3
Il fumo
Il dottore al quale ne parlai mi
disse d'iniziare il mio lavoro con un'analisi storica della mia propensione
al fumo:
- Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero.
Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz'andar a
sognare su quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l'assistenza
delle sigarette tutte tanto somiglianti a quella che ho in mano.
Oggi scopro subito qualche cosa che piú non
ricordavo. Le prime sigarette ch'io fumai non esistono piú in commercio.
Intorno al '70 se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in
scatoline di cartone munite del marchio dell'aquila bicipite.
Ecco: attorno a una di quelle scatole s'aggruppano
subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene
il nome, non bastevole però a commovermi per l'impensato incontro.
Tento di ottenere di piú e vado alla poltrona: le
persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono.
Ritorno sconfortato al tavolo.
Una delle figure, dalla voce un po' roca, era Giuseppe, un
giovinetto della stessa mia età, e l'altra, mio fratello, di un anno di me
piú giovine e morto tanti anni or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto
denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono certo che
ne offriva di piú a mio fratello che a me. Donde la necessità in cui mi
trovai di procurarmene da me delle altre. Cosí avvenne che rubai. D'estate
mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui
taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi
occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l'altra
le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il
compromettente frutto del furto.
Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge
solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho
registrata l'origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già
guarito. Perciò, per provare, accendo un'ultima sigaretta e forse la getterò
via subito, disgustato.
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in
mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi
disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia
cura) gli dissi che m'era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio
padre rise delle mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non
s'avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto. A mio onore posso
dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand'essa non esisteva
piú, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè... rubai ancora, ma senza
saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia fumati a mezzo,
in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli via e
credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li buttasse
via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all'atto d'impadronirmene venivo
pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m'avrebbero
procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori
freddi e il mio stomaco si contorcesse. Non si dirà che nella mia infanzia
io mancassi di energia.
So perfettamente come mio padre mi guarì anche di quest'abitudine.
Un giorno d'estate ero ritornato a casa da un'escursione scolastica, stanco
e bagnato di sudore. Mia madre m'aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in
un accappatoio, m'aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa
sedette occupata a certo lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo
gli occhi tuttavia pieni di sole e tardavo a perdere i sensi. La dolcezza
che in quell'età s'accompagna al riposo dopo una grande stanchezza, m'è
evidente come un'immagine a sé, tanto evidente come se fossi adesso là
accanto a quel caro corpo che piú non esiste.
Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che
ora, in questi tempi avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena
mio fratello non appare, ciò che mi sorprende perché penso ch'egli pur deve
aver preso parte a quell'escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al
riposo. Che abbia dormito anche lui all'altro capo del grande sofà? Io
guardo quel posto, ma mi sembra vuoto. Non vedo che me, la dolcezza del
riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui sento echeggiare le parole. Egli
era entrato e non m'aveva subito visto perché ad alta voce chiamò:
- Maria!
La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale
accennò a me, ch'essa credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in
piena coscienza. Mi piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo
per me, che non mi mossi.
Mio padre con voce bassa si lamentò:
- Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato
mezz'ora fa su quell'armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo piú. Sto
peggio del solito. Le cose mi sfuggono.
Pure a voce bassa, ma che tradiva un'ilarità trattenuta solo dalla
paura di destarmi, mia madre rispose:
- Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza.
Mio padre mormorò:
- È perché lo so anch'io, che mi pare di diventar matto!
Si volse ed uscì.
Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s'era rimessa
al suo lavoro, ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre
stesse per ammattire per sorridere cosí delle sue paure. Quel sorriso mi
rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle
labbra di mia moglie.
Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di
soddisfare il mio vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo.
Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili.
Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato
per una mezz'ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui
non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: Due paia di
calzoncini che stanno in piedi perché dentro c'è stato un corpo che il tempo
eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare
di piú nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi
derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all'aria. Dovetti
chiudere gli occhi per non cadere stordito.
Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi
disse allora:
- A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto
m'occorre.
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch'essa
che a me doveva essere rivolta in quel momento.
Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo
sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare
tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent'anni circa. Allora soffersi per
qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il
dottore prescrisse il letto e l'assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa
parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì: Un vuoto grande e
niente per resistere all'enorme pressione che subito si produce attorno ad
un vuoto.
Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti
anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi
compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla
mia fronte scottante, mi disse:
- Non fumare, veh!
