I. Svevo ed il particolare rapporto tra psicanalisi e letteratura
da La coscienza di Zeno - Psicanalisi


Ettore Smidtz


Sigmund Freud

I
PREFAZIONE

        Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente mi dedica.
        Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arriccerranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul piú bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
        Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!...

                                                                                                                        DOTTOR S.
II
PREAMBOLO

        Vedere la mia infanzia? Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d'ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
        Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po' d'ordine pur dovrebb'esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d'intenderlo, ma molto noioso.
        Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S'alza, s'abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch'esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.
        Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L'esperimento finì nel sonno piú profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d'importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.
        Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!
        Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell'importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno - fantolino! - si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi - fantolino! - sei consanguineo di persone ch'io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.
        Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.

 

 

VIII
Psico-analisi

     

3 Maggio 1915   

L'ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire ch'ero impedito, e per qualche giorno lascio che m'aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz'adirarmi, sarei anche capace di rivederlo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.
        In questa città, dopo lo scoppio della guerra, ci si annoia piú di prima e, per rimpiazzare la psico-analisi, io mi rimetto ai miei cari fogli. Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzati i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono. Ma ora mi trovo squilibrato e malato piú che mai e, scrivendo, credo che mi netterò piú facilmente del male che la cura m'ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che piú non duole e far andare via piú rapido il presente uggioso.
        Tanto fiduciosamente m'ero abbandonato al dottore che quando egli mi disse ch'ero guarito, gli credetti con fede intera e invece non credetti ai miei dolori che tuttavia m'assalivano. Dicevo loro: «Non siete mica voi!». Ma adesso non v'è dubbio! Son proprio loro! Le ossa delle mie gambe si sono convertite in lische vibranti che ledono la carne e i muscoli.
        Ma di ciò non m'importerebbe gran fatto e non è questa la ragione per cui lascio la cura. Se le ore di raccoglimento presso il dottore avessero continuato ad essere interessanti apportatrici di sorprese e di emozioni, non le avrei abbandonate o, per abbandonarle, avrei atteso la fine della guerra che m'impedisce ogni altra attività. Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d'altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell'uomo ridicolo, con quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande, nuova teoria? Impiegherò il tempo che mi resta libero scrivendo. Scriverò intanto sinceramente la storia della mia cura. Ogni sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro. Non m'è piú imposto alcuno sforzo. Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla. Proprio per celare meglio il mio vero pensiero, credevo di dover dimostrargli un ossequio supino e lui ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove. La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta. Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre.
        Né io m'arrabbiai! Incantato stetti a sentire. Era una malattia che mi elevava alla piú alta nobiltà. Cospicua quella malattia di cui gli antenati arrivavano all'epoca mitologica! E non m'arrabbio neppure adesso che sono qui solo con la penna in mano. Ne rido di cuore. La miglior prova ch'io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito. Questa prova convincerebbe anche il dottore. Se ne dia pace: le sue parole non poterono guastare il ricordo della mia giovinezza. Io chiudo gli occhi e vedo subito puro, infantile, ingenuo, il mio amore per mia madre, il mio rispetto ed il grande mio affetto per mio padre.
        Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio cosí che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.
        Il dottore mi confessò che, in tutta la sua lunga pratica, giammai gli era avvenuto di assistere ad un'emozione tanto forte come la mia all'imbattermi nelle immagini ch'egli credeva di aver saputo procurarmi. Perciò anche fu tanto pronto a dichiararmi guarito.
        Ed io non simulai quell'emozione. Fu anzi una delle piú profonde ch'io abbia avuta in tutta la mia vita. Madida di sudore quando l'immagine creai, di lagrime quando l'ebbi. Io avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d'innocenza e d'ingenuità. Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m'animò. Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose del Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di piú della mia vita. Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine.
        È cosí che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato.
        Quando arrivai al torpore che doveva facilitare l'illusione e che mi pareva nient'altro che l'associazione di un grande sforzo con una grande inerzia, credetti che quelle immagini fossero delle vere riproduzioni di giorni lontani. Avrei potuto sospettare subito che non erano tali perché, appena svanite, le ricordavo, ma senz'alcun'eccitazione o commozione. Le ricordavo come si ricorda il fatto raccontato da chi non vi assistette. Se fossero state vere riproduzioni avrei continuato a riderne e a piangerne come quando le avevo avute.
        E il dottore registrava. Diceva: «Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello». In verità, noi non avevamo piú che dei segni grafici, degli scheletri d'immagini.
        Fui indotto a credere che si trattasse di una rievocazione della mia infanzia perché la prima delle immagini mi pose in un'epoca relativamente recente di cui avevo conservato anche prima un pallido ricordo ch'essa parve confermare. C'è stato un anno nella mia vita in cui io andavo a scuola e mio fratello non ancora. E pareva fosse appartenuta a quell'anno l'ora che rievocai. Io mi vidi uscire dalla mia villa una mattina soleggiata di primavera, passare per il nostro giardino per scendere in città, giú, giú, tenuto per mano da una nostra vecchia fantesca, Catina. Mio fratello nella scena che sognai non appariva, ma ne era l'eroe. Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola. Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell'animo, un intenso rancore. Io non vidi che una di quelle passeggiate alla scuola, ma il rancore nel mio animo mi diceva che ogni giorno io andavo a scuola ed ogni giorno mio fratello restava a casa. All'infinito, mentre in verità credo che, dopo non lungo tempo, mio fratello piú giovine di me di un anno solo, sia andato a scuola anche lui. Ma allora la verità del sogno mi parve indiscutibile: io ero condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permesso di restare a casa. Camminando a canto a Catina calcolavo la durata della tortura: fino a mezzodí! Mentre lui è a casa! E ricordavo anche che nei giorni precedenti dovevo essere stato turbato a scuola da minaccie e rampogne e che io avevo pensato anche allora: a lui non possono toccare. Era stata una visione di un'evidenza enorme. Catina che io avevo conosciuta piccola, m'era parsa grande, certamente perché io ero tanto piccolo. Vecchissima m'era sembrata anche allora, ma si sa che i giovanissimi vedono sempre vecchi gli anziani. E sulla via che io dovevo percorrere per andare a scuola, scorsi anche i colonnini strani che arginavano in quel tempo i marciapiedi della nostra città. Vero è che io nacqui abbastanza presto per vedere ancora da adulto quei colonnini nelle nostre vie centriche. Ma nella via che io con Catina quel giorno percorsi, non ci furono piú non appena io uscii dall'infanzia.
        La fede nell'autenticità di quelle immagini perdurò nel mio animo anche quando, presto, stimolata da quel sogno, la mia fredda memoria scoperse altri particolari di quell'epoca. Il principale: anche mio fratello invidiava me perché io andavo a scuola. Ero sicuro d'essermene avvisto, ma non subito ciò bastò ad infirmare la verità del sogno. Piú tardi gli tolse ogni aspetto di verità: la gelosia in realtà c'era stata, ma nel sogno era stata spostata.
        La seconda visione mi riportò anch'essa ad un'epoca recente, benché anteriore di molto a quella della prima: una stanza della mia villa, ma non so quale, perché piú vasta di qualunque altra che vi è realmente. È strano che io mi vedevo chiuso in quella stanza e che subito ne seppi un particolare che dalla semplice visione non poteva essere risultato: la stanza era lontana dal posto ove allora soggiornavano mia madre e Catina.
        Ed un secondo: io ancora non sono stato a scuola.
        La stanza era tutta bianca ed anzi io non vidi giammai una stanza tanto bianca né tanto completamente illuminata dal sole. Il sole di allora passava traverso le pareti? Esso era certamente già alto, ma io mi trovavo tuttavia nel mio letto con in mano una tazza da cui avevo sorbito tutto il caffelatte e nella quale continuavo a lavorare con un cucchiaino traendone lo zucchero. Ad un certo punto il cucchiaio non arrivò piú a raccoglierne altro ed allora io tentai di arrivare al fondo della tazza con la mia lingua. Ma non vi riuscii. Perciò finii col tenere la tazza in una mano e il cucchiaio nell'altra e stetti a guardare mio fratello coricato nel letto accanto al mio come, tardivo, stava ancora sorbendo il caffè col naso nella tazza. Quando levò finalmente la faccia, io la vidi tutta come si contrasse ai raggi del sole che la colpirono in pieno mentre la mia (Dio ne sa il perché) si trovava nell'ombra. Il suo viso era pallido ed un poco imbruttito da un lieve prognatismo. Mi disse:
        - Mi presti il tuo cucchiaio?
        Allora appena m'avvidi che Catina aveva dimenticato di portargli il cucchiaio. Subito e senz'alcuna esitazione gli risposi:
        - Sí! Se mi dài in compenso un poco del tuo zucchero.
        Tenni in alto il cucchiaio per farne rilevare il valore. Ma subito la voce di Catina risuonò nella stanza:
        - Vergogna! Strozzino!
