Qui, come avverrà per i successivi romanzi, l’azione è “un pretesto per unire meditazioni e divagazioni, fantasie e spesso anche compiuti saggi critici sui più diversi problemi psicologici, storici, culturali e politici della nostra età” (Mittner).

Negli anni che precedono la grande guerra (1914-18) un giovane ingegnere amburghese, appena laureato, Hans Castorp, discendente da una vecchia famiglia patrizia, si reca nel sanatorio per tubercolotici di Davos, nel cantone dei Grigioni (Svizzera orientale), posto a 1500 metri di altitudine, per visitarvi un cugino lì ricoverato e riposarsi per qualche settimana dalle fatiche dello studio. L’ambiente sereno e accogliente, le persone che incontra, la seduzione di quella vita monotona eppur variatissima lo avvincono e lo inducono a rimanere. Le previste tre settimane diventano sette anni (ad un certo momento anch’egli si scopre attaccato dalla tisi) fino a che lo scoppio della guerra non lo ridesterà da quel sogno e lo ricondurrà nella “pianura”, nei campi di battaglia ad incontrarvi la morte. Lo vedremo nell’epilogo dell’opera scomparire in una mischia orrenda, canticchiando, per vincere la stanchezza e la paura, la canzone schubertiana del tiglio.

Nel sanatorio Castorp fa stimolanti conoscenze. Un intellettuale italiano, Settembrini, volteriano e illuminista democratico, fedele alle idee della Rivoluzione francese dell’’89 e al razionalismo liberale e individualista del XIX secolo, si scontra con Naphta, un ebreo galiziano finito nell’ordine dei Gesuiti, che si professa assolutista, antindividualista, paladino della dittatura e della Inquisizione. Tra gli ospiti di maggior rilievo v’è anche Peeperkorn, seguace della concezione irrazionale della vita tutta sensi e natura, mentre Madame Chauvat, di cui Castorp sarà preso, rivela una seducente e demoniaca femminilità. Si discute, si dibattono i più vari problemi, si confrontano le opposte idologie, senza peraltro approdare ad alcun risultato definitivo.

“Alla fine del libro non abbiamo abbracciato alcun valore univoco, ma i problemi morali e politici su cui è necessario decidersi sono formulati con la più estrema chiarezza” (Martini). “Il sanatorio di lusso di Davos”, scrive Mittner, “coi suoi malati viziosi e spesso immaginari, coi suoi ostinati e sterili ragionatori, è presentato come un’allegoria dell’Europa dell’alta borghesia e anche dell’Europa del decadentismo estetizzante, troppo ricca e molle per essere ancora vitale e già travagliata da tutte le febbri che l’avrebbero condotta alla sua inevitabile catastrofe”. Tutta l’Europa, negli anni che precedettero il secondo grande conflitto mondiale (gli anni della guerra civile di Spagna, 1936-39) si nutrì della problematica affascinante (e irresolubile) del romanzo.

 


Luce crepuscolare, pioggia e immondizie, bagliori d’incendio nel cielo grigio, continui rimbombi di tuono nell’aria umida, rotta da canti aspri, da ululati furibondi e infernali che terminano la loro traiettoria con scoppi, spruzzi, fragori e schianti. E gemiti e grida, e voci acute di trombe e rollar di tamburi, un rullare sempre più rapido, che trascina avanti avanti... Laggiù, c’è un bosco; escono da esso stormi incolori che corrono, cadono, saltano. Una catena di colline si snoda davanti all’incendio lontano i cui bagliori a volte si ammassano e diventano fiamme. Intorno a noi si stende un terreno ondulato tutto deserto e sconvolto. Lo attraversa uno stradale fangoso, coperto, come i sentieri del bosco, di rami spezzati; da esso si stacca un viottolo, tutto buche e sterpi, che serpeggia verso le colline. Tronchi d’albero brulli e senza rami si innalzano nel cielo piovoso... Ecco una pietra miliare, inutile interrogarla; le sue indicazioni ci direbbero poco anche se essa non fosse spaccata a mezzo. Ci troviamo a est o ad ovest? Ci troviamo in pianura, e c’è la guerra. E noi siamo ombre sulla strada, e ci teniamo pudicamente al riparo dell’ombra, per nulla propensi ad usare un linguaggio tronfio e retorico, ma tratti dallo spirito della narrazione a guardare nel semplice viso uno di quei militi grigi che a frotte escono correndo dal bosco, colui che fu per tanti anni nostro compagno di via, il bonario peccatore del quale tante volte udimmo la voce. Guardiamolo dunque, prima di perderlo definitivamente di vista.

Quei militi sono stati chiamati a raccolta per dare l’ultimo impulso alla lotta che dura da tutto il giorno, per riconquistare la posizione sulle colline e, dietro ad esse, i villaggi in fiamme che il nemico ha presi due giorni or sono. È un reggimento di volontari, sangue giovane, studenti per lo più, uomini che si trovano da poco al campo. Furono chiamati a raccolta durante la notte, viaggiarono in treno fino al mattino, e marciarono sotto la pioggia fino al pomeriggio, su strade cattive, anzi su nessuna strada. Marciarono per sette ore attraverso campi e paludi, coperti da mantelli imbevuti d’acqua, equipaggiati per l’assalto. Non fu una gita di piacere; quasi ad ogni passo bisognava curvarsi e trattenere per i lacci la scarpa che non voleva uscire dal suolo pantanoso. A questo modo ci volle un’ora per attraversare un piccolo tratto erboso. Ed ora sono qui, il loro sangue giovane ha sopportato tutto, i loro corpi eccitati e già esausti, ma mantenuti in tensione da profonde riserve vitali, non chiedono né riposo né nutrimento. I visi bagnati, lordi di fango, incorniciati dal sottogola, ardono sotto l’elmo posto di sghembo sulla testa. Ardono per lo sforzo fatto e nel ricordo delle perdite subite durante la traversata del bosco paludoso. Poiché il nemico, venuto a conoscenza del loro sopraggiungere, ha posto lungo la strada Schrapnells e granate di grosso calibro che sono scoppiati nel bosco tra le loro file, ed ululando mettono ora a fuoco e fiamme il vasto terreno collinoso.

I tremila ragazzi devono attraversare quel terreno, con le loro baionette devono decidere le sorti dell’assalto sferrato dietro la linea di colline verso i villaggi in fiamme. Indi, uniti ai compagni che già combattono, devono proseguire fino ad un certo punto segnato sulla carta che il loro Capo porta con sé. Sono tremila affinché possano essere ancora duemila quando raggiungeranno i villaggi dietro le colline; ecco la ragione del loro numero rilevante. Formano un corpo destinato a combattere e a vincere anche dopo gravi perdite, a salutare la vittoria ancora con migliaia di evviva, escludendo coloro che non giungeranno fino a quel momento perché caduti lungo la strada. E qualcuno è già rimasto indietro, qualcuno troppo giovane e troppo fragile per quella marcia forzata. S’è trascinato per qualche poco accanto alla colonna. Ogni tanto una fila lo oltrepassava, poi egli sparì, e giacque sul terreno infido.

Ma quelli che continuano ad avanzare sono ancora molti; tremila uomini possono sopportare delle perdite e costituire pur sempre un nucleo rilevante. Ed eccoli che già si riversano sul terreno battuto dalla pioggia, invadono lo stradale, infilano il viottolo, proseguono per i campi pantanosi. Noi, ombre sulla via, siamo in mezzo a loro. Gli squilli di tromba chiamano con insistenza, il tamburo rulla sempre più cupo, ed essi avanzano come possono, fra aspre grida, coi piedi resi pesanti dalle zolle del terreno che si attaccano alle grosse suole delle loro scarpe.

Quando sentono il sibilo di un proiettile si gettano a terra, poi tornano a balzare in piedi e via di nuovo con grida di baldanza giovanile perché il proiettile non li ha colpiti. Ma cadono anche, battendo le braccia, colpiti alla fronte, al cuore, al ventre. Giacciono col viso nel fango, e non si muovono più. Giacciono con la nuca sprofondata nella terra, col dorso sollevato dallo zaino, mentre le mani, con moti convulsi, pare vogliano afferrare l’aria. Ma dal bosco ne escono sempre di nuovi che si gettano avanti e saltano e gridano o, in silenzio, proseguono balzelloni fra i caduti.

