La demistificazione della
guerra napoleonica
H. B. Stendhal, La Certosa di Parma ( 1839
)
La battaglia di Waterloo
Appare evidente una prima differenza nel trattare il tema della guerra in
questo romanzo. Se perdura il concetto di
guerra giusta, quella
che i popoli portano avanti per ottenere la propria libertà, la
guerra come unica risorsa per la
conquista del bene sommo dell'indipendenza nazionale (
Manzoni,
Hayez,
Scott ), si va facendo strada
parallelamente una visione
anti-eroica della guerra e dello scontro armato, dove l'attività
militare non diviene più una tappa essenziale della formazione del giovane
eroe dei romanzi. Il giovane nobile Fabrizio che voleva divenire eroe
accanto a Napoleone, conosce invece la volgare e brutale realtà della fuga e
della sconfitta. |
LA CERTOSA DI PARMA . È l'ultima delle opere di Stendlhal (Henri Beyle, 1783-1842), pubblicata nel 1839.
Nel primo
capitolo, sotto il titolo "Milano nel 1796", l'autore, basandosi su pretese
confidenze di un tenente francese di nome
Robert, ci fa fare la
conoscenza dell'anziano marchese del
Dongo, tenace austriacante e feroce reazionario, ma soprattutto di
due donne, la giovine marchesa e la
sorella, Gina del Dongo. Nel 1815, alla notizia del ritorno di Napoleone dall'Elba, Fabrizio fugge di casa per combattere con lui: dopo romanzesche avventure arriva a Waterloo il pomeriggio stesso della battaglia, alla quale assiste senza capirne gran che, restando poi travolto nella fuga. (testo) Tornato, egli è messo al bando dal marchese del Dongo, e si rifugia presso la zia a Parma. La bellissima Gina infatti, rimasta vedova, aveva conosciuto il primo ministro del principe di Parma, il conte Mosca, aveva sposato, per salvar le apparenze, il vecchio marchese di Sanseverina, e formava l'ornamento dell'anacronistica corte del tirannello di Parma. In questo ambiente il giovane Fabrizio, per assecondare l'ambizione della zia, essendogli ormai chiusa la via della gloria militare, si appresta a seguire la carriera ecclesiastica e diviene coadiutore del vecchio arcivescovo. Ma la sua giovinezza, priva di un vero scopo, lo coinvolge in avventurosi e facili amori. Conseguenza di uno di questi è un duello rusticano nel quale egli, per difendersi, uccide l'attore comico Giletti. L'incidente è sfruttato a Parma dagli invidiosi del conte Mosca e della bella Sanseverina: Fabrizio, indotto a ritornare con false promesse di immunità, è rinchiuso nella fortezza, sulla cima della famosa torre Farnese (una immaginaria replica di Castel Sant'Angelo), e passa lungo tempo colà, continuamente minacciato di morte. In questi mesi nasce e grandeggia l'amore tra Fabrizio e la giovinetta Clelia, figlia del governatore della fortezza, l'ambizioso generale Fabio Conti. Con una serie di ingegnosi espedienti i due giovani comunicano tra di loro, mentre la Sanseverina, temendo con ragione che il nipote venga avvelenato dai suoi nemici, d'accordo con Clelia, fa pervenire a Fabrizio i mezzi per fuggire. Egli riesce a calarsi dalla torre e si salva. Ma tra gli espedienti della sua fuga c'è anche stata una forte dose di oppio propinata al generale Fabio Conti, che corre rischio di morte; e Clelia, tormentata dai rimorsi, ha fatto voto alla Madonna, purché sia salvo il padre, di seguirne in tutto la volontà e di non veder più Fabrizio. Essa sposerà dunque il ricchissimo marchese Crescenzi. Intanto a Parma il vecchio principe muore, apparentemente di malattia, ma in realtà avvelenato dal cospiratore poeta Ferrante Palla per suggestione della Sanseverina; repressa una piccola sollevazione, il conte Mosca si sente tanto potente presso il successore, Ranuccio Ernesto V, da consigliare il ritorno a Fabrizio e alla zia che lo ha seguito nella fuga. Fabrizio però, saputo del prossimo matrimonio di Clelia, rompendo ogni indugio, è frattanto tornato volontariamente nella torre della fortezza, mettendosi in mano ai suoi nemici. Segue una rapida serie di intrighi: i nemici del conte Mosca riprendono piede e cercano di far morire Fabrizio, la Sanseverina (il cui amore per il nipote è ormai palese anche a lei stessa, e che è torturata dalla gelosia) cerca al tempo stesso di salvarlo e di impedirgli di turbare il matrimonio di Clelia; il giovine principe, a sua volta follemente innamorato della Sanseverina, vuole ottenere i favori di lei in cambio della grazia di Fabrizio, e ci riesce. La Sanseverina subito dopo lascia Parma per sempre, traendo seco il conte Mosca che poi sposerà. Fabrizio, ormai impegnato nella carriera ecclesiastica, diventa un celebre predicatore; ma, distrutto dalla sua passione, cerca di riavere con ogni mezzo Clelia, combattuta a sua volta tra l'amore e il dovere. Ci riesce alfine, per breve tempo. La morte di un loro figlioletto conduce presto alla tomba Clelia torturata dai rimorsi. Fabrizio allora si ritira, abbandonando onori e ricchezze, nella Certosa di Parma, e non tarda a morire anche lui. Dal Dizionario delle opere e degli autori, Bompiani
Nel romanzo Stendhal ha trasfuso tutti i suoi ideali d'arte e di vita:
l'ormai lontano miraggio di gloria
dell'epopea napoleonica, la passione
dell'avventura, l'amore
profondissimo per l'Italia contemporanea e per l' Italia del
Rinascimento ( splendida e pittoresca la ricostruzione dell'anacronistica corte di Parma). Sono
rimasti famosi molti episodi tra cui
la originalissima rievocazione della battaglia di Waterloo. |
Capitolo IV - Fabrizio alla battaglia di Waterloo Niente poté svegliarlo, né i colpi di fucile sparati vicinissimo, né il trotto del cavallo che la vivandiera frustava a tutta forza. Il reggimento, dopo aver creduto per tutto il giorno che la battaglia fosse vinta, era stato attaccato di sorpresa da nugoli di cavalleggeri prussiani, e stava ritirandosi, o meglio stava fuggendo verso la Francia. Il colonnello che aveva preso il posto di Macon, un bell'uomo giovane, elegante, era stato ucciso a sciabolate. Il comandante di battaglione che lo aveva sostituito, un vecchio dai capelli bianchi, ordinò l'alt. «Perdio!» disse ai soldati, «al tempo della repubblica, prima di tagliare la corda si aspettava di esserci costretti. Dovete difendere ogni metro, e fatevi ammazzare,» gridava, imprecando, «perché è la nostra terra, che i prussiani vogliono invadere!» Fabrizio si svegliò bruscamente. La carretta si era fermata. Il sole era tramontato da un pezzo. Gli parve molto strano che fosse già quasi notte. C'era una gran confusione, soldati che correvano da tutte le parti. Sembrava che si vergognassero di qualcosa. Fabrizio ne fu molto stupito. «Che cosa succede?» chiese alla vivandiera. «Proprio niente. Solo che ci han fatto fuori, ragazzo. Abbiamo addosso la cavalleria dei prussiani, ecco che cosa succede. Quell'idiota del generale credeva che fosse la nostra. Sù, sbrigati, dammi una mano, che si è rotto un attacco.» Stavano sparando, molto vicino. Il nostro eroe si sentiva fresco e riposato, pensava: «In fondo, per tutto il giorno, non mi sono battuto. Non ho fatto altro che scortare un generale.» Poi disse alla donna: «Devo battermi.» «Sta' tranquillo, ti batterai. Tra un po' ne avrai fin sopra i capelli, di batterti. Siamo spacciati.» Poi la donna gridò a un caporale che passava sulla strada: «Aubry, da' un'occhiata alla carretta, ogni tanto.» «Andate a combattere?» chiese Fabrizio a Aubry. «Io? Macché! Sto andando a ballare!» «Vengo anch'io.» «Senti, stagli attento, al piccolo ussaro!» gridò la donna. «È un bravo ragazzo.» Il caporale Aubry camminava senza aprir bocca. Otto o dieci soldati lo raggiunsero, di corsa. Aubry li condusse dietro una grossa quercia, tra cespugli di rovi, poi, sempre senza dire una parola, li dispose sul limitare del bosco, piuttosto distanti uno dall'altro. «Attenzione, ragazzi,» disse - e era la prima volta che parlava -, «non sparate se non ve lo dico io. Ricordatevi che avete soltanto tre cartucce.» «Ma che cosa succede?» pensava Fabrizio. Poi, quando fu solo con il caporale, gli disse: «Sono senza fucile.» «Per prima cosa, sta' zitto! Va' là, a una cinquantina di passi dal bosco. Troverai qualcuno di quei poveri ragazzi massacrati a sciabolate. Prendi fucile e giberne. E sta' attento che non sia un ferito, almeno. Prendi fucile e giberne a uno che sei sicuro che è morto, e fa' in fretta, prima che i nostri ti tirino addosso.» Fabrizio corse via, e tornò subito con un fucile e delle giberne. «Adesso caricalo e mettiti là, dietro quell'albero. Mi raccomando, non sparare se non lo ordino io... Ma per Dio, questo qui non sa neanche caricare un fucile!» e continuando, a parlare gli mostrò come si faceva. «Se ti viene addosso un cavalleggero, per sciabolarti, gira intorno all'albero e spara soltanto a colpo sicuro, quando ce l'hai a tre passi, quando a momenti lo tocchi con la baionetta.» Poi gridò: «E buttalo via, quello sciabolone! Vuoi che ti faccia inciampare, porca miseria? Che razza di soldati ci mandano!» e prese la sciabola e la buttò lontano, bruscamente. Poi disse: «Avanti, pulisci la pietra focaia con il fazzoletto. Ma l'hai mai tirato, un colpo di fucile?» «Andavo sempre a caccia.» «Meno male!» disse il caporale, sbuffando. «Ma ricordati, spara soltanto quando io do l'ordine.» Poi se ne andò. Fabrizio era tutto eccitato. «Adesso sì che potrò combattere davvero,» pensava. «Se potessi ucciderne uno! Stamattina ci sparavano addosso e io potevo soltanto star lì a espormi come uno scemo!» Si guardava intorno con estrema curiosità. Dopo un po' sentì sette o otto fucilate, vicinissime. Ma il caporale non aveva dato l'ordine di tirare e Fabrizio rimase tranquillo, dietro il suo albero. Era quasi notte. Era come quando stava alla posta, a caccia di orsi, sulle montagne di Tremezzina, sopra Griante. Poi fece una cosa da cacciatore: tolse la palla da una cartuccia e l'infilò nella canna del fucile già carico. «Se ne vedo uno non devo mancarlo,» pensò. Due fucilate esplosero proprio vicino al suo albero. E, di colpo, un cavalleggero in uniforme blu gli passò davanti al galoppo, da destra a sinistra. «Non sono tre passi,» pensò Fabrizio, «ma sono sicuro di prenderlo, così vicino.» Lo seguì bene con il mirino, schiacciò il grilletto. Caddero tutt'e due, uomo e cavallo. A Fabrizio sembrava di essere a caccia, era felice, si mise a correre verso la preda che aveva abbattuto. Stava già toccandolo, gli sembrava che stesse agonizzando. E vide due cavalleggeri prossiani che gli si precipitavano contro, le sciabole alzate. Corse affannosamente verso il bosco, lasciò cadere il fucile. Gli erano quasi addosso; ma giunse tra piccole querce dritte, grosse come un braccio, al margine del bosco. Per un momento i cavalleggeri rallentarono, poi furono di nuovo allo scoperto. Gli erano dietro, ancora, stavano per raggiungerlo. Si buttò nel bosco, tra grossi alberi. Cinque o sei fucilate gli esplosero davanti, tanto vicine che sentì sulla faccia il caldo delle fiammate. Abbassò la testa. Poi, alzandola, vide la faccia del caporale. «L'hai preso, il tuo?» «Sì. Ma ho perso il fucile.» «Non sono i fucili, che ci mancano. Sei in gamba. Con la tua aria da ragazzino te la sei guadagnata, la giornata. E questi, che fanno il soldato, non sono stati capaci di prendere quei due che ti correvano dietro. E li avevano a tiro, proprio di fronte. Io non potevo vederli. Adesso dobbiamo battercela, e alla svelta. Il reggimento deve essere piuttosto lontano, e oltre a tutto dobbiamo passare per un pezzo in mezzo ai campi, e corriamo il rischio che ci taglino fuori.» Mentre parlava, il caporale aveva incominciato a camminare in fretta, alla testa dei suoi dieci uomini. Poco lontano, sull'orlo del campo, incontrarono un generale ferito, portato a braccia dal suo aiutante di campo e da un domestico. «Voglio quattro uomini,» disse il generale con voce spenta. «Bisogna che mi portino a un'ambulanza. Ho una gamba fracassata.» «Va' a farti fottere,» rispose il caporale, «tu e tutti i generali! Avete tutti tradito l'Imperatore, oggi!» «Ma tu ti stai rifiutando di obbedire a un ordine!» gridò il generale, inviperito. «Sai che io sono il conte B., generale comandante la tua divisione...» Continuava a parlare, dandosi grandi arie. L'aiutante di campo si buttò contro i soldati. Il caporale gli diede un colpo di baionetta sul braccio e corse via con i suoi uomini. «Che vadano in malora tutti,» ripeteva, imprecando, «che si possano fracassare tutti gambe e braccia! Una massa di sbruffoni, ecco che cosa sono! Tutti venduti ai Borboni per tradire l'Imperatore!» Fabrizio era molto impressionato da questa terribile accusa.
Verso le dieci di sera raggiunsero il reggimento alla periferia di un grosso villaggio percorso da tante piccole strade strettissime, ma Fabrizio notò che il caporale evitava di parlare agli ufficiali. Poi il caporale disse: «Di qua non si passa.» Per le strade si ammassavano uomini, cavalli, carri, cassoni dell'artiglieria. Arrivarono fino a un incrocio, ma dopo pochi passi dovettero fermarsi. Intorno imprecavano, litigavano. «Dev'essere qualche altro traditore, che comanda, qui!» gridò il caporale. «Se ai prussiani gli viene l'idea di circondare il villaggio, ci prendono come un mucchio di cani. Venite con me, voialtri.» Fabrizio si guardò intorno. C'erano solo sei soldati, con il caporale. Attraverso un portone spalancato entrarono in un vasto cortile, dal cortile passarono in una stalla e uscirono da una porta che dava su un giardino. Per un po' camminarono sù e giù senza saper dove andare, poi scavalcarono una siepe e si trovarono in un gran campo di saggina. In meno di mezz'ora, seguendo il rumore e le grida, furono di nuovo sulla strada maestra, al di là del villaggio. Il fossato che correva lungo la strada era pieno di fucili abbandonati, e Fabrizio ne prese uno. La strada era molto larga, ma così ingombra di fuggiaschi e di carriaggi che in mezz'ora fu tanto se riuscirono a fare cinquecento passi. Dicevano che quella era la strada per Charleroi. Suonarono le undici. «Bisogna prendere ancora per i campi,» gridò il caporale. Erano rimasti in cinque - tre soldati, il caporale e Fabrizio. Quando arrivarono a un quarto di lega dalla strada maestra, uno dei soldati disse: «Non ce la faccio più.» «Neanch'io,» disse un altro. «Bella novità!» disse il caporale. «Come credete che stia, io? Ma se mi obbedite vi troverete bene.» C'erano cinque o sei alberi sul bordo di un fossatello, in mezzo a un immenso campo di grano. «Là, dove ci sono quegli alberi!» disse il caporale. Poi, quando furono arrivati agli alberi, disse: «Stendetevi là. E non fate rumore, mi raccomando. Ma prima di dormire, c'è qualcuno che ha un po' di pane?» «Io,» disse un soldato. «Da' qua,» disse il caporale, in tono deciso. Poi divise il pane in cinque pezzi e si tenne il più piccolo. «Un quarto d'ora prima che faccia giorno,» disse poi, mangiando, «avremo addosso la cavalleria nemica. Qui si tratta di non farsi sciabolare. Uno solo è spacciato, con la cavalleria addosso in una pianura come questa - ma in cinque ci si può salvare. Se state con me, e state uniti, e sparate solo a colpo sicuro, mi impegno a portarvi a Charleroi per domani sera.»
Il caporale li svegliò un'ora prima dell'alba, gli fece ricaricare i fucili. Dalla strada maestra veniva ancora un gran rumore, era durato tutta notte. Era come un torrente in lontananza. «Scappano come tante pecore,» disse Fabrizio al caporale, ingenuamente. «Chiudi il becco, novellino!» disse il caporale, irritato, e i tre soldati che formavano tutto il suo esercito guardarono Fabrizio con aria molto severa, come se avesse detto una bestemmia. Aveva insultato la nazione. «È incredibile!» pensò Fabrizio. «L'ho già notato alla corte del viceré, a Milano. Loro non scappano, no! Con questi francesi non si può dire la verità, se ferisce la loro vanità. Ma della loro aria di rimprovero non me ne importa niente, e bisogna che glielo faccia capire.» Continuavano a camminare a qualche centinaio di passi da quel fiume di fuggiaschi che scorreva sulla strada maestra. A un certo punto attraversarono un sentiero che incrociava la strada maestra. C'erano molti soldati, buttati per terra. Fabrizio comprò per quaranta franchi un cavallo piuttosto buono, poi scelse con cura tra, i mucchi di armi abbandonate una grossa spada diritta. «Dato che dicono che bisogna lavorare di punta,» pensò, «questa è l'ideale.» Poi mise il cavallo al galoppo e raggiunse il caporale e gli altri soldati, che erano andati avanti. Assestò i piedi nelle staffe, pose la sinistra sul fodero della spada, e disse ai quattro francesi: «Quelli che scappano, sulla strada, hanno l'aria di un branco di pecore... camminano come tante pecore spaventate...»
Ma aveva un bel calcare sulla parola
pecore, i suoi compagni non si ricordavano neanche più di essersi offesi
per quella parola soltanto un'ora prima.
Un'altra differenza fra il
carattere degli italiani e quello dei francesi: e è certo che un francese se
la passa meglio, perché sorvola su quello che gli è capitato, senza serbare
rancore. Bisogna dire che Fabrizio era molto soddisfatto di sé, dopo quella battuta sulle pecore. E continuarono ad andare avanti scambiando qualche parola. Dopo due leghe, il caporale, sempre molto stupito di non aver incontrato cavalleria nemica, disse a Fabrizio: «Senti, tu sei la nostra cavalleria. Vedi quel cascinale, sul dosso? Va' a domandare al contadino se vuol venderci da mangiare. E faglielo capire, che siamo solo in cinque. Se vedi che è incerto anticipagli cinque franchi dei tuoi. Ma sta' tranquillo, dopo mangiato glieli riprendiamo.» Fabrizio guardò il caporale. Aveva una faccia seria, imperturbabile, l'aria di chi non mette neanche in dubbio la propria superiorità morale. Obbedì. Andò tutto come aveva previsto il comandante in capo, solo che Fabrizio insistette perché non costringessero il contadino a restituire i soldi. «Sono soldi miei,» disse agli altri, «e non sto pagando per voi, pago per l'avena che ha dato al mio cavallo.» Fabrizio parlava il francese così male che i suoi compagni credettero di cogliere nelle sue parole un tono di superiorità, e ne furono molto irritati. Incominciavano a pensare che prima di sera sarebbero venuti alle mani. La cosa che li urtava di più era che lui sembrava molto diverso. Fabrizio, invece, incominciava a provare per loro una grande amicizia. Stavano camminando da due ore senza parlare, quando il caporale, guardando verso la strada maestra, gridò con entusiasmo: «Ecco il reggimento!» Corsero verso la strada. Ma intorno all'insegna con l'aquila c'erano meno di duecento uomini. Fabrizio trovò subito la vivandiera: era a piedi, aveva gli occhi rossi, e ogni tanto piangeva. Fabrizio si guardò intorno, cercando inutilmente la carretta e il cavallo. «Partiti, spariti, rubati!» gridò la donna, rispondendo allo sguardo di Fabrizio. Senza dire una parola, lui scese da cavallo, lo prese per la briglia e disse alla donna: «Salite.» Quella non se lo fece dire due volte. «Accorciami le staffe,» disse. Una volta a posto, in sella, incominciò a raccontare a Fabrizio tutti i disastri che le erano capitati durante la notte. Dopo un racconto interminabile - ma ascoltato avidamente dal nostro eroe, che per la verità non ci capiva niente di niente, ma che sentiva un grande affetto per quella donna - alla fine la vivandiera disse: «E pensare che sono stati dei francesi a picchiarmi, a derubarmi, a mandarmi in rovina...» «Come! Non sono stati i nemici?» disse Fabrizio con un'aria ingenua che rendeva incantevole la sua bella faccia, pallida, seria seria. «Che sciocco che sei, ragazzo!» disse la donna, sorridendo tra le lacrime. «Eppure sei proprio simpatico.» «E avreste dovuto vedere come è stato bravo a accoppare il suo prussiano!» disse il caporale Aubry - che nella confusione generale si era trovato a passare in quel momento dall'altra parte del cavallo montato dalla vivandiera. «Ma è orgoglioso,» continuò poi... Fabrizio incominciava a agitarsi. Il caporale disse: «E come ti chiami? Perché se riuscirò a fare un rapporto voglio fare il tuo nome.» «Mi chiamo Vasi,» rispose Fabrizio facendo una faccia strana, poi aggiunse in fretta: «Cioè, Boulot.» Boulot era il nome dell'ussaro i cui documenti gli erano stati dati dalla moglie del guardiano della prigione di B. Due giorni prima, continuando a camminare, se li era studiati bene, quei documenti, perché adesso incominciava a avere un po' di buon senso e a non meravigliarsi più di tutto quel che vedeva. Oltre ai documenti dell'ussaro, Fabrizio conservava con molta cura il passaporto italiano in base al quale poteva fregiarsi del nobile nome di Vasi, venditore di barometri. Quando il caporale lo aveva accusato di essere orgoglioso, era stato sul punto di rispondere: «Orgoglioso io! Io, che mi chiamo Fabrizio Valserra, marchesino del Dongo, e che mi adatto a portare il nome di un certo Vasi, venditore di barometri!»
Ora Fabrizio pensava: «Bisogna che me ne ricordi: mi chiamo Boulot. Altrimenti, occhio alla prigione! Perché c'è la minaccia della prigione, nel mio futuro.» Intanto il caporale e la donna avevano continuato a parlare di lui. «Direte che sono curiosa,» disse la donna senza dargli più del tu, «ma se vi faccio delle domande è per il vostro bene. Andiamo, chi siete? Ma veramente, dico.» Fabrizio non rispose subito. Pensava che sarebbe stato impossibile trovare amici come quelli, gente di cui potersi fidare, da cui farsi consigliare. E ne aveva un gran bisogno, di consigli. «Arriveremo in una piazza militare, il governatore vorrà sapere chi sono. E se si accorgono che non conosco nessuno del 4° ussari, che è il reggimento di cui porto la divisa, occhio alla prigione!» Nella sua qualità di suddito austriaco, Fabrizio sapeva benissimo quanta importanza bisogna dare a un passaporto. I suoi parenti erano nobili, e molto devoti al regime, eppure avevano avuto una infinità di noie, per via dei passaporti. Per questo la domanda della donna non lo urtò affatto. Ma mentre lui esitava a rispondere, cercando le parole più precise in francese, la donna, sempre più incuriosita, disse per indurlo a parlare: «Io e il caporale Aubry potremmo darvi dei buoni consigli.» «Ne sono sicuro,» rispose Fabrizio. «Mi chiamo Vasi, e sono di Genova. Mia sorella - una donna famosa per la sua bellezza - ha sposato un capitano. Io ho solo diciassette anni, e così lei mi ha fatto venire qui per farmi vedere la Francia, per istruirmi un po'. Quando sono arrivato a Parigi non l'ho trovata. Poi ho saputo che era con l'esercito e sono venuto a cercarla, ma l'ho cercata da tutte le parti senza riuscire a trovarla. Poi è successo che dei soldati si sono insospettiti per il mio accento e mi hanno fatto arrestare. Allora ho dato a un gendarme un po' di soldi - perché allora ne avevo, di soldi - e lui mi ha dato dei documenti e una divisa e mi ha detto: «"Fila, e giurami che non farai mai il mio nome."» «Come si chiamava?» chiese la donna. «Ho dato la mia parola,» rispose Fabrizio. «Ha ragione,» disse il caporale, «quel gendarme è un delinquente, ma il nostro amico non deve dire come si chiamava. E quel capitano, il marito di vostra sorella, come si chiama? Se sappiamo come si chiama potremmo cercarlo.» «Si chiama Teulier, è capitano del 4° ussari,» rispose Fabrizio. «E così,» disse il caporale, con un certo tatto, «quando hanno sentito il vostro accento, i soldati vi hanno preso per una spia?» «Non è mostruoso?» gridò Fabrizio, con gli occhi che gli brillavano. «Io che voglio tanto bene all'Imperatore e ai francesi! È la cosa che mi ha offeso di più, essere insultato in questo modo!» «Vi sbagliate, nessuno vi ha insultato. L'errore di quei soldati era molto naturale,» disse il caporale con aria severa. Poi, con molta pedanteria, gli spiegò che nell'esercito bisogna appartenere a un reparto e portare una divisa, altrimenti è logico che vi prendano per una spia. «Il nemico ce ne manda molte, di spie. In questa guerra sono tutti traditori.» E finalmente Fabrizio aprì gli occhi, si rese conto per la prima volta che in tutto quanto gli era capitato negli ultimi due mesi lui aveva avuto torto. «Ma bisogna che il ragazzo ci racconti tutto,» disse la donna, sempre più incuriosita. E Fabrizio le obbedì. Quando ebbe finito, la donna disse al caporale, in tono serio: «In sostanza questo ragazzo non è un soldato. Sarà una brutta guerra, adesso che ci hanno fatto fuori, e tradito. Perché deve star qui a farsi rompere la testa gratis pro Deo?» «Tanto più,» disse il caporale, «che non sa neanche caricare un fucile, né in dodici né in mille tempi. Sono io che glielo ho caricato, quando ha tirato a quel prussiano.» «E poi va in giro a far vedere a tutti i suoi soldi,» disse la donna. «Appena è solo gli portano via tutto.» «Il primo sergente di cavalleria che incontra,» disse il caporale, «se lo arruola per suo conto, tanto per farsi pagar da bere. E magari, con tutti i traditori che ci sono in giro, sono capaci di farlo combattere per il nemico. Chiunque gli ordinerà di seguirlo, lui lo seguirà. Farebbe meglio a entrare nel nostro reggimento.» «Ah no, caporale, scusate!» disse Fabrizio, vivacemente. «È più comodo andare a cavallo. E poi non so caricare un fucile - ma mi avete visto, come vado a cavallo!» Fabrizio era molto orgoglioso di questo discorsetto. Poi il suo futuro destino fu oggetto di una lunga discussione tra il caporale e la vivandiera. Fabrizio notò che quei due, discutendo, continuavano a ripetere certi punti della sua storia: i sospetti dei soldati, il gendarme che gli aveva venduto divisa e documenti, il modo in cui lui, il giorno prima, si era trovato a scortare il maresciallo, il passaggio dell'Imperatore, il cavallo soffiato, e così via. Con la sua curiosità di donna, la vivandiera continuava a tornare sul modo in cui gli avevano portato via il cavallo, quel buon cavallo che lei gli aveva fatto comprare. «Ti sei sentito prendere per i piedi, te l'hanno tirato, via di sotto, per bene, e ti hanno messo seduto per terra, eh?» «Perché continuano a ripetere le stesse cose?» pensava Fabrizio. «Lo sappiamo benissimo tutti e tre, come è andata.» Non sapeva ancora che in Francia, per la gente del popolo, questo è un modo per ragionare, per farsi venire le idee. «Quanti soldi hai?» gli chiese improvvisamente la donna. Fabrizio rispose subito. Era sicuro dell'onestà di quella donna - è il lato buono dei francesi, questo. «Mi resteranno in tutto trenta napoleoni d'oro e otto o dieci scudi da cinque franchi.» «Ma allora hai campo libero!» gridò la donna. «Tirati fuori da questa confusione, buttati sul fianco, prendi la prima strada un po' libera che trovi sulla tua destra e continua a galoppare, e va' più lontano che puoi dall'esercito. Appena puoi, compra dei vestiti da borghese. Quando sarai a una diecina di leghe, e non vedrai più soldati, prendi dei cavalli di posta e va' in qualche bella città, e sta' lì otto giorni a riposare e a mangiar bistecche. Non dire mai a nessuno che sei stato nell'esercito: i gendarmi ti arresterebbero subito come disertore - e anche se sei molto simpatico non sei ancora abbastanza in gamba per farcela a rispondere ai gendarmi. Appena ti sarai messo addosso un vestito da borghese, ricordati di stracciare in mille pezzi quei documenti da ussaro e di riprendere il tuo vero nome. Di' che sei Vasi.» Poi si rivolse al caporale: «Da dove deve dire che viene?» «Da Cambrai sur l'Escaut. È una bella città, molto piccola, capisci? C'è una cattedrale, e Fénelon.» «Ecco,» disse la donna. «Non dire mai che c'eri, alla battaglia. Non dir niente di B., non parlare del gendarme che ti ha venduto i documenti. Quando decidi di tornare a Parigi, va' prima a Versailles, poi per entrare a Parigi passa la barriera da quella parte. A piedi, mi raccomando, come se andassi a spasso. I soldi, cùciteli nei pantaloni, e quando devi pagare qualche cosa, tira fuori solo quelli che ti servono. Mi vien da piangere, a pensare a come ti prenderanno per il naso!... Ti porteranno via tutto, lo so. E come farai senza un soldo in tasca, senza sapertela cavare?»
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