        Lo spavento e la vergogna mi fecero ripiombare nel presente. Avrei voluto discutere con Catina, ma lei, mio fratello ed io, come ero fatto allora, piccolo, innocente e strozzino, sparimmo ripiombando nell'abisso.
        Rimpiansi di aver sentita tanto forte quella vergogna da aver distrutta l'immagine cui ero arrivato con tanta fatica. Avrei fatto tanto bene di offrire invece mitemente e gratis il cucchiaino e non discutere quella mia mala azione ch'era probabilmente la prima che avessi commessa. Forse Catina avrebbe invocato l'ausilio di mia madre per infliggermi una punizione ed io finalmente l'avrei rivista.
        La vidi però pochi giorni appresso o credetti di rivederla. Avrei potuto intendere subito ch'era un'illusione perché l'immagine di mia madre, come l'avevo evocata, somigliava troppo al suo ritratto che ho sul mio letto. Ma devo confessare che nell'apparizione mia madre si mosse come una persona viva.
        Molto, molto sole, tanto da abbacinare! Da quella ch'io credevo la mia giovinezza mi perveniva tanto di quel sole ch'era difficile dubitare non fosse dessa. Il nostro tinello nelle ore pomeridiane. Mio padre è ritornato a casa e siede su un sofà accanto a mamma che sta imprimendo con certo inchiostro indelebile delle iniziali su molta biancheria distribuita sul tavolo a cui essa siede. Io mi trovo sotto il tavolo dove giuoco con delle pallottole. M'avvicino sempre piú a mamma. Probabilmente desidero ch'essa s'associ ai miei giuochi. A un dato punto, per rizzarmi in piedi fra di loro, m'aggrappo alla biancheria che pende dal tavolo e allora avviene un disastro. La boccetta d'inchiostro mi capita sulla testa, bagna la mia faccia e le mie vesti, la gonna di mamma e produce una lieve macchia anche sui calzoni di papà. Mio padre alza una gamba per appiopparmi un calcio...
        Ma io in tempo ero ritornato dal mio lontano viaggio e mi trovavo al sicuro qui, adulto, vecchio. Devo dirlo! Per un istante soffersi della punizione minacciatami e subito dopo mi dolse di non aver potuto assistere all'atto di protezione che senza dubbio sarà partito da mamma. Ma chi può arrestare quelle immagini quando si mettono a fuggire traverso quel tempo che giammai somigliò tanto allo spazio? Quest'era il mio concetto finché credetti nell'autenticità di quelle immagini! Ora, purtroppo (oh! quanto me ne dolgo!) non ci credo piú e so che non erano le immagini che correvano via, ma i miei occhi snebbiati che guardavano di nuovo nel vero spazio in cui non c'è posto per fantasmi.
        Racconterò ancora delle immagini di un altro giorno alle quali il dottore attribuí tale importanza da dichiararmi guarito.
        Nel mezzo sonno cui m'abbandonai ebbi un sogno dall'immobilità dell'incubo. Sognai di me stesso ridivenuto bambino e soltanto per vedere quel bambino come sognava anche lui. Giaceva muto in preda ad una letizia che pervadeva il suo minuto organismo. Gli pareva di aver finalmente raggiunto il suo antico desiderio. Eppure giaceva là solo e abbandonato! Ma vedeva e sentiva con quell'evidenza come si sa vedere e sentire nel sogno anche le cose lontane. Il bambino, giacendo in una stanza della mia villa, vedeva (Dio sa in quale modo) che sul tetto della stessa ci fosse una gabbia murata su basi solidissime, priva di porte e di finestre, ma illuminata di quanta luce può far piacere e fornita di aria pura e profumata. Ed il bambino sapeva che a quella gabbia egli solo avrebbe saputo giungere e senza neppur andare perché forse la gabbia sarebbe venuta a lui. In quella gabbia non v'era che un solo mobile, una poltrona e su questa sedeva una donna formosa, costruita deliziosamente, vestita di nero, bionda, dagli occhi grandi e azzurri, le mani bianchissime e i piedi piccoli in scarpine laccate delle quali, di sotto alle gonne, sporgeva solo un lieve bagliore. Devo dire che quella donna mi pareva una cosa sola col suo vestito nero e le sue scarpine di lacca. Tutto era lei! Ed il bambino sognava di possedere quella donna, ma nel modo piú strano: era sicuro cioè di poter mangiarne dei pezzettini al vertice e alla base.
        Adesso, pensandoci, sono stupito che il dottore che ha letto, a quanto ne dice, con tanta attenzione il mio manoscritto non abbia ricordato il sogno ch'io ebbi prima di andar a raggiungere Carla. A me qualche tempo dopo, quando ci ripensai, parve che questo sogno non fosse altro che l'altro un po' variato, reso piú infantile.
        Invece il dottore registrò accuratamente tutto eppoi mi domandò con aspetto un po' melenso:
        - Vostra madre era bionda e formosa?
        Fui stupito della domanda e risposi che anche mia nonna era stata tale. Ma per lui ero guarito, ben guarito. Spalancai la bocca per gioirne con lui e m'adattai a quanto doveva seguire, cioè non piú indagini, ricerche, meditazioni, ma una vera e assidua rieducazione.
        Da allora quelle sedute furono una vera tortura ed io le continuai solo perché m'è sempre stato tanto difficile di fermarmi quando mi movo o di mettermi in movimento quando son fermo. Qualche volta, quando egli me ne diceva di troppo grosse, arrischiavo qualche obbiezione. Non era mica vero - com'egli lo credeva - che ogni mia parola, ogni mio pensiero fosse di delinquente. Egli allora faceva tanto d'occhi. Ero guarito e non volevo accorgermene! Era una vera cecità questa: avevo appreso che avevo desiderato di portar via la moglie - mia madre! - a mio padre e non mi sentivo guarito? Inaudita ostinazione la mia: però il dottore ammetteva che sarei guarito ancora meglio quando fosse finita la mia rieducazione in seguito alla quale mi sarei abituato a considerare quelle cose (il desiderio di uccidere il padre e di baciare la propria madre) come cose innocentissime per le quali non c'era da soffrire di rimorsi, perché avvenivano frequentemente nelle migliori famiglie. In fondo che cosa ci perdevo? Egli un giorno mi disse ch'io oramai ero come un convalescente che ancora non s'era abituato a vivere privo di febbre. Ebbene: avrei atteso di abituarmivi.
        Egli sentiva che non ero ancora ben suo ed oltre alla rieducazione, di tempo in tempo, ritornava anche alla cura. Tentava di nuovo i sogni, ma di autentici non ne ebbimo piú alcuno. Seccato di tanta attesa, finii coll'inventarne uno. Non l'avrei fatto se avessi potuto prevedere la difficoltà di una simile simulazione. Non è mica facile di balbettare come se ci si trovasse immersi in un mezzo sogno, coprirsi di sudore o sbiancarsi, non tradirsi, eventualmente diventar vermigli dallo sforzo e non arrossire: parlai come se fossi ritornato alla donna della gabbia e l'avessi indotta a porgermi per un buco improvvisamente prodottosi nella parete dello stanzino un suo piede da succhiare e mangiare. «Il sinistro, il sinistro!», mormorai mettendo nella visione un particolare curioso che potesse farla somigliare meglio ai sogni precedenti. Dimostravo cosí anche di aver capito perfettamente la malattia che il dottore esigeva da me. Edipo infantile era fatto proprio cosí: succhiava il piede sinistro della madre per lasciare il destro al padre. Nel mio sforzo d'immaginare realmente (tutt'altro che una contraddizione, questa) ingannai anche me stesso col sentire il sapore di quel piede. Quasi dovetti recere.
        Non solo il dottore ma anch'io avrei desiderato di esser visitato ancora da quelle care immagini della mia gioventú, autentiche o meno, ma che io non avevo avuto bisogno di costruire. Visto che accanto al dottore non venivano piú, tentai di evocarle lontano da lui. Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non miravo mica ad una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre. Le avevo già avute; perché non avrei potuto riaverle?
        Anche nella solitudine m'annoiai abbastanza, ma poi, invece delle immagini venne qualche cosa che per qualche tempo le sostituí. Semplicemente credetti di aver fatta un'importante scoperta scientifica. Mi credetti chiamato a completare tutta la teoria dei colori fisiologici. I miei predecessori, Goethe e Schopenhauer, non avevano mai immaginato dove si potesse arrivare maneggiando abilmente i colori complementari.
        Bisogna sapere ch'io passavo il mio tempo gettato sul sofà di faccia alla finestra del mio studio donde vedevo un pezzo di mare e d'orizzonte. Ora una sera dal tramonto colorito nel cielo frastagliato di nubi, m'indugiai lungamente ad ammirare su un lembo limpido, un colore magnifico, verde, puro e mite. Nel cielo c'era anche molto color rosso ancora pallido, sbiaccato dai diretti, bianchi raggi del sole. Abbacinato, dopo un certo intervallo di tempo, chiusi gli occhi e si vide che al verde era stata rivolta la mia attenzione, il mio affetto, perché sulla mia rètina si produsse il suo colore complementare, un rosso smagliante che non aveva nulla da fare col rosso luminoso, ma pallido nel cielo. Guardai, accarezzai quel colore fabbricato da me. La grande sorpresa la ebbi quando una volta aperti gli occhi, vidi quel rosso fiammeggiante invadere tutto il cielo e coprire anche il verde smeraldo che per lungo tempo non ritrovai piú. Ma io, dunque, avevo scoperto il modo di tingere la natura! Naturalmente l'esperimento fu da me ripetuto piú volte. Il bello si è che v'era anche del movimento in quella colorazione. Quando riaprivo gli occhi, il cielo non accettava subito il colore dalla mia rètina. V'era anzi un istante di esitazione nel quale arrivavo ancora a rivedere il verde smeraldo che aveva figliato quel rosso da cui sarebbe stato distrutto. Questo sorgeva dal fondo, inaspettato e si dilatava come un incendio spaventoso.
        Quando fui sicuro dell'esattezza della mia osservazione, la portai al dottore nella speranza di ravvivare con essa le nostre noiose sedute. Il dottore mi saldò dicendomi che io avevo la rètina piú sensibile causa la nicotina. Quasi mi sarei lasciato scappar detto che in allora anche le immagini, che noi avevamo attribuite a riproduzioni di avvenimenti della mia gioventú, potevano invece esser derivate dall'effetto dello stesso veleno. Ma cosí gli avrei rivelato che non ero guarito ed egli avrebbe cercato d'indurmi a ricominciare la cura da capo.
        Eppure quel bestione non sempre mi credette tanto avvelenato. Ciò viene provato anche dalla rieducazione ch'egli tentò per guarirmi da quella ch'egli diceva la mia malattia del fumo. Ecco le sue parole: il fumo non mi faceva male e quando mi fossi convinto ch'era innocuo sarebbe stato veramente tale. Eppoi continuava: oramai che i rapporti con mio padre erano stati riportati alla luce del giorno e ripresentati al mio giudizio di adulto, potevo intendere che avevo assunto quel vizio per competere con mio padre e attribuito un effetto velenoso al tabacco per il mio intimo sentimento morale che volle punirmi della mia competizione con lui.