Oh, quei giovani con lo zaino, con la baionetta, con i mantelli e le scarpe lordi di fango e di sudore! Guardandoli, ben altre immagini potrebbero presentarsi alla nostra mente. Si potrebbe pensarli nell’atto di aizzare i cavalli o di nuotare in un quieto seno di mare, oppure anche mentre passeggiano lungo la spiaggia con la sposa al fianco sussurrando dolci parole al suo orecchio o mentre con serena affabilità si istruiscono l’un l’altro nel tiro dell’arco. Invece sono immersi nel fuoco fino al collo. Che lo facciano con gioia quantunque fra i tormenti di una paura sconfinata e di un’indicibile nostalgia, è cosa nobile per se stessa, cosa che ci stupisce e confonde, ma che non dovrebbe essere motivo per metterli nella situazione in cui si trovano.

Ma ecco là un nostro amico, ecco Giovanni Castorp. L’abbiamo riconosciuto da lontano, l’abbiamo riconosciuto dalla barbetta che s’è lasciata crescere [...]. Come gli altri, egli arde pur sotto la pioggia, corre coi piedi resi pesanti dalle zolle, con l’arma in pugno. Ecco, egli calpesta la mano di un compagno caduto, calpesta quella mano con le sue scarpe chiodate, la sprofonda nel terreno fangoso coperto di rami spaccati. Eppure è lui. Ma come? Canta! Come si canta per via, senza saperlo, con gli occhi fissi nel vuoto, così egli adopera il suo fiato mozzo per modulare a mezza voce: 

“V’ho spesso un nome inciso
il nome del mio cor”.

 Cade. No, si è gettato a terra perché ha udito il sibilo di un grosso proiettile, di un orribile pan di zucchero dell’abisso. Giace col viso nel fango gelido, a gambe larghe, coi piedi voltati di sghembo, i tacchi a terra. Il prodotto dl una scienza barbara si pianta nel vuoto a trenta passi da lui, scoppia con violenza orribile lanciando nell’aria un getto di terra, fuoco, ferro, piombo e membra umane mutilate. Poiché laggiù, a trenta passi, giacevano due suoi amici; s’erano distesi l’uno accanto all’altro nel momento del pericolo. Ora sono dispersi, spariti.

Oh, vergogna al nostro sicuro asilo d’ombra! Via, via! Non vogliamo narrare una cosa tanto orribile! È colpito il nostro conoscente? Lo pensò lui stesso per un momento. Un grave ammasso di terra gli cadde sulla gamba e gli fece provare un dolore acuto. Ma questa è una cosa da nulla! Si alza, prosegue barcollando e zoppicando coi piedi resi pesanti dal fango che aderisce alle scarpe. Come in sogno canta:

“E il vento che si lagna
dirìa col suo sospir...”. 

Così nel tumulto, nella pioggia, nel crepuscolo, egli sparisce dalla nostra vista. [...]

Addio, Giovanni Castorp, onesto Beniamino della vita! La tua storia è giunta al termine. L’abbiamo narrata fino in fondo: essa non fu né lunga né breve, fu una storia ermetica. L’abbiamo narrata per se stessa, non per te, poiché tu eri una creatura semplice. Ma da ultimo essa fu la tua storia; siccome accadde a te, vuol dire che, in qualche modo, tu non sei il sempliciotto che sembravi. E non neghiamo la vena pedagogica che nel corso della tua storia si è sviluppata in noi, nei tuoi riguardi, vena che potrebbe spingerci a passare dolcemente la punta di un dito all’angolo dell’occhio pensando che in avveniré non ti vedremo né ti udremo più.
Addio! Che tu viva o che tu cada, addio! Le probabilità non ti sono favorevoli. La ridda in cui sei trascinato durerà ancora qualche annetto, e noi non scommettiamo che tu riesca ad uscirne incolume. Sinceramente parlando, lasciamo la questione insoluta quasi senza preoccuparcene. Avventure del corpo e dello spirito, avventure che affinarono la tua semplicità, ti fecero vivere nello spirito ciò che probabilmente non vivrai nella carne. Da questa festa mondiale della morte, da questo malo delirio che incendia intorno a noi la notte piovosa, sorgerà un giorno l’amore?
 

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