La città di Milano nel '600. Documentazione storica e ricostruzione narrativa ne I promessi sposi.

A. Manzoni, I promessi sposi
Cap. XI
, Renzo e le prime impressioni sulla città di Milano. 
 



 


Renzo
, salito per un di que' valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell'ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino.

Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro,
vide all'orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s'accorse d'esser ben vicino alla città, s'accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: - di grazia, quel signore. - Che volete, bravo giovine?
- Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de' cappuccini dove sta il padre Bonaventura?
L'uomo a cui Renzo s'indirizzava, era un
agiato abitante del contorno, che, andato quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto nulla, in gran fretta, ché non vedeva l'ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d'impazienza, rispose molto gentilmente: - figliuol caro, de' conventi ce n'è più d'uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate -. Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: - siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti arriverete a una cantonata d'una fabbrica lunga e bassa: è il lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piazzetta con de' begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v'assista, bravo giovine -. E, accompagnando l'ultime parole con un gesto grazioso della mano, se n'andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de' cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch'era un giorno fuor dell'ordinario, un giorno in cui le cappe s'inchinavano ai farsetti. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale......
 


La seconda parte del capitolo XI è interamente dedicata a Renzo , che sta per entrare in Milano.
L’ingresso in città lo proietta in un mondo nuovo e sconosciuto e produce nel giovane alcune riflessioni: infatti nulla corrisponde alle sue aspettative.
Egli è colpito nel vedere la mole del duomo che si rileva sul resto delle costruzioni; è stupito e meravigliato dalla stranezza inusuale del paesaggio. Poi rivolge lo sguardo indietro al Resegone, il monte che sta dietro la zona di Lecco, che ha abbandonato da poco. Ciò lo turba profondamente ( si sentì tutto rimescolare il sangue ).
Si anticipa anche qualcosa dell'
avventurosa permanenza di Renzo in città  attraverso alcuni indizi, che il narratore inserisce in queste fasi della vicenda. La strana cortesia dell'agiato abitante, che si rivolge a Renzo con inusuale affabilità, stupisce il nostro protagonista. Manzoni ricorda che in quel giorno in effetti era accaduto qualcosa di particolare in città ( l'assalto ai forni ), che aveva intimorito non poco la popolazione benestante e l'aveva indotta a comportamenti molto cauti nei confronti dei popolani.

Renzo entra in città e durante la sua permanenza a Milano, avrà la possibilità di vivere un’esperienza preziosa, che lo aiuterà a maturare, non abbandonandosi troppo fiduciosamente alla sincerità, privo di ogni cautela. Appena giunto nei pressi della città, vede della farina e dei pani sparsi sulla strada. Tutto ciò lo rende perplesso, in quanto stenta a individuare la causa dell'accaduto. Come contadino dà al cibo ed in particolare al pane un valore importante: è per lui incomprensibile trovarne traccia per strada. Il particolare aiuta Manzoni ad anticipare i fatti relativi all'assalto al forno delle grucce, di cui sarà testimone lo stesso Renzo e a proporre implicitamente il giudizio negativo sulla furia cieca e distruttiva dei moti popolari milanesi.

Il tema del contadino inurbato che vive un'esperienza inusuale e rischiosa, acquista un rilievo particolare soprattutto attraverso la particolare focalizzazione operata da Manzoni.
Renzo, vittima dei soprusi di Don Rodrigo, sradicato dal paese, costretto, suo malgrado, a viaggiare, diviene, fin dall'inizio della sua permanenza in città, cercatore di giustizia. La città è però minacciosa e le sue misteriose leggi < calcolo, spregiudicatezza degli uomini, astuzia, violenza gratuita....> sfuggono del tutto a Renzo. Egli non saprà trovare qui il terreno adatto per dar corpo alle sue rivendicazioni contro l'ingiustizia, anzi sarà paradossalmente lui stesso a doversi difendere dalla giustizia.

 


Cap. XIV, La folla si dirada dopo la liberazione del vicario di Provvisione

La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi s'allontanava, per respirare un po' al largo, dopo tante ore di stretta; chi, in cerca d'amici, per ciarlare de' gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero s'andava facendo dall'altro sbocco della strada, nella quale la gente restò abbastanza rada perché quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario.

 Accosto a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto;
un branco di birboni, che malcontenti d'una fine così fredda e così imperfetta d'un così grand'apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta, ch'era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All'arrivar del drappello, tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se n'andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a' soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c'eran due o tre persone ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava; là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per l'azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva: - non abbiate paura, che non l'ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo -; chi più stizzosamente mormorava che non s'eran fatte le cose a dovere, ch'era un inganno, e ch'era stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.

