Città e campagna nei romanzi di C. Pavese, si intrecciano al tema del mancato impegno politico e dell' impossibile rifugio.
Il compagno - La casa in collina


“All'origine della poetica pavesiana c'è la scoperta dell'infanzia come l'età in cui l'uomo compie le sue esperienze fondamentali. E' nell'infanzia che si ha il primo contatto con il mondo e che si creano i simboli, i miti, corrispondenti alle singole rivelazioni delle cose […]. Le successive esperienze non sono che un conoscere una seconda volta, un riscoprire e ridurre a chiarezza quei miti. […] Alla contrapposizione fra infanzia e maturità si affianca, come equivalente, quella tra campagna e città sul piano storico, quella fra l'età primitiva dell'uomo, titanica e selvaggia, e l'età civile e culta. Siamo arrivati [...] al vagheggiamento di un mondo mitico e irrazionale, punto di partenza di tutto il Decadentismo europeo [ ... ] ” (Salinari).
 



 


«Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere.(…) Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti (…). Devo dire - cominciando questa storia di una lunga illusione - che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. (…). La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava ».

da La casa in collina

"Erano le due passate. La collina oltre Po, scintillava. Faceva fresco, quasi freddo. Ci alzammo e risalimmo verso il centro. (..) Mi chiesi un'ennesima volta che vita poteva aver fatto Pieretto prima di venire a Torino.
Sulle panche dell'aiuola della Stazione, sotto l'ombra scarsa di quegli alberelli, dormivano a bocca aperta due pezzenti. Scamiciati, capelli e barba ricciuti, sembravano zingari. Ci sono i cessi a pochi passi, e per quanto la notte sapesse di fresco e d'estate, regnava in quel luogo un tanfo, un fetore, che sentiva della lunga giornata di sole e movimento e frastuono, di sudore e di asfalto consunto, di folla senza pace..."


da  Il diavolo sulle colline


La biografia di Cesare Pavese

tratta da http://www.italialibri.net/autori/pavesec.html

Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia per un mondo di purezza  primigenia ormai perdito. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto sull’indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso. Molti si sono occupati dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della natura e sempre pronto ad isolarsi dagli altri.

Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo tende ad evidenziare due elementi fondamentali: la morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua freddezza ed il suo riserbo, attuerà un sistema educativo più da padre asciutto ed aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al «vizio assurdo» , la vocazione suicida. Ritroviamo infatti sempre un accenno alla mania suicida in tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.

Questo mondo adolescente di Cesare, così difficile, così traboccante di solitudine e di isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica della adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del padre e mondo femminile in cui viene allevato, desiderio inconscio di autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile forse, ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de Il Mestiere di vivere.

Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare a questi primi anni, non si può negare che si profila subito in essi la storia di un destino tragico e amaro, evidenziato da un disperato bisogno d’amore, da una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni interpersonali, destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere solo.

Dibattuto tra gli estremi di una orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come schermo metaforico della sua condizione esistenziale» (Venturi), in essa cercando la risoluzione dei suoi conflitti interiori.

Studia nell’Istituto «Sociale» dei Gesuiti e nel «Ginnasio moderno» quindi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo «D’Azeglio» è di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante ad impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al movimento di Strapaese ( legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.

Cesare trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonisti dei suoi romanzi. Ha la sensazione di essere giovane, rinato e, negli ultimi anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro della sua anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio con gli altri. Quella donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso, quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma una nube dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico». Quelle colline e quel cielo tornano ancora umanissimi come il «dolce incavo della sua bocca».

Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Gli anni del liceo e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello dell’amicizia: tutto contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della politica, i caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in collina, le vogate sul Po che rinvigoriscono il suo corpo, precocemente squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una grande fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti, i tram sferragliano e dovunque si ascolta musica.

Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il rimorso di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte.

Intanto sempre nel 1931 viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis . Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio ad un periodo nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di quanto sia grande la sua ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema delle retoriche nazionalistiche ed aprire a sé e agli altri nuovi orizzonti culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano fatto ammalare la società italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse, condannava ed impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.

Contro la monotonia della prosa d’arte e diversamente dall’ermetismo, Pavese dimostrava come il contatto con le grandi masse americane attraverso quei romanzi vivificasse anche il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del suo destino è Peter Mathiessen (lo scrittore della Natura: Il leopardo delle nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano .), per la comune ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la vita, nonché per l’estremo gesto suicida.

Nel 1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio: questi sono gli anni dei suoi momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo, Il carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.

Si richiude in un isolamento forse peggiore di quello adolescenziale ma ancora una volta a salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla penna».

Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi: sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma.

Destinato a Roma per aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire ad essere attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che ritorneranno nel Corrado de La casa in collina e che in un certo senso riportano alla inettitudine sveviana e quindi al decadentismo).

Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi religiosa, altro non era se non un ennesimo equivoco, una nuova maniera di prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua probabilmente era una sorta di tentativo di riparazione, di voglia di mettere a posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò.

Recatosi a Roma per lavoro ( dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi….

A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari ( nel 1938 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido si toglie la vita in una camera dell' albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un'annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono...».

Aveva solo 42 anni.
 

Il compagno

E' la storia di un giovane torinese, Pablo, che passa il suo tempo tra un'osteria e l'altra, suonando la chitarra. Da qui nascono gli incontri che egli fa con donne e uomini; ma la vicenda prende ben presto la sua strada, che si snoda attorno al rapporto con Linda, la ragazza di Amelio, un suo amico, che durante un viaggio in motocicletta ha un incidente e resta paralizzato (come nel racconto Fedeltà, scritto nel '38). La figura di Amelio compare in primo piano all'inizio, poi sembra lasciata ad un destino ormai privo di senso. Ma ecco che Amelio diventa il punto di riferimento di tutta la storia: egli svolgeva un'attività politica ben precisa, a cui Pablo non pensava e dalla quale poi Linda, che gli si è fatta amica, vorrebbe tenerlo distante. L'ambiente è quello popolare e proletario delle borgate torinesi, su cui s'innesta una certa curiosità che Pavese aveva per l'avanspettacolo. Ad un certo punto, infatti, s'inserisce nella vicenda un amico di Linda, Lubrani, impresario teatrale, che fa conoscere a Pablo qualche attore e gli fa scoprire la vita notturna del dopo teatro. Pablo continua a tirare avanti la propria vita senza uno scopo preciso, pur tendando di uscirne: fa il camionista, cerca in qualche modo di trovare quel senso, soprattuto per poter vivere con Linda. Nella seconda parte, Pavese sposta la vicenda a Roma, dove Pablo si trasferisce dopo la rottura con Linda. Si fa nuovi amici, ha una nuova donna che ha ereditato dal marito, morto, un negozio da ciclista. Ma soprattutto Pablo si accosta alla politica. Il romanzo cambia subito tono: da quella che era la descrizione dell'ambiente torinese, ora diventa la cospirazione politica nella periferia romana. Però per Pavese l'ambiente torinese era più importante dell'ambiente della capitale dove ha inserito la tematica principale del libro - e lo si riscontra anche durante la lettura del testo - in modo che la prima parte risulta narrativamente più importante della seconda parte romana. Evidentemente a Pavese manca, in quest'ultima parte, quella possibilità di resa espressiva che gli offriva Torino. Al capoluogo piemontese era chiaramente più legato e, per esso, sentiva un interesse ben preciso, mentre per Roma, l'esposizione dei fatti risulta solo molto descrittiva.

La casa in collina

Corrado, un insegnante quarantenne di origini contadine, trova rifugio in una villa sulle colline torinesi ai pericoli della guerra che avvampa nelle città. Lo accudiscono due attempate signore di estrazione borghese: Elvira, una materna zitella di mezza età segretamente innamorata del professore, ma che lui tratta con indifferenza, quasi con fastidio, e la vecchia madre di lei.
In una delle sue quotidiane passeggiate in collina, accompagnato dall'inseparabile cane Belbo, Corrado fa meta all'osteria le Fontane, dove incontra un vecchio amore di gioventù, Cate, che qui vive con la nonna e il figlioletto Dino. L'osteria, gestita dall'anziano Gregorio, è frequentata da Fonso, un operaio giovane e focoso e dai suoi amici. Corrado è come conquistato dal clima vitale che si respira alle Fontane, riprende il dialogo con Cate, molto maturata nel frattempo dalle esperienze di vita e per nulla intimidita dalla istruzione del professore. Inoltre, Corrado si affeziona a Dino, nel quale trova somiglianze con se stesso bambino e del quale spesso sospetta e vagheggia di essere il padre.
Quando la guerra finisce, ha inizio un periodo ancora più doloroso. Fonso e l'amico Nando si danno alla lotta partigiana e, catturati, vengono deportati insieme a Cate. Del loro destino non si saprà più nulla.
Corrado, invece, troverà prima rifugio in un convento a Chieri, poi compirà un periglioso ritorno a casa fra gli orrori e le devastazioni della guerra civile. Un viaggio che sarà per lui motivo di dolorosa riflessione e maturazione interiore. Dino, al contrario, indomito e coraggioso, fuggirà dal convento per andare alla ricerca di Fonso e della madre. Altro significativo personaggio della vicenda è l'ingegner Giorgi che dapprima Corrado conosce come giovane e convinto combattente fascista e poi, dopo un'evoluzione di coscienza che non abdica però alle necessità dell'azione, come comandante partigiano.

 

Il diavolo sulle colline

il romanzo che segue e viene inserito nel libro La bella estate. Narra di tre giovani studenti torinesi: Oreste, Pieretto e il narratore, che passano il loro tempo, soprattutto quello notturno, a vagare per la città sulla collina - ancora tema evidente il motivo della collina, che per Pavese è un modo di vivere. Questi giovani conversano molto, parlano di temi comuni ai giovani e che fanno parte della loro vita. Una sera incontrano sulla collina una macchina, con un uomo all'interno che sembra svenuto o addirittura morto. Quest'uomo, Poli - che diventerà il vero protagonista del racconto - è in preda ad una crisi provocata da un eccesso di sostanze stupefacenti. Poli diventerà molto importante in quanto farà sorgere ai giovani, con la sua vita, il dubbio che possa esistere una vita diversa da quella che essi conducono. Con l'arrivo dell'estate i tre giovani vanno in casa di Oreste nelle Langhe. Accanto alla casa di Oreste c'è quella di Poli e, inevitabilmente, finiscono col ritrovarsi. A Torino i ragazzi incontrarono l'amante di Poli, che poi si uccide, mentre qui incontrano la moglie. Le giornate passate in compagnia di Poli sono giornate in cui le conversazioni toccano i temi scottanti della vita e della morte, ma soprattutto è il problema della droga il problema chiave. Poli lascia capire come grazie alla droga l'uomo possa acquistare una lucidità ed una capacità di giudizio che altrimenti non avrebbe. Oreste, che si era innamorato della moglie di Poli, Gabriella, deve lasciarla perché, nonostante tutto, ella è ancora innamorata del marito. Poli, in seguito, avrà una crisi ancora più acuta e il romanzo si chiuderà col ritorno dei tre ragazzi a Torino.
 

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