        Quel giorno lasciai la casa del dottore fumando come un turco. Si trattava di fare una prova ed io mi vi prestai volontieri. Per tutto il giorno fumai ininterrottamente. Seguí poi una notte del tutto insonne. La mia bronchite cronica aveva rifiorito e di quella non c'era dubbio perché era facile scoprirne le conseguenze nella sputacchiera.
        Il giorno appresso raccontai al dottore di aver fumato molto e che ora non me ne importava piú. Il dottore mi guardò sorridendo e io indovinai che il petto gli si gonfiava dall'orgoglio. Con calma riprese la mia rieducazione! Procedeva con la sicurezza di veder fiorire ogni zolla su cui poneva il piede.
        Di quella rieducazione ricordo pochissimo. Io la subii e quando uscivo da quella stanza mi scotevo come un cane ch'esce dall'acqua ed anch'io restavo umido, ma non bagnato.
        Ricordo però con indignazione che il mio educatore asseriva che il dottor Coprosich avesse avuto ragione di dirigermi le parole che avevano provocato tanto mio risentimento. Ma allora io avrei meritato anche lo schiaffo che mio padre volle darmi morendo? Non so se egli abbia detto anche questo. So invece con certezza ch'egli asseriva ch'io avessi odiato anche il vecchio Malfenti che avevo messo al posto di mio padre. Tanti a questo mondo credono di non saper vivere senza un dato affetto; io, invece, secondo lui, perdevo l'equilibrio se mi mancava un dato odio. Ne sposai una o l'altra delle figliuole ed era indifferente quale perché si trattava di mettere il loro padre ad un posto dove il mio odio potesse raggiungerlo. Eppoi sfregiai la casa che avevo fatta mia come meglio seppi. Tradii mia moglie ed è evidente che se mi fosse riuscito avrei sedotta Ada ed anche Alberta. Naturalmente io non penso di negare questo ed anzi mi fece da ridere quando dicendomelo il dottore assunse l'aspetto di Cristoforo Colombo allorché raggiunge l'America. Credo però ch'egli sia il solo a questo mondo il quale sentendo che volevo andare a letto con due bellissime donne si domanda: vediamo perché costui vuole andare a letto con esse.
        Mi fu anche piú difficile di sopportare quello ch'egli credette di poter dire dei miei rapporti con Guido. Dal mio stesso racconto egli aveva appreso dell'antipatia che aveva accompagnato l'inizio della mia relazione con lui. Tale antipatia non cessò mai secondo lui e Ada avrebbe avuto ragione di vederne l'ultima manifestazione nella mia assenza dal suo funerale. Non ricordò ch'io ero allora intento nella mia opera d'amore di salvare il patrimonio di Ada, né io mi degnai di ricordarglielo.
        Pare che il dottore a proposito di Guido abbia fatte anche delle indagini. Egli asserisce che, scelto da Ada, egli non poteva essere quale io lo descrissi. Scoperse che un grandioso deposito di legnami, vicinissimo alla casa dove noi pratichiamo la psico-analisi, era appartenuto alla ditta Guido Speier e C. Perché non ne avevo io parlato?
        Se ne avessi parlato sarebbe stata una nuova difficoltà nella mia esposizione già tanto difficile. Quest'eliminazione non è che la prova che una confessione fatta da me in italiano non poteva essere né completa né sincera. In un deposito di legnami ci sono varietà enormi di qualità che noi a Trieste appelliamo con termini barbari presi dal dialetto, dal croato, dal tedesco e qualche volta persino dal francese (zapin p.e. e non equivale mica a sapin). Chi m'avrebbe fornito il vero vocabolario? Vecchio come sono avrei dovuto prendere un impiego da un commerciante in legnami toscano? Del resto il deposito legnami della ditta Guido Speier e C. non diede che delle perdite. Eppoi non avevo da parlarne perché rimase sempre inerte, salvo quando intervennero i ladri e fecero volare quel legname dai nomi barbari, come se fosse stato destinato a costruire dei tavolini per esperimenti spiritistici.
        Io proposi al dottore di prendere delle informazioni su Guido da mia moglie, da Carmen oppure da Luciano ch'è un grande commerciante noto a tutti. A mio sapere egli non s'indirizzò a nessuno di costoro e devo credere che se ne astenne per la paura di veder precipitare per quelle informazioni tutto il suo edificio di accuse e di sospetti. Chissà perché si sia preso di tale odio per me? Anche lui dev'essere un istericone che per aver desiderata invano sua madre se ne vendica su chi non c'entra affatto.
        Finí che mi sentii molto stanco di quella lotta che dovevo sostenere col dottore ch'io pagavo. Credo che anche quei sogni non m'abbiano fatto bene, eppoi la libertà di fumare quanto volevo finí con l'abbattermi del tutto. Ebbi una buona idea: andai dal dottor Paoli.
        Non l'avevo visto da molti anni. Era un po' incanutito, ma la sua figura di granatiere non era ancora troppo arrotondata dall'età, né piegata. Guardava sempre le cose con un'occhiata che pareva una carezza. Quella volta scopersi perché mi sembrasse cosí. Evidentemente a lui fa piacere di guardare e guarda le belle e le brutte cose con la compiacenza con cui altri accarezza.
        Ero salito da lui col proposito di domandargli se credeva dovessi continuare la psico-analisi. Ma quando mi trovai dinanzi a quel suo occhio, freddamente indagatore, non ne ebbi il coraggio. Forse mi rendevo ridicolo raccontando che alla mia età m'ero lasciato prendere ad una ciarlataneria simile. Mi spiacque di dover tacere, perché se il Paoli m'avesse proibita la psico-analisi, la mia posizione sarebbe stata semplificata di molto, ma mi sarebbe spiaciuto troppo di vedermi troppo a lungo carezzato da quel suo grande occhio.
        Gli raccontai delle mie insonnie, della mia bronchite cronica, di un'espulsione alle guancie che allora mi tormentava, di certi dolori lancinanti alle gambe e infine di strane mie smemoratezze.
        Il Paoli analizzò la mia orina in mia presenza. Il miscuglio si colorí in nero e il Paoli si fece pensieroso. Ecco finalmente una vera analisi e non piú una psico analisi. Mi ricordai con simpatia e commozione del mio passato lontano di chimico e di analisi vere: io, un tubetto e un reagente! L'altro, l'analizzato, dorme finché il reagente imperiosamente non lo desti. La resistenza nel tubetto non c'è o cede alla minima elevazione della temperatura e la simulazione manca del tutto. In quel tubetto non avveniva nulla che potesse ricordare il mio comportamento quando per far piacere al dottor S. inventavo nuovi particolari della mia infanzia che dovevano confermare la diagnosi di Sofocle. Qui, invece, tutto era verità. La cosa da analizzarsi era imprigionata nel provino e, sempre uguale a se stessa, aspettava il reagente. Quand'esso arrivava essa diceva sempre la stessa parola. Nella psico analisi non si ripetono mai né le stesse immagini né le stesse parole. Bisognerebbe chiamarla altrimenti. Chiamiamola l'avventura psichica. Proprio cosí: quando s'inizia una simile analisi è come se ci si recasse in un bosco non sapendo se c'imbatteremo in un brigante o in un amico. E non lo si sa neppure quando l'avventura è passata.
        In questo la psico-analisi ricorda lo spiritismo.
        Ma il Paoli non credeva che si trattasse di zucchero. Voleva rivedermi il giorno appresso dopo di aver analizzato quel liquido per polarizzazione.
        Io, intanto, me ne andai glorioso, carico di diabete. Fui in procinto di andare dal dottor S. a domandargli com'egli avrebbe ora analizzato nel mio seno le cause di tale malattia per annullarle. Ma di quell'individuo ne avevo avuto abbastanza e non volevo rivederlo neppure per deriderlo.
        Devo confessare che il diabete fu per me una grande dolcezza. Ne parlai ad Augusta ch'ebbe subito le lacrime agli occhi:
        - Hai parlato tanto di malattie in tutta la tua vita, che dovevi pur finire coll'averne una! - disse; poi cercò di consolarmi.
        Io amavo la mia malattia. Ricordai con simpatia il povero Copler che preferiva la malattia reale all'immaginaria. Ero oramai d'accordo con lui. La malattia reale era tanto semplice: bastava lasciarla fare. Infatti, quando lessi in un libro di medicina la descrizione della mia dolce malattia, vi scopersi come un programma di vita (non di morte!) nei varii suoi stadii. Addio propositi: finalmente ne ero libero. Tutto avrebbe seguito la sua via senz'alcun mio intervento.
        Scopersi anche che la mia malattia era sempre o quasi sempre molto dolce. Il malato mangia e beve molto e di grandi sofferenze non ci sono se si bada di evitare i bubboni. Poi si muore in un dolcissimo coma.
        Poco dopo il Paoli mi chiamò al telefono. Mi comunicò che non v'era traccia di zucchero. Andai da lui il giorno appresso e mi prescrisse una dieta che non seguii che per pochi giorni e un intruglio che descrisse in una ricetta illeggibile e che mi fece bene per un mese intero.
        - Il diabete le ha fatto molta paura? - mi domandò sorridendo.
        Protestai, ma non gli dissi che ora che il diabete m'aveva abbandonato mi sentivo molto solo. Non m'avrebbe creduto.
        In quel torno di tempo mi capitò in mano la celebre opera del dottor Beard sulla nevrastenia. Seguii il suo consiglio e cambiai di medicina ogni otto giorni con le sue ricette che copiai con scrittura chiara. Per alcuni mesi la cura mi parve buona. Neppure il Copler aveva avuto in vita sua tale abbondante consolazione di medicinali come io allora. Poi passò anche quella fede, ma intanto io avevo rimandato di giorno in giorno il mio ritorno alla psico-analisi.
        M'imbattei poi nel dottor S. Mi domandò se avevo deciso di lasciare la cura. Fu però molto cortese, molto piú che non quando mi teneva in mano sua. Evidentemente voleva riprendermi. Io gli dissi che avevo degli affari urgenti, delle quistioni di famiglia che mi occupavano e preoccupavano e che non appena mi fossi trovato in quiete sarei ritornato da lui. Avrei voluto pregarlo di restituirmi il mio manoscritto, ma non osai; sarebbe equivaluto a confessargli che della cura non volevo piú saperne. Riservai un tentativo simile ad altra epoca quand'egli si sarebbe accorto che alla cura non ci pensavo piú e vi si fosse rassegnato.
        Prima di lasciarmi egli mi disse alcune parole intese a riprendermi:
        - Se lei esamina il suo animo, lo troverà mutato. Vedrà che ritornerà subito a me solo che s'accorga come io seppi in un tempo relativamente breve avvicinarla alla salute.
        Ma io, in verità, credo che col suo aiuto, a forza di studiare l'animo mio, vi abbia cacciato dentro delle nuove malattie.
        Sono intento a guarire della sua cura. Evito i sogni ed i ricordi. Per essi la mia povera testa si è trasformata in modo da non saper sentirsi sicura sul collo. Ho delle distrazioni spaventose. Parlo con la gente e mentre dico una cosa tento involontariamente di ricordarne un'altra che poco prima dissi o feci e che non ricordo piú o anche un mio pensiero che mi pare di un'importanza enorme, di quell'importanza che mio padre attribuí a quei pensieri ch'ebbe poco prima di morire e che pur lui non seppe ricordare.
        Se non voglio finire al manicomio, via con questi giocattoli.
 


Nel rapporto di Zeno con il dottor S., lo psicanalista, si può cogliere
il rapporto di Svevo con la psicanalisi.  La Coscienza di Zeno non è " il romanzo di una cura psicanalitica", né stesura del diario - che sta alla base della struttura narrativa dell'opera - ha una funzione veramente terapeutica.

E' Zeno innanzitutto che, come voce narrante (
focalizzazione interna dell'intero romanzo ), si appropria di un significato particolarissimo di psicanalisi. Il dottor S. non osserva nessuna delle regole basilari di un trattamento psicanalitico.  La confessione scritta, imposta al paziente, non può essere uno strumento per far emergere l'inconscio, ma uno strumento della coscienza che impedisce proprio l'emergere delle ragioni più intime ed inconfessabili della personalità dell'autore. La scrittura, come abbandono alla memoria rivissuta ed al monologo interiore, è un modo per venire a patti con se stessi ed il proprio passato, per accettarsi pienamente, per mascherare ogni ragione profonda di conflitto interiore. Il rimosso viene liberamente reinterpretato nel filtro del ricordo ed esteticamente riproposto, come originale esperienza che veicola la creatività narrativa.

  La scrittura, sorvegliata dalla ragione è proprio l'opposto delle libere associazioni del metodo freudiano, è una forma di reticenza. Così il dottor S. è una pura proiezione dell'odio di Svevo per qualsiasi tentativo di intervenire terapeuticamente sulle presunte nevrosi, e per questo si riduce a oggetto di critica ironia
 Per Svevo
la malattia va protetta dalla guarigione, perché è fonte insostituibile di sublimazione artistica: se mancasse, verrebbero a mancare i materiali per scrivere. Una volta constatata l'assenza dell'autentica psicanalisi nel romanzo, proprio di lì può partire una sua lettura psicanalitica, da quelle resistenze che sono estremamente eloquenti.

Il critico Ettore Gioanola così, in un suo saggio critico, si esprime sul rapporto tra Svevo e la psicanalisi:

"Un altro aspetto dell'assurdità analitica della Coscienza, che fa del dottor S., assai più un prodotto delle fantasie del soggetto che della scienza freudiana, è la prescrizione della «confessione scritta», che nega completamente la regola primaria dell'analisi, quella delle libere associazioni.  Lo stesso Zeno mostra di accorgersi dell'assurdità di questa situazione (che del resto è quella che lo fa scrittore a nome del suo autore), anche se come al solito ribalta le responsabilità sul « ciarlatano » che gli ha imposto quello strano esercizio:     «Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda.  Dio mio!  Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto.  Una confessione in iscritto è sempre menzognera.  Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!  Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! E' proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi.  Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto». 
 

Blake Shelley Foscolo Manzoni 1 , 2 Leopardi Baudelaire
Rimbaud Mallarmé Freud D'Annunzio Pascoli Proust
Kafka Pirandello Svevo Ungaretti Montale Joyce

Pirandello - Soffio

I

         Certe notizie sopravvengono così inattese che si resta lì per lì sbalorditi, e dallo sbalordimento pare non si trovi piú modo a uscire se non ricorrendo a una delle frasi piú fruste o delle considerazioni piú ovvie.
         Per esempio, quando il giovane Calvetti, segretario del mio amico Bernabò, m'annunziò la morte improvvisa del padre del Massari, da cui poco prima Bernabò e io eravamo stati a colazione, mi venne d'esclamare: «Ah la vita cos'è! Basta un soffio a portarsela via»; e congiunsi il pollice e l'indice d'una mano per soffiarci su, come a far volare una piuma che tenessi tra quelle due dita.
         Vidi, a quel soffio, il giovane Calvetti farsi brusco in volto, poi piegare il busto e portarsi una mano al petto, come quando s'avverte dentro, e non si sa dove, un malessere indefinito; ma non ne feci caso, parendomi assurdo ammettere che quel malessere potesse dipendere dalla stupida frase che avevo detta e dal ridicolo gesto con cui, non contento d'averla detta, avevo anche voluto accompagnarla; pensai a qualche fitta o puntura ch'egli avesse avvertito, forse al fegato o al rene o agl'intestini, momentanea a ogni modo e senz'alcuna gravità. Senonché: prima di sera, mi piombò in casa costernatissimo Bernabò:
         - Sai che m'è morto Calvetti?
         - Morto?
         - All'improvviso, nel pomeriggio.
         - Ma se nel pomeriggio era qua da me! Aspetta, che ora poteva essere? Saranno state le tre.
         - E alle tre e mezzo è morto!
         - Mezz'ora dopo?
         - Mezz'ora dopo. -
         Lo guardai male, come se con quella conferma intendesse stabilire una relazione (ma quale?) tra la visita a me e la morte repentina del povero giovine. Ebbi come un impeto dentro, che mi forzò a respingere subito quella relazione, foss'anche fortuita, come un sospetto di rimorso che me ne potessi fare; e a trovare a quella morte una ragione estranea alla visita; e dissi al Bernabò dell'avvertimento improvviso del malessere che il giovine aveva avuto mentr'era ancora con me.
         - Ah sì? Un malessere?
         - La vita cos'è! Basta un soffio a portarsela via. -
         Ecco, ripetevo meccanicamente la frase perché, sotto sotto, il pollice e l'indice della mia mano destra s'eran toccati da sé, e da sé ora la mano, senza parere, mi si levava fino all'altezza delle labbra. Giuro che non fu tanto con la coscienza di darmi una riprova quanto piuttosto di fare a me stesso uno scherzo che solo così di nascosto, per non parer ridicolo, potevo fare: trovandomi quelle due dita davanti alla bocca, ci soffiai su, appena appena.
         Bernabò era alterato in volto per la morte di quel suo giovane segretario a cui era molto affezionato; e tante volte, dopo aver corso o soltanto affrettato un po' il passo, corpulento, sanguigno e quasi senza collo, m'era venuto avanti ansimando e s'era anche portata la mano al petto per calmare il cuore e riprender fiato ora, vedendogli fare quello stesso gesto e udendogli dire che si sentiva soffocare e occupar la mente e la vista come da una strana tenebra, che cosa, in nome di Dio, dovevo credere?
         Sull'istante, pur tutto smarrito e stravolto com'ero, mi gettai a soccorrere il povero amico piombato riverso e boccheggiante su una poltrona. Ma mi vidi respinto furiosamente; e allora finii per non comprendere proprio piú nulla; mi sentii come gelare in una attonita apatia, e stetti a vederlo sussultare su quella poltrona di velluto rosso, che mi parve tutta di sangue, sussultare non piú come un uomo ma come una bestia ferita, e smaniare il respiro, e diventare sempre piú pavonazzo, quasi nero. Faceva leva con un piede sul tappeto, forse per rizzarsi da sé, ma si sfiniva in quello sforzo; come nell'incubo di un sogno, vedevo il tappeto scivolargli sotto, arricciandosi. Sull'altra gamba, storta sul bracciuolo della poltrona, il calzone tirato gli aveva scoperto la giarrettiera di seta, d'un color verdolino a righino rosa. Domando un po' di considerazione per la mia carità: tutta la mia inquietudine era come schiantata e sparsa qua e là, tanto che poteva come niente dimenticarsi, a un volger d'occhi, o nel fastidio che avevo sempre avuto dei miei brutti quadri appesi alle pareti, o anche nella curiosità che mi tratteneva lo sguardo, ecco, sul colore e le righino di quella giarrettiera. Tutt'a un tratto però mi ripresi, inorridito di essermi potuto in tal momento alienare fino a tanto, e urlai al mio cameriere che volasse a fermare davanti alla porta una vettura, e poi su ad ajutarmi a trasportare l’agonizzante a un ospedale o a casa.
         Preferii a casa, perché piú vicino. Non abitava solo; aveva con sé una sorella, maggiore di lui, non so se vedova o vecchia zitella, insoffribile per la puntigliosa meticolosità con cui lo governava. Allibita, la poverina, con le mani nei capelli: «Oh Dio, che è stato? com'è stato?», e non voleva levarcisi dai piedi, che rabbia! per sapere da me che era stato, com'era stato, proprio da me e proprio in quel momento che non ne potevo piú, con tutte le scale che avevo fatte, salendo all'indietro, col peso enorme sulle braccia di quel corpo abbandonato. «Il letto! il letto!». Pareva non lo sapesse piú nemmeno lei, dove fosse il letto, a cui mi sembrò non s'arrivasse mai. Depostolo rantolante (ma rantolavo anch'io) mi buttai con le spalle, rifinito, a ridosso a una parete, e se non erano pronti a raccogliermi su una seggiola, cadevo giú tutto in un fascio sul pavimento. Col capo ciondolante, potei dire tuttavia al cameriere: «Un medico! un medico!»; ma mi ricaddero le braccia al pensiero che ora restavo solo con la sorella, che certo m'avrebbe aggredito con altre domande. Mi salvò il silenzio che d'improvviso si fece sul letto, cessato il rantolo. Parve, per un attimo, silenzio di tutto il mondo, per il povero Bernabò rimasto lì sordo e inerte su quel letto. Subito si levarono le disperazioni della sorella. Ero annichilito. Come immaginare, non dico credere, che una tale enormità fosse possibile? Le mie idee non potevano piú pigliar sesto. E in quello sconvolgimento mi pareva tanto curioso che quella poverina, suo fratello Giulio, come lo aveva sempre chiamato, ora ch'era lì morto, corpulenza immobile che non consentiva diminutivi, lo chiamasse proprio Giulietto! Giulietto! A un certo punto, scattai in piedi, esterrefatto. Il cadavere, come si fosse avuto a male di quel Giulietto! Giulietto! aveva risposto con un orribile brontolio dello stomaco. Toccò a me questa volta parar la sorella, che sarebbe cascata indietro a terra, svenuta dal terrore; mi svenne invece tra le braccia; e allora, tra lei svenuta e quel morto sul letto, senza piú saper che fare né che pensare, mi sentii preso in un vortice di pazzia e cominciai a scrollare quella poverina, perché la finisse con quello svenimento ch'era proprio di piú. Senonché, rinvenuta, non volle piú credere che il fratello fosse morto. «Ha sentito? Non dov'esser morto! Non può essere morto!» Bisognò venisse il medico ad accertarlo e ad assicurarla che quel brontolio non era stato nulla, un po' di vento o non so che altro, che quasi tutti i morti sogliono fare. Allora lei, ch'era linda e ci teneva, fece un viso angustiato e si parò gli occhi con la mano, come se il medico le avesse detto che anche lei da morta lo avrebbe fatto.
         Era quel medico uno di quei giovani calvi che portano quasi con dispettosa fierezza la loro precoce calvizie tra la violenza d'una selva di riccioli neri che, non si sa perché scomparsi dal sommo del capo, gremiscono poi tutt'intorno la testa. Con gli occhi di smalto armati da forti lenti da miope, alto, piuttosto grasso ma vigoroso, due cespuglietti di peli mozzati sotto il naso piccolo, le labbra tumide, accese e così ben segnate da parer dipinte, guardava con tal derisoria commiserazione l'ignoranza di quella povera sorella e parlava della morte con così disinvolta familiarità, quasi che avendo da fare di continuo con essa nessuno dei suoi casi gli potesse esser dubbio od oscuro, che alla fine un ghigno di scherno mi proruppe dalla gola irresistibilmente. Già mentre parlava, m'ero scorto per caso allo specchio dell'armadio e m'ero sorpreso con uno sguardo storto e freddo che subito m'era rientrato negli occhi strisciando come una serpe. E il pollice e l'indice della mia destra si premevano, si premevano così fortemente l'un contro l'altro, ch'eran come insorditi dallo spasimo della reciproca pressione. Appena egli a quel mio ghigno si voltò, gli mossi incontro, a petto, e, con la bocca atteggiata ancora di scherno nel pallore che mi aveva inteschiato il volto, gli sibilai: «Guardi», e gli mostrai le dita, «così! Lei che la sa così lunga sulla vita e la morte: ci soffi su, e veda se le riesce di farmi morire!». Si tirò indietro per squadrarmi, se non aveva da far con un pazzo. Ma io gli andai a petto di nuovo: «Basta un soffio, creda! basta un soffio!». Lasciai lui e afferrai per un polso la sorella. «Lo faccia lei! Ecco, così!», e le portai la mano alla bocca, «congiunga due dita e ci soffi su!». La poverina, con gli occhi sbarrati, atterrita tremava tutta: mentre il medico, senza piú pensare che lì sul letto c'era un morto, sghignazzava, divertito. «Non lo faccio piú io, su voi, perché già lì ce n'è uno, e due con Calvetti per oggi! Ma bisogna che me ne scappi, me ne scappi subito, me ne scappi!»
         E me ne scappai, davvero come un pazzo. Appena sulla via, la pazzia si scatenò. S'era già fatto sera, e la via era affollatissima. Sobbalzavano dall'ombra tutte le case ai lumi che s'accendevano, la gente correva per ripararsi la faccia dai guizzi di luce di tanti colori che l'assaltavano da ogni parte, fanali, riverberi di vetrine, insegne luminose, in un subbuglio assillato da oscuri sospetti. Benché no: ecco là, al contrario, una faccia di donna che s'allargava di contentezza al riflesso d'una luce rossa; e là quella d'un bimbo che rideva, tenuto alto sulle braccia da un vecchio, davanti allo specchio d'uno sporto di bottega che ruscellava d'un getto continuo di gocce smeraldine. Fendevo la calca e con le due dita davanti alla bocca soffiavo, soffiavo su tutte quelle facce sfuggenti, senza scelta e senza voltarmi indietro ad accertarmi se davvero quei miei soffi producevano l'effetto già due volte sperimentato. Se lo producevano, chi avrebbe potuto attribuirlo a me? Non ero padrone di tenere quelle due dita davanti alla bocca e di soffiarci su per un mio innocente piacere? Chi poteva credere sul serio che un potere così inaudito e terribile mi fosse venuto in quelle due dita e nel soffio che emettevo appena su esse? Era ridicolo ammetterlo e poteva passare soltanto come uno scherzo puerile. Io scherzavo, ecco. E mi s'era già insugherita in bocca la lingua a furia di soffiare, e non avevo quasi piú fiato tra le labbra appuntite, arrivato in fondo alla via. Se ciò che avevo sperimentato due volte era vero, eh perdio, dovevo avere ucciso, così scherzando scherzando, piú d'un migliajo di persone. Non era possibile che il giorno dopo non si venisse a sapere, con terrore di tutta la città, di quella mortalità improvvisa e misteriosa.
         Si venne difatti a sapere. Tutti i giornali, la mattina dopo, ne furono pieni. La città si svegliò sotto l'incubo tremendo d'una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecento sedici morti in una sola notte. Nel cimitero non si sapeva come riparare a seppellirli; non si sapeva come riparare a portarli via tutti dalle case. Sintomi comuni accertati dai medici in tutti i colpiti, dapprima l'avvertimento d'un malessere indefinito, poi la soffocazione. Dall'autopsia dei cadaveri, nessun indizio del male che aveva cagionato la morte quasi istantanea.
         Restai, leggendo quei giornali, in preda a uno sgomento ch'era come lo sconcerto d'una orribile ubriachezza, confusione d'aspetti indistinti che s'avventavano, si sbattevano aggirati nel volume d'una nuvola che m'avvolgeva vorticosa; e un'ansia inesplicabile, un fremito pungente che urtava, urgeva contro qualcosa dentro che mi restava nero e immobile e a cui la mia coscienza, attratta ma tutta irta e in procinto di sbandarsi da ogni parte, si rifiutava d'accostarsi, toccava e subito se ne distaccava. Non so propriamente che cosa volessi esprimere, strizzandomi con una mano convulsa la fronte e ripetendo: «È un'impressione! è un'impressione!». Fatto si è che la parola, pur così vuota, m'ajutò a squarciare d'un lampo quella nuvola, e mi sentii per un momento sollevato, liberato. «Dev'esser tutta pazzia», pensai, «che m'è entrata nel capo per essermi trovato jeri a far quel gesto ridicolo e puerile prima che la calamità si dichiarasse di quest'epidemia piombata così di colpo sulla città. Sogliono spesso nascere da siffatte coincidenze le piú sciocche superstizioni e le fissazioni piú incredibili. Del resto, per liberarmene non ho che da aspettar qualche giorno senza piú ripetere lo scherzo di questo gesto. Se è epidemia, come certo dov'essere questa spaventosa mortalità deve seguitare e non cessar così di colpo come è cominciata.»
         Bene; aspettai tre giorni, cinque giorni, una settimana, due settimane: nessun nuovo caso fu segnalato dai giornali: l'epidemia era di colpo cessata.
         Eh, ma pazzo no, domando scusa, nella ossessione di un simile dubbio, ch'io potessi esser pazzo, non potevo restare; pazzo, d'una pazzia che, a dichiararla, avrebbe fatto scoppiare chiunque dalle risa, no, via. Da una tale ossessione bisognava pur che mi levassi al piú presto. E come? Rimettendomi a soffiar sulle dita? Si trattava di vite umane. Bisognava che fossi anche convinto che il mio atto era per se stesso innocente, da bambino, e che se gli altri ne morivano, non era colpa mia. Avrei sempre potuto credere a una ripresa della epidemia, dopo quella pausa di quindici giorni, poiché fino all'ultimo dovevo ritenere incredibile che la morte potesse dipendere da me. Ma intanto la tentazione diabolica d'acquistare una simile certezza, ben piú terribile del dubbio che potessi esser pazzo, la certezza di sapermi dotato d'un così inaudito potere: come resistere a una tale tentazione?

II

         Dovevo concedermi di fare ancora una prova, ma timida e cautelosa; una prova quanto piú fosse possibile «giusta». La morte, si sa, non è giusta. Quella che dipendeva da me (se dipendeva da me) doveva esser giusta.
         Conoscevo una cara bambina che, mentre giocava con le sue bambole, uscendo da un sogno per entrare in un altro, tutti diversi l'uno dall'altro, questo che la portava a un villaggio sul monte e quello che la portava a una spiaggia di mare, e poi dal mare a un paese lontano lontano, dov'era altra gente che parlava una lingua tutt'altra dalla sua, alla fine da tutti quei sogni s'era svegliata ancora bambina a vent'anni, ma proprio bambina bambina, con uno accanto che, appena uscito dall'ultimo di quei sogni, si era subito trasformato nella realtà di un omaccio straniero, in uno stangone alto due metri, stupido, infingardo e vizioso; e tra le braccia, invece della bambola, s'era trovato un povero esserino, che non si poteva dire un mostriciattolo perché aveva pure un visino d'angelo malato, quando la continua convulsione, a cui tutto il corpicciuolo era in preda, non gli deformava anche quello, orribilmente. «Morbo di...», non so, il nome di un medico straniero, inglese o americano, Pot mi pare seppur si scrive così (cara gloria, dare a un morbo il proprio nome!), «morbo di Pot» in una delle sue forme piú gravi e senza rimedio. Quel bimbo non avrebbe mai parlato, mai camminato, né mai si sarebbe servito di quelle sue manine scarnite e scontorte dalla violenza degli spasimi atroci. Avrebbe potuto tirare così ancora per anni. Ne aveva tre? Forse fino a dieci. Eppure, non pareva vero, tra le braccia di qualcuno che avesse imparato a reggerlo bene come quello stangone del padre, appena poteva, in qualche momento di tregua, il povero bimbo sorrideva d'un sorriso così beato in quel suo visino d'angelo, che subito, cessato l'orrore per quei contorcimenti, la più tenera compassione faceva sgorgare le lagrime dagli occhi di quanti stavano a guardarlo. Pareva impossibile che solo i medici non capissero che cosa chiedeva il bimbo con quel sorriso. Ma forse lo capivano, perché avevano già dichiarato che certamente era uno del casi davanti a cui non ci sarebbe stato da esitare, se la legge lo avesse permesso e ci fosse stato il consenso dei parenti. La legge è legge, perché crudele può essere, come spesso è, ma pietosa no, se non a costo di finire d'esser legge.
         Io dunque mi presentai a quella madre.
         La stanza dov'ella m'accolse era invasa dall'ombra e si vedevano come lontane le due finestre velate sul livido barlume dell'ultimo crepuscolo. Seduta sulla poltrona a piè del lettino, la madre reggeva tra le braccia il bimbo convulso. Io mi chinai su lui, senza dir nulla, con le dita davanti alla bocca. Il bimbo, al mio soffio, sorrise e spirò. Come la madre, abituata alla continua tensione spasmodica e guizzante di quel corpicciuolo, se lo sentì quasi sciolto d'improvviso tra le braccia e molle, rattenne un grido, alzò il capo a guardarmi, guardò il bimbo:
         - Oh Dio, che gli hai fatto?
         - Niente, hai visto, appena un soffio
         - Ma è morto!
         - Ora è beato. -
         Glielo levai dalle braccia e lo deposi così tutto sciolto e molle sul lettino, col suo sorriso d'angelo ancora sulla boccuccia pallida.
         - Tuo marito dov'è? Di là? Ti libero anche di lui. Non ha piú ragione d'opprimerti. Ma poi tu resta sempre a sognare, bambina. Vedi che si guadagna a uscire dai sogni? -
         Non ci fu bisogno che andassi in cerca del marito. Si presentò, come un gigante sbalordito, sulla soglia. Ma nell'esaltazione che mi dava la terribile certezza ormai acquisita, io mi sentivo già smisuratamente cresciuto, molto piú alto di lui. «La vita che cos'è! Guarda, basta un soffio, così, a portarsela via!». E, soffiatogli sul viso, uscii da quella casa, ingigantito nella sera.
         Ero io, ero io; la morte ero io; la avevo lì, nelle due dita e nel fiato; potevo far morire tutti. Per esser giusto verso quelli che avevo fatto morire prima, non dovevo ora far morire tutti? Non ci voleva nulla, purché mi fosse bastato il fiato. Non l'avrei fatto per odio di nessuno; non conoscevo nessuno. Come la morte. Un soffio, e via. Quanta umanità, prima di questa che ora mi passava ombra davanti, era stata soffiata via? Ma potevo mai tutta l'umanità? disabitare tutte le case? tutte le strade di tutte le Città? e le campagne e i monti e i mari? disabitare tutta la terra? Non era possibile. E allora no, non dovevo piú nessuno, piú nessuno. Dovevo forse mozzarmi quelle due dita. Ma chi sa se non sarebbe bastato il solo fiato. Dovevo provare? No, no: basta! Mi sentivo raccapricciare, al solo pensiero, da capo a piedi. Forse bastava il soffio soltanto. Come impedirmelo? Come vincere la tentazione? Una mano sulla bocca? Potevo condannarmi a star sempre con una mano sulla bocca?
         Così farneticando, m'avvenne di passare davanti al portone dell'ospedale, spalancato. Nell'androne, erano alcuni infermieri, lì di guardia per il pronto soccorso, che conversavano con due questurini e col vecchio portinajo; e sulla soglia, intento a guardar nella strada, sta va col lungo camice di servizio e le mani sui fianchi quel giovane medico accorso al letto di morte del povero Bernabò. Come mi vide passare, forse per i gesti che facevo in quel mio farneticare, mi riconobbe e si mise a ridere. Non l'avesse mai fatto! Mi fermai; gli gridai: «Non mi cimenti in questo momento col suo sciocco sorriso! Sono io, sono io; l'ho qua», e gli mostrai di nuovo le dita congiunte, «forse nel soffio soltanto! Ne vuoi fare la prova davanti a questi signori?». Sorpresi e incuriositi, gl'infermieri, i due questurini e il vecchio portinajo s'erano appressati. Col sorriso rassegnato sulle labbra che parevano dipinte e senza levarsi le mani dai fianchi, quello sciagurato non si contentò di pensarlo, questa volta, osò dirmi, scrollando le spalle: «Ma lei è pazzo!». «Sono pazzo?» incalzai. «L'epidemia è cessata da quindici giorni. Vuoi vedere che la riattizzo e la faccio divampare in un momento, spaventosamente?». «Soffiandosi sulle dita?». Le risa fragorose che seguirono a questa domanda del dottore mi fecero vacillare. Avvertii che non avrei dovuto lasciarmi prendere dalla irritazione per l'avvilimento del ridicolo che quel mio gesto, appena fatto palese, inevitabilmente m'attirava. Nessuno, fuor che io, poteva credere sul serio ai suoi terribili effetti. Ma l'irritazione tuttavia mi vinse, come il bruciore d'un bottone di fuoco sulla carne viva, sentendo quel ridicolo quasi un marchio di scherno che la morte avesse voluto imprimermi concedendomi quell'incredibile potere. S'aggiunse a questo, come una sferzata, la domanda del giovane medico: «Chi le ha detto che l'epidemia è cessata?». Restai. Non era cessata? Mi sentii avvampare di vergogna le guance. «I giornali» dissi «non han piú segnalato alcun caso». «I giornali», ribatté quello, «ma non noi, qua all'ospedale.. «Ancora casi». «Tre o quattro al giorno». «E lei è sicuro che siano dello stesso male?». «Ma sì, caro signore, sicurissimo. Così si riuscisse a veder chiaro nel male! Risparmi, risparmi il suo fiato». Gli altri tornarono a ridere. «Sta bene», dissi allora. «Se è così, io sono un pazzo e lei non avrà paura a offrirmene una prova. S'assume la responsabilità anche per questi altri cinque signori?». Il giovane medico, di fronte alla mia sfida, restò un momento perplesso; ma poi il sorriso gli ritornò sulle labbra: si volse a quei cinque: «Avete inteso? il signore presume che gli basta soffiarsi appena sulle dita per farci morire tutti quanti. Ci state? Io ci sto». Quelli esclamarono a coro, sghignazzando: «Ma sì, soffi, soffi, ci stiamo anche noi, eccoci qua!». E mi si misero tutt'e sei in fila davanti, coi volti protesi. Pareva una scena di teatro in quell'androne d'ospedale, sotto la lanterna rossa dei pronto soccorso. Erano certi d'aver da fare con un pazzo. Ormai non potevo piú tirarmi indietro. «È l'epidemia, caso mai, non sono io, eh?». E per esser piú sicuro, congiunsi come al solito le due dita davanti alla bocca. Al soffio, tutt'e sei, uno dopo l'altro, s'alterarono in viso; tutt'e sei si piegarono sul busto; tutt'e sei si portarono una mano al petto, guardandosi l'un l'altro negli occhi infoscati. Poi uno dei questurini mi saltò addosso, attanagliandomi il polso; ma subito si sentì soffocare, mancar le gambe, mi cadde ai piedi come a implorarmi ajuto. Gli altri, chi vagellava, chi annaspava con le braccia, chi era restato con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Istintivamente, col braccio libero feci per parare il giovane medico che s'abbatteva su me; ma anche lui, come già Bernabò, mi respinse furiosamente, e traboccò a terra con un gran tonfo. Una frotta di gente, che a mano a mano diventava folla, s'era intanto raccolta davanti al portone. I curiosi, di fuori, spingevano, mentre gli sgomenti rinculavano dalla soglia e pigiavano in mezzo agli ansiosi che volevano vedere che cosa stesse accadendo in quell'androne. Lo domandavano a me, come a uno che lo dovesse sapere, forse perché il mio volto non esprimeva né la curiosità, né l'ansia, né lo sgomento che erano in loro. Che aspetto avessi, non potrei dirlo; mi sentivo in quel momento come uno sperduto, d'improvviso assaltato da una muta di cani. Non vedevo altro scampo che nel mio gesto puerile. Dovevo aver negli occhi una espressione di paura e insieme di pietà per quei sei caduti e per tutti coloro che mi stavano intorno; fors'anche sorridevo dicendo a questo e a quello nel farmi largo: «Basta un soffio... così... così»; mentre da terra il giovane medico, testardo sino alla fine, gridava contorcendosi: «L'epidemia! L'epidemia!». Fu una fuga generale; e io mi vidi ancora per poco in mezzo a tutta quella gente che correva spaventata e all'impazzata, andare, io solo, a passo, ma come un ubriaco che parlasse tra sé, dolce e appenato; finché mi trovai, non so come, innanzi a uno specchio di bottega, sempre con quelle due dita davanti alla bocca e nell'atto di soffiare «...così... così...», forse per dare una prova dell'innocenza di quell'atto, mostrando che, ecco, lo facevo anche su di me, nel solo modo che mi fosse possibile. M'intravidi per un attimo appena in quello specchio, con occhi che io stesso non sapevo piú come guardarmeli, così cavati dentro Com'erano nella faccia da morto; poi, come se il vuoto mi avesse inghiottito, o colto una vertigine, non mi vidi piú; toccai lo specchio, era lì, davanti a me, lo vedevo e io non c'ero; mi toccai, la testa, il busto, le braccia; mi sentivo sotto le mani il corpo, ma non me lo vedevo piú e neanche le mani con cui me lo toccavo; eppure non ero cieco; vedevo tutto, la strada, la gente, le case, lo specchio; ecco, lo ritoccavo, m'appressavo a cercarmi in esso; non c'ero, non c'era nemmeno la mano che pur sentiva sotto le dita il freddo della lastra; un impeto mi prese, frenetico, di cacciarmi in quello specchio in cerca della mia immagine soffiata via, sparita; e mentre stavo così contro la lastra, uno, uscendo dalla bottega, m'investì e subito lo vidi balzare indietro inorridito e con la bocca aperta a un grido da pazzo che non gli usciva dalla gola: s'era imbattuto in qualcuno che doveva esser lì, e non c'era, non c'era nessuno: insorse in me allora prepotente il bisogno d'affermare che c'ero; parlai come nell'aria; gli soffiai nel volto: «L'epidemia!» e con una manata in petto lo abbattei. Intanto la via, messa in subbuglio da coloro che prima erano fuggiti e che ora, con visi da spiritati, tornavano indietro, certo concitando tutti in cerca di me, s'empiva di gente che da ogni parte rampollava, strabocchevole, come un fumo denso di facce cangianti che mi soffocava, vaporandosi quasi nel delirio d'un sogno spaventoso; ma pur pigiato tra quella calca, potevo andare, aprirmi un solco col soffio sulle mie dita invisibili. «L'epidemia! l'epidemia». Non ero piú io; ora finalmente lo capivo: ero l'epidemia, e tutte larve, ecco, tutte larve le vite umane che un soffio portava via. Quanto durò quell'incubo? Tutta la notte e parte del giorno appresso stentai a uscire da quella calca, e liberato alla fine anche dallo stretto delle case della città orrenda, mi sentii nell'aria della campagna aria anch'io. Tutto era dorato dal sole; non avevo corpo, non avevo ombra; il verde era così fresco e nuovo che pareva spuntato or ora dal mio estremo bisogno d'un refrigerio, ed era così mio, che mi sentivo toccare in ogni filo d'erba mosso dall'urto d'un insetto che veniva a posarsi; mi provavo a volare col volo quasi di carta, distaccato, di due farfalle bianche in amore; e come se veramente ora fosse uno scherzo, ecco, un soffio e via, e le ali distaccate di quelle farfalle cadevano lievi nell'aria come pezzi di carta; piú là, su un sedile guardato da oleandri, sedeva una giovinetta vestita d'un abito di velo celeste, con un gran cappello di paglia guarnito di roselline; batteva le ciglia; pensava, sorridendo d'un sorriso che me la rendeva lontana come un'immagine della mia giovinezza; forse non era altro veramente che una immagine rimasta lì della vita, sola ormai sulla terra. Un soffio e via! Intenerito fino all'angoscia da tanta dolcezza, rimanevo lì invisibile, con le mani afferrate e trattenendo il respiro, a mirarla da lontano; e il mio sguardo era l'aria stessa che la carezzava senza che lei se ne sentisse toccare.

 

Pirandello - Di sera un geranio


         S'è liberato nel sonno, non sa come: forse come quando s'affonda nell'acqua, che si ha la sensazione che poi il corpo riverrà su da sé, e su invece riviene solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giú.
         Dormiva, e non è piú nel suo corpo; non può dire che si sia svegliato; e in che cosa ora sia veramente, non sa; è come sospeso a galla nell'aria della sua camera chiusa.
         Alienato dai sensi, ne serba piú che gli avvertimenti il ricordo, com'erano; non ancora lontani ma già staccati: là l'udito, dov'è un rumore anche minimo nella notte; qua la vista, dov'è appena un barlume; e le pareti, il soffitto (come di qua pare polveroso) e giú il pavimento col tappeto, e quell'uscio, e lo smemorato spavento di quel letto col piumino verde e le coperte giallognole, sotto le quali s'indovina un corpo che giace inerte; la testa calva, affondata sui guanciali scomposti; gli occhi chiusi e la bocca aperta tra i peli rossicci dei baffi e della barba, grossi peli, quasi metallici; un foro secco, nero; e un pelo delle sopracciglia così lungo, che se non lo tiene a posto, gli scende sull'occhio.
         Lui, quello! Uno che non è piú. Uno a cui quel corpo pesava già tanto. E che fatica anche il respiro! Tutta la vita, ristretta in questa camera; e sentirsi a mano a mano mancar tutto, e tenersi in vita fissando un oggetto, questo o quello, con la paura d'addormentarsi. Difatti poi, nel sonno...
         Come gli suonano strane, in quella camera, le ultime parole della vita:
         - Ma lei è di parere che, nello stato in cui sono ridotto, sia da tentare un'operazione così rischiosa?
         - Al punto in cui siamo, il rischio veramente...
         - Non è il rischio. Dico se c'è qualche speranza.
         - Ah, poca.
         - E allora... -
         La lampada rosea, sospesa in mezzo alla camera, è rimasta accesa invano.


         Ma dopo tutto, ora s'è liberato, e prova per quel suo corpo là, piú che antipatia, rancore. Veramente non vide mai la ragione che gli altri dovessero riconoscere quell'immagine come la cosa piú sua.
         Non era vero. Non è vero.
         Lui non era quel suo corpo; c'era anzi così poco; era nella vita lui, nelle cose che pensava, che gli s'agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori senza piú vedere se stesso. Case strade cielo. Tutto il mondo.
         Già, ma ora, senza piú il corpo, è questa pena ora, è questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa, a cui, per tenersi, torna a aderire ma, aderendovi, la paura di nuovo, non d'addormentarsi, ma del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza piú lui: oggetto: orologio sul comodino, quadretto alla parete, lampada rosea sospesa in mezzo alla camera.
         Lui è ora quelle cose; non piú com'erano, quando avevano ancora un senso per lui; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso e che ora dunque non sono piú niente per lui.
         E questo è morire.
         Il muro della villa. Ma come, n'è già fuori? La luna vi batte sopra; e giú è il giardino.
         La vasca, grezza, è attaccata al muro di cinta. Il muro è tutto vestito di verde dalle roselline rampicanti.
         L'acqua, nella vasca, piomba a stille. Ora è uno sbruffo di bolle. Ora è un filo di vetro, limpido, esile, immobile.
         Come chiara quest'acqua nel cadere! Nella vasca diventa subito verde, appena caduta. E così esile il filo, così rade a volte le stille che a guardar nella vasca il denso volume d'acqua già caduta è come un'eternità di oceano.
         A galla, tante foglioline bianche e verdi, appena ingiallite. E a fior d'acqua, la bocca del tubo di ferro dello scarico, che si berrebbe in silenzio il soverchio dell'acqua, se non fosse per queste foglioline che, attratte, vi fan ressa attorno. Il risucchio della bocca che s'ingorga è come un rimbrotto rauco a queste sciocche frettolose frettolose a cui par che tardi di sparire ingojate, come se non fosse bello nuotar lievi e così bianche sul cupo verde vitreo dell'acqua. Ma se sono cadute! se sono così lievi! E se ci sei tu, bocca di morte, che fai la misura!
         Sparire.
         Sorpresa che si fa di mano in mano piú grande, infinita: l'illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e che invece non c'erano; suoni, colori, non c'erano; tutto freddo, tutto muto; era niente; e la morte, questo niente della vita com'era. Quel verde... Ah come, all'alba, lungo una proda, volle esser erba lui, una volta, guardando i cespugli e respirando la fragranza di tutto quel verde così fresco e nuovo! Groviglio di bianche radici vive abbarbicate a succhiar l'umore della terra nera. Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra! Ma ora lui è come la fragranza di un'erba che si va sciogliendo in questo respiro, vapore ancora sensibile che si dirada e vanisce, ma senza finire, senz'aver piú nulla vicino; sì, forse un dolore; ma se può far tanto ancora di pensarlo, è già lontano, senza piú tempo, nella tristezza infinita d'una così vana eternità.
         Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O anche un fiore che duri poco: ecco, questo geranio...

         - Oh guarda giú, nel giardino, quel geranio rosso. Come s'accende! Perché?

         Di sera, qualche volta, nei giardini s'accende così, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione.

 

 

da http://www.repubblicaletteraria.net/LuigiPirandello_RaccontoFantastico.html

Seguendo le indicazioni di Tsvetan Todorov sulle caratteristiche della letteratura fantastica, cerchiamo di mettere in evidenza, i segni di riconoscimento del genere fantastico.
Innanzitutto
si tenta di descrivere il superamento del limite, cioè delle norme riconosciute e codificate dalla ragione umana. In Di sera un geranio si descrive la progressiva perdita d’identità che avviene dopo la morte. Il racconto è arricchito da quel particolare aumento di senso proprio di tutti i finali, appartenendo all’ultimo periodo creativo dello scrittore, quasi un estremo messaggio ai lettori.

Il racconto Di sera, un geranio è assai breve (poco più di due pagine). In esso il narratore, che non si qualifica ma emerge qua e là con il suo punto di vista, descrive in terza persona la morte, intesa come progressiva metamorfosi, come disgregazione di identità. Non si tratta di un graduale avvicinamento al fantastico.
Fino dalla prima frase infatti, siamo nel fantastico, in una situazione surreale, onirica. S’è liberato nel sonno, non sa come, forse come quando s’affonda nell’acqua [...] non sa, è come sospeso a galla nell’aria [...] è come la fragranza di un’erba che si va sciogliendo [...]. Notiamo l’uso delle modalizzazioni - cioè dell’insistere delle parole non sa -  e delle similitudini. Il racconto ha un intreccio assai lieve, con appena un’ombra di dialogo, con un accenno a vicende e pensieri di un passato evocato come fluttuando nel tempo.

Dopo la morte-liberazione, Pirandello parla di un disgregarsi, diffondersi in ogni cosa, svanire nelle cose che restano là senza più lui. Si tratta cioè della progressiva abolizione del confine tra soggetto e oggetto, tra materia e spirito, mentre si delinea anche una dilatazione del tempo e dello spazio. Passato e presente si confondono ambiguamente, fino a disperdersi in un presente indefinito: [...] lui è ora quelle cose, non più com’erano, quando  avevano un senso, quelle cose non sono più niente [ ...] e questo è morire [] sparire.

Anche lo spazio si è dilatato. Come in un’esperienza mistica, il corpo ha superato la barriera del peso, le leggi della gravità: levita nell’aria, è sospeso come un’ombra galleggiante, è in alto, qua, là, fuori della camera; la luna è in alto e giù il giardino. Si delinea un’opposizione alto-basso come contrapposizione di spirito a materia, perché la vita è di terra, è giù nelle bianche radici che succhiano la vita nella terra nera. Ci sembra di riconoscere le tematiche dell’io di cui parla Todorov ed a queste ci riporta anche il predominio del senso della vista. Gli occhi percorrono le cose con minuzia naturalistica, nonostante l’irrealtà della situazione: le pareti, il soffitto polveroso, il piumino verde, le coperte giallognole, la testa calva, la vasca verde, le roselline, le bolle d’acqua chiara, le foglioline bianche e verdi, il tubo di ferro, con percezione articolata di forme e colori.

Proprio riferendosi alla vista, si evidenzia la situazione rovesciata della morte rispetto alla vita. In vita guardare significava vivere, ora invece guardare significa morire. Da vivo egli fissava gli oggetti per non addormentarsi, per tenersi in vita; ma ora aderire con la vista alle cose significa svanire nelle cose stesse, diventare oggetto, perché non c’è più un io che dà senso alle cose e quindi tutto diventa freddo e muto. Abbiamo dunque una metamorfosi, una sorta di dispersione panica; ma questo annullamento dovuto alla perdita d’identità, non è senza pena.

La situazione di partenza del racconto è infatti caratterizzata dal verbo liberarsi, ripetuto e quindi caricato di un senso di gioia per l’uscita dal carcere della vita (vedi anche il titolo dell’atto unico di Pirandello All’uscita, di argomento fantastico). Invece gli enunciati successivi esprimono una sensazione opposta: Già, ma ora senza il corpo è questa pena ora, questo sgomento, la paura di svanire e, più tardi, egli parla della tristezza infinita, di una così vana eternità.

L’ultimo anelito è infatti un desiderio di consistenza. Consistere ancora in una cosa, quasi niente, un fiore che duri poco, ecco questo geranio [...] guarda giù nel giardino quel geranio rosso.

Questo, quello sono gli ultimi indicatori di definizione individuale. Successivamente, gli indicatori diventano indefiniti: Di sera, qualche volta, nei giardini, s’accende così improvvisamente qualche fiore e nessuno sa spiegarsene la ragione.

Le espressioni indefinite creano un’atmosfera di vastità cosmica, mentre passa un brivido di esitazione che coinvolge per un attimo narratore e lettori.

 

Prima pagina, presentazione