Mi colse un'inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non
fumerò mai piú, ma prima voglio farlo per l'ultima volta». Accesi una
sigaretta e mi sentii subito liberato dall'inquietudine ad onta che la
febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un
bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la
sigaretta con l'accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo
orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e
veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch'egli se ne andasse
presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche
di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo
di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll'essere piene di
sigarette e di propositi di non fumare piú e, per dire subito tutto, di
tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi
a vent'anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia
debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si
sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche
tempo io fumo molte sigarette... che non sono le ultime.
Sul frontispizio di un vocabolario trovo
questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato:
«Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di
chimica. Ultima sigaretta!!».
Era un'ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze
che l'accompagnarono. M'ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva
tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch'è la vita stessa benché
ridotta in un matraccio. Quell'ultima sigaretta significava proprio il
desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non
credevo ritornai alla legge.
Pur troppo! Fu un errore e fu anch'esso registrato da un'ultima
sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante
anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio,
del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene
del carbonio. M'ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia
deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a
fumare come un turco?
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io
forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa
della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo
ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio
vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una
grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza
giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che
nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e
da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come
quell'igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di
esser vissuto malato tutta la vita?
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far
tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di
date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta
il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo piú possibile di formarne
in quel luogo degli altri.
Penso che la sigaretta abbia un gusto piú intenso quand'è l'ultima.
Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L'ultima
acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la
speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro
importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di
forza e di salute permane, ma va un po' piú lontano.
Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori piú
varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede piú ingenua,
trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far
impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da
me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una
data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere
il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del 1899». Significativa nevvero?
Il secolo nuovo m'apportò delle date ben altrimenti musicali: «Primo giorno
del primo mese del 1901». Ancor oggi mi pare che se quella data potesse
ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.
Ma nel calendario non mancano le date e con un po' d'immaginazione
ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché
mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente:
«Terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra
raddoppiasse la posta.
L'anno 1913 mi diede un momento d'esitazione. Mancava il tredicesimo
mese per accordarlo con l'anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi
in una data per dare rilievo ad un'ultima sigaretta.
Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano
per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905
ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega
la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla
nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito
ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli
anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!
Per diminuirne l'apparenza balorda tentai di dare un contenuto
filosofico alla malattia dell'ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo
atteggiamento: «mai piú!». Ma dove va l'atteggiamento se si tiene la
promessa? L'atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve
rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa
impensabile che non s'arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
*****
La malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione.
Di quella dei miei vent'anni non ricorderei gran cosa se non l'avessi allora
descritta ad un medico. Curioso come si ricordino meglio le parole dette che
i sentimenti che non arrivarono a scotere l'aria.
Ero andato da quel medico perché m'era stato detto che guariva le
malattie nervose con l'elettricità. Io pensai di poter ricavare
dall'elettricità la forza che occorreva per lasciare il fumo.
Il dottore aveva una grande pancia e la sua respirazione asmatica
accompagnava il picchio della macchina elettrica messa in opera subito alla
prima seduta, che mi disilluse, perché m'ero aspettato che il dottore
studiandomi scoprisse il veleno che inquinava il mio sangue. Invece egli
dichiarò di trovarmi sanamente costituito e poiché m'ero lagnato di digerire
e dormire male, egli suppose che il mio stomaco mancasse di acidi e che da
me il movimento peristaltico (disse tale parola tante volte che non la
dimenticai piú) fosse poco vivo. Mi propinò anche un certo acido che mi ha
rovinato perché da allora soffro di un eccesso di acidità.
Quando compresi che da sé egli non sarebbe mai piú arrivato a
scoprire la nicotina nel mio sangue, volli aiutarlo ed espressi il dubbio
che la mia indisposizione fosse da attribuirsi a quella. Con fatica egli si
strinse nelle grosse spalle:
- Movimento peristaltico... acido... la nicotina non c'entra!
Furono settanta le applicazioni elettriche e avrebbero continuato
tuttora se io non avessi giudicato di averne avute abbastanza. Piú che
attendermi dei miracoli, correvo a quelle sedute nella speranza di
convincere il dottore a proibirmi il fumo. Chissà come sarebbero andate le
cose se allora fossi stato fortificato nei miei propositi da una proibizione
simile.
Ed ecco la descrizione della mia malattia quale io la feci al
medico: «Non posso studiare e anche le rare volte in cui vado a letto per
tempo, resto insonne fino ai primi rintocchi delle campane. È perciò che
tentenno fra la legge e la chimica perché ambedue queste scienze hanno
l'esigenza di un lavoro che comincia ad un'ora fissa mentre io non so mai a
che ora potrò essere alzato».
- L'elettricità guarisce qualsiasi insonnia, - sentenziò l'Esculