In Pascoli il ricordo ha sempre connotazioni inconsce e si lega all'idea della morte delle persone care


Tra le caratterizzazioni che un ricordo può avere, esiste senza dubbio anche la possibilità che esso
si fissi stabilmente, inconsciamente ed in modo ossessivo nella mente e nell'animo di un soggetto, mentre attorno ad esso si struttura un vasto sistema di riferimenti simbolici, che hanno il compito di richiamarlo costantemente, di evocarne le relazioni concettuali, di rinforzarlo emotivamente. Se la memoria - come sempre  accade in questi casi - è dolorosa e traumatizzante, può accadere che tutta la personalità del soggetto ne sia stabilmente condizionata. A livello artistico allo stesso tempo si struttura un sistema coerente di significanti, atti a restituire tutta l'evidenza e la pregnanza del ricordo, via via che esso viene richiamato attraverso nuove esperienze e repertori di sensazioni. Tutto ciò accade per la poesia di Giovanni Pascoli, fortemente segnata dalla precoce morte del padre e da altre disavventure familiari, che gli impedirono di vivere positivamente gli affetti a lui più cari.
 

Due poesie sulla rievocazione della morte del padre: X Agosto e Un ricordo


X Agosto è forse la poesia più famosa in cui Pascoli
rievoca il più traumatico dei suoi drammi giovanili, l’uccisione del padre, avvenuta il 10 agosto del 1867, il giorno di san Lorenzo.

Il poeta simbolicamente vede nella pioggia di stelle che ricade sulla Terra in quella notte, il pianto del cielo sulla cieca ed oscura malvagità degli uomini e colloca il suo dolore personale e privato in una dimensione universale. Nell’incipit egli dice esplicitamente ‘..... io lo so perché / tanto di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade .... ad anticipare il riferimento metaforico fondamentale del breve testo. Tuttavia, invece che approfondire concettualmente il senso di questa lirica intuizione, egli soggiace al peso del dramma personale, rivissuto fino in fondo e rappresentato in forma incisiva   attraverso un nuovo simbolico parallelismo.

Una rondine tornava al suo nido portando cibo ai suoi piccoli; anch'essa come l'uomo, proditoriamente ucciso, non farà ritorno. L’analogia si esprime soprattutto nella corrispondenza tra il nido della rondine e il nucleo familiare del poeta, entrambi deprivati dell'elemento cardine della piccola comunità.

Un altro testo pascoliano ritorna sull'argomento della morte paterna: si tratta della poesia intitolata emblematicamente Un ricordo contenuta nella raccolta Canti di Castelvecchio. Questa composizione, ancor più di X Agosto, sosta sui particolari, narrativamente riproposti con assoluta minuzia, della partenza del padre, degli oscuri timori della figlia Margherita, dello struggente pianto  della piccola Maria, che non vorrebbe staccarsi da lui. Anche in questi versi si nascondono alcune tracce ambiguamente simboliche, che evidenziano una strana percezione di inquietudine nella natura, testimone di vitalità piena che percepiamo dissonante a fronte del dramma familiare che si sta preparando. Innanzitutto la muta presenza degli animali che fanno da contrappunto alla vicenda umana:  le rondini che andavano e tornavano / ai nidi, piene di felicità, le tortori che tubarono... in cova... nella paglia, la cavalla storna che ..volgea la testa smunta alla bimba. Quindi la piccola Maria, bimba implorante nel tragico giorno dell'uccisione, ora unica testimone dell'unità familiare distrutta e unica fedele compagna del poeta.

I parallelismi tra le due poesie - accanto ai richiami evidenti ed ossessivi al tema della morte, che si rintracciano, sotto forma di simbolismi di vario genere, in un po' tutta la produzione dell'autore - testimoniano di una connotazione  permanente della poesia pascoliana. Essa si nutre costantemente di memoria e questa tende a a fissarsi ossessivamente, a farsi, da traumatico vincolo esistenziale, motivo di creatività poetica continuamente variato.
 

X Agosto- da Myricae

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla. 

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero
: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
 l’uccisero: disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido
 portava due bambole in dono...

Ora là, nella casa romita,
 lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano 

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

 

Un ricordo - dai Canti di Castelvecchio

Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi. Era d'agosto.
Avanti la rimessa era già pronto
il calessino.
La cavalla storna
calava giù, seccata dalle mosche,
l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi
dell'unghie su le selci della corte.
Era un dolce mattino, era un bel giorno:
di San Lorenzo. Il babbo disse: «Io vo».

E in un gruppo tubarono le tortori.
Esse là nella paglia erano in cova.
Tra quel hu hu, mia madre disse: «Torna
prestino». «Sai che volerò!» «Non correr
tanto: la tua stornella è appena doma».
«Eh! mi vuol bene!» «Addio». «Addio». «Vai solo?
non prendi Jên?»
«Aspetto quel signore
da Roma...» «E` vero. Ti verremo incontro
a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.
Tu ci vedrai passando». «Io vi vedrò».
E Margherita, la sorella grande,
di sedici anni, disse adagio: «Babbo...»
«Che hai?» «Ho, che leggemmo nel giornale
che c'è gente che uccide per le strade...»
Chinò mio padre tentennando il capo
con un sorriso verso lei. Mia madre
la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
come dicendo: A cosa puoi pensare!

E le rondini andavano e tornavano,
ai nidi, piene di felicità.
Mio padre palpeggiò la sua cavalla
che l'ammusò con cenno familiare.
Riguardò le tirelle e il sottopancia,
e raccolte le briglie, calmo e grave,
si volse ancora a dire: «Addio!» Mia madre
s'appressò con le due bimbe per mano:
la più piccina a lui toccò la mazza.

Egli teneva il piede sul montante.
E in un gruppo le tortori tubarono,
e si sentì: «Papà! Papà! Papà!»
E un poco presa egli sentì, ma poco
poco, la canna come in un vignuolo,
come v'avesse cominciato il nodo
un vilucchino od una passiflora.
Sì: era presa in una mano molle,
manina ancora nuova, così nuova
che tutto ancora non chiudeva a modo.

Era la bimba che vi avea ravvolte,
come poteva, le sue dita rosa,
e che gemeva: «No! no! no! no! no!»
Mio padre prese la sua bimba in collo,
col suo gran pianto ch'era di già roco;
e la baciò, la ribaciò negli occhi
zuppi di già per non so che martoro.

«Non vuoi che vada?» «No!» «Perché non vuoi?»
«No! no!» «Ti porto tante belle cose!»
«No! no!» La pose in terra: essa di nuovo
stese alla canna le sue dita rosa,
gli mise l'altro braccio ad un ginocchio:
«No! no! papà! no! no! papà! no! no!»
Non s'udì che quel pianto e quei singulti
nel tranquillo mattino tutto luce.

Più non raspava i ciottoli con l'unghia
la cavalla, e volgea la testa smunta
alla bimba. E le tortori, hu, hu!
Povera bimba! non avea compiuti
due anni, e ancor dormiva nella culla.
Sapea di latte il suo gran pianto lungo:

assomigliava ad un vagir notturno.
Mio padre disse: «Non partirò più».
Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
Lontanò essa con un ringhio acuto.
E mio padre baciò la creatura,
e le disse: «Non vado: entro; mi muto,
e sto con te. Perché tu sia sicura,
prendi la canna». Rabbrividì tutta
essa, come un uccello quando arruffa
le piume; le spianò; poi con le due
braccia abbracciò la canna di bambù.
Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
non tornò più.
Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto,
lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch'era sano,
e che avrebbe vissuto anche molti anni.
Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
ma piena del suo sangue era una mano.
Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
ciò che di lui rimase, ove sarà?

Sorella, a volte penso che tu l'abbia,
che tu lo tenga ancora fra le braccia.
Così mi pare a volte, che ti guardo
e tu non vedi, ché tu stai pregando.
Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
e tieni ancora gli occhi fissi in alto.

Stai come quando ti lasciò tuo padre;
sicura, come allora. Ma una lagrima
ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
balbetta ancora, sì: «Papà! Papà!»
 

Nebbia


La nebbia diviene il limite fisico alla visibilità immediata, che rende percepibile solo l'ambito ristretto della casa-nido, circondata dalle presenze amiche della natura ( i due peschi, i due meli, i soavi lor mieli...).
Ma la nebbia è anche referente simbolico del tempo, che deve cancellare i ricordi traumatici del passato e che continua a parlare di morte: Quell' idea  stessa di morte e di passato irrevocabile, che ossessiona il poeta e che ambiguamente pure lo attrae, facendosi quasi presenza amica, richiamata esplicitamente - nella penultima strofa - dal bianco di strada percorso tra uno stanco don don di campane ( i rintocchi funebri appunto ). E' intuita in queste espressioni, come rasserenante, la ricongiunzione ai propri cari nell'aldilà.
 

Nebbia

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,

tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli,
d'aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!

Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valerïane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!

Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
Che vogliono ch'ami e che vada!

Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore!
Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

 

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