Le paure di Don Abbondio nell'incontro con i bravi.
La sua è viltà, scarso coraggio, tendenza a cedere ai
più forti.

- Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in
faccia.
- Cosa comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro,
che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
- Lei ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo
di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia, - lei ha
intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
- Cioè... - rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor
signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende.
Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e
poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi
siamo i servitori del comune.
- Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di
comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.
- Ma, signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e
gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino
di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a
me non me ne vien nulla in tasca...
- Orsù, - interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle,
lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più.
Uomo avvertito... lei c'intende.
- Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...
- Ma, - interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato
fin allora, - ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona
bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e...
- un'altra bestemmia.
- Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato è un uomo
che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli
del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don
Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un
temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli
oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e
disse: - se mi sapessero suggerire...
- Oh! suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo, con
un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si
lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene;
altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via,
che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?
- Il mio rispetto...
- Si spieghi meglio!
-... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste
parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I
bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.
- Benissimo, e buona notte, messere, - disse l'un d'essi, in atto di
partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un
occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le
trattative. - Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma
quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e
s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il
povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi
prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi
a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di
dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo
naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di vivere.
|
Il carattere timoroso e remissivo di don Abbondio.
Un’inettitudine legata anche ai rapporti di potere del suo tempo.
Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era
dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere,
in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in
compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado,
ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran
fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si
dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una
classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti
per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non
lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo
sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri
della propria quiete, non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali
facesse bisogno d'adoperarsi molto, o d'arrischiarsi un poco.
Il suo sistema
consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in
quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che
scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il
clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili,
fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi
pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender
parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla
retroguardia, e procurando di far vedere all'altro ch'egli non gli era
volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo
esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla
larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e
capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da
un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e di
rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso,
quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a passare i
sessant'anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo;
e quel
continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato
a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di
sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto.
Ma siccome v'eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone
ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle
sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui
la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto. Era poi un
rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la
censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il
battuto era almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo
torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente,
rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto;
cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un
taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro.
Sopra tutto poi, declamava contro que' suoi confratelli che, a loro rischio,
prendevan le parti d'un debole oppresso, contro un soverchiatore potente.
Questo chiamava un comprarsi gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le
gambe ai cani; diceva anche severamente, ch'era un mischiarsi nelle cose
profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi
predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio, con
tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal
risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua
sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste
materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi panni, non
accadon mai brutti incontri.
|
Le comiche incertezze di Don Abbondio
nel colloquio con Perpetua
Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch'era
in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva
in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una
compagnia fidata, chiamò subito: - Perpetua! Perpetua! -, avviandosi pure
verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la
tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n'avvede, la serva di don
Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare,
secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del
padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in
giorno più frequenti, da che aveva passata l'età sinodale dei quaranta,
rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano
offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse,
come dicevan le sue amiche.
- Vengo, - rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto
del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva
ancor toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con un passo così
legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non
ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a
prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
- Misericordia! cos'ha, signor padrone?
- Niente, niente, - rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante
sul suo seggiolone.
- Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com'è?
Qualche gran caso è avvenuto.
- Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che
non posso dire.
- Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute?
Chi le darà un parere?...
- Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio
vino.
- E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! - disse Perpetua, empiendo
il bicchiere, e tenendolo poi in
mano, come se non volesse darlo che in
premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
- Date qui, date qui, - disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con
la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una
medicina.
- Vuol dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto
al mio padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani
arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso,
quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
- Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va...
ne va la vita!
- La vita!
- La vita.
- Lei sa bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa sinceramente,
in confidenza, io non ho mai...
- Brava! come quando...
Perpetua s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito
il tono, - signor padrone, - disse, con voce commossa e da commovere, - io
le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura,
perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle
l'animo...
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del
suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo
aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei,
dopo averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente,
con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso.
Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua
proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato
quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro,
alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: - per
amor del cielo!
- Delle sue! - esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che soverchiatore!
oh che uomo senza timor di Dio!
- Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
- Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor
padrone?
- Oh vedete, - disse don Abbondio, con voce stizzosa: - vedete che bei
pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi
fosse lei nell'impiccio, e toccasse a me di levarnela.
- Ma! io l'avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...
- Ma poi, sentiamo.
- Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro
arcivescovo è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di
nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per
sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una
bella lettera, per informarlo come qualmente...
- Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover'uomo?
Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi!
l'arcivescovo me la leverebbe?
- Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi
cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto
che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e,
appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che
tutti vengono, con licenza, a...
- Volete tacere?
- Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che
uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le...
- Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?
- Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da
sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.
- Ci penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci
penserò, io ci ho da pensare - E s'alzò, continuando: - non voglio prender
niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me.
Ma! la doveva accader per l'appunto a me.
- Mandi almen giù quest'altro gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. - Lei
sa che questo le rimette sempre lo stomaco.
- Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il
lume, e, brontolando sempre: - una piccola bagattella! a un galantuomo par
mio! e domani com'andrà? - e altre simili lamentazioni, s'avviò per salire
in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il
dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne : - per amor del cielo! -,
e disparve.
|
Il personaggio di Don Abbondio è quasi l'incarnazione dell'inettitudine
intesa come incapacità di far fronte alle
situazioni della vita, di relazionarsi con gli altri nei casi difficili, in
cui occorra mostrare un po' di decisione. Manzoni ci dice che
l'inettitudine di don Abbondio è solo in parte frutto della sua indole.
E' vero che il religioso ha vissuto un'intera vita evitando impicci per non doversi trovare davanti a
scelte rischiose. Ma è stata questa quasi una sua scelta obbligata in un
secolo in cui - come dice Manzoni - "la forza
legale non proteggeva in alcun modo l'uomo tranquillo, inoffensivo e che non
avesse altri mezzi di far paura altrui..."
Leggendo tutto il passo notiamo che il personaggio appare legato
idealmente ad una folta categoria di altri soggetti, che in qualche misura,
sono costretti a condividere la sua sorte.....
"Don
Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.
Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior
condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza
zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La
forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e
che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non
già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi
anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta
prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili,
quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento
esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni
cosa che potesse essergli d'impedimento a proferire una condanna: gli
squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo,
ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a
cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in
governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l'impotenza
de' loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era
principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i
deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le violenze e
l'astuzia di questi."
Egli cercava di non far torti a nessuno e quando doveva scegliere da che
parte stare, stava sempre dalla parte del più potente. La sua sottomissione
alle ingiunzioni dei bravi è quasi spontanea: in nessun modo vuole opporsi
alla volontà del mandante Don Rodrigo, che conosce potentissimo in quella
zona.
L'unica strategia che Don Abbondio conosce è la fuga. Se di fronte
alle minacce dei bravi si mostra in fondo ragionevole e condiscendente,
evita abilmente le proteste
di Renzo per il mancato matrimonio con alcuni ingenui pretesti e poi
fingendosi malato. Non sa del resto ascoltare i
pratici consigli di Perpetua e subisce anche psicologicamente tutti gli
effetti della scomoda situazione in cui è coinvolto suo malgrado.
Gli incubi notturni saranno la conseguenza dell'accaduto, non padroneggiando
con alcuna strategia d'azione, lo sviluppo degli avvenimenti.
Nell'ottica manzoniana dunque l'inettitudine di Don
Abbondio va letta non solo in chiave psicologica, ma anche in chiave
storica. Le vicende del romanzo mostrano in lui le difficoltà
oggettive delle classi più basse della popolazione e, quel che è peggio,
suggeriscono al lettore che la scelta religiosa era
spesso dettata dalla volontà di acquisire immunità se non privilegi,
in un tempo in cui ben poche erano le difese dei soggetti che non fossero
legati alle strutture di potere. Una viltà in parte
spontanea, dettata dalla sua indole, ma anche necessariamente utilizzata per
proteggersi dai soprusi del tempo.
|