 


E' questa una delle tante scene di massa, in cui il popolino milanese viene descritto in occasione dei disordini scoppiati attorno ai forni, dopo il rincaro del prezzo del pane. La folla viene vista come un elemento eterogeneo, privo di una precisa strategia d'azione (
La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada ) nel momento in cui si dirada in piccoli gruppi disordinati, che ora si separano ora si riaggregano al comparire di qualche nuova notizia. In particolare si è appena concluso l'assalto alla abitazione del vicario di provvisione, difeso dalla milizie spagnole e salvato dalla furia popolare anche con il contributo di Renzo. La scarsa simpatia per i moti popolari da parte di Manzoni viene riconfermata dalla descrizione dei comportamenti provocatori di qualche estremo sobillatore, che cerca invano di protrarre ancora per un po' i disordini, rammaricandosi che il tutto si stia pacificamente concludendo.
 

Cap XXXII , La furia della peste si impadronisce della città.

 

 



 


Da quel giorno,
la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un'altra lettera de' conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, " per le diligenze fatte o, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de' morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da' registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.

Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c'era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl'infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta.
 


Nel capitolo XXXI l'autore ci informa di come la
peste probabilmente è entrata nel Milanese e si è propagata. Egli riferisce i fatti con il maggior scrupolo storico possibile , sfruttando sia i resoconti degli storici del '600 ( Ripamonti ) e soprattutto gli atti pubblici del Tribunale della Sanità
e le relazioni ufficiali, che possono fare chiarezza su
come fosse accolta l'idea del contagio .

Nonostante i richiami del protofisico Settala, che aveva già assistito alla precedente peste del 1576, dove aveva perso la vita Carlo Borromeo, nessuna precauzione viene presa, neppure quella di proibire l'acquisto e lo scambio di oggetti tra la popolazione locale ed i lanzichenecchi , portatori del male.

Il contagio intanto si diffonde e le relazioni del Tribunale sono inascoltate. Anzi una pubblica festa per la nascita del principe Carlo, figlio del re di Spagna, Filippo IV , facilita il diffondersi del contagio, visto l'affollamento crescente di popolazione in Milano. Lo stesso esito avrà purtroppo una processione voluta dalla popolazione per scongiurare la diffusione ulteriore del male. Federico Borromeo si lascia convincere a far apparire in pubblico i sacri resti  del corpo di San Carlo; la comune devozione ( di carattere superstizioso,  lascia capire Manzoni ) raggiunge gli effetti opposti: un aumento della mortalità legata alla promiscuità dei corpi ed alla facilità dei contatti.

Anche se inizialmente la reazione delle autorità è quella di non dar credito al male , il progredire delle morti, convince della sua esistenza. Ma ben presto un'altra falsa congettura si sostituisce ad una valutazione più oggettiva e realistica della situazione. Sono gli untori, gente malvagia ed infida, quasi presenze diaboliche, assoldate forse da nemici della Spagna a diffondere volutamente il contagio con polveri venefiche, unguenti sparsi sulle superfici delle chiese o delle case o attraverso ogni altra forma di contatto furtivamente provocato.

Manzoni mette in relazione il sospetto degli untori a due caratteri della cultura del tempo: l'ignoranza e la superstizione popolare e l'enorme impreparazione medica e sanitaria.
La mentalità superstiziosa del popolo, assecondata purtroppo dalle autorità, trova più facile attribuire a generiche forze del male le cause del contagio, che non sa come fronteggiare.
Del resto
l'enorme ignoranza medica  finirà col tramutarsi in follia collettiva nel processo agli untori.
 


Le notizie offerte da Manzoni circa gli sviluppi della peste a Milano sono  rigidamente storiche - come vengono annotate da scrittori e cronisti del tempo - ed evidenziano soprattutto i pareri inascoltati degli esperti. Milano è stata preda del contagio per la seconda volta in meno di cento anni e le conseguenze a livello di decremento demografico e di mancata efficienza nei servizi sanitari ( lazzaretto, monatti, apparitori...) sono ampiamente documentate. La situazione della città, attanagliata dalla peste, è poi pesantemente condizionata dell'inefficienza del governo spagnolo e  dalla vittoria di teorie irrazionali ed assolutamente non scientifiche ( come quelle degli untori ), che impediscono di approntare adatti rimedi ad un'epidemia, in parte almeno prevedibile e maggiormente controllabile.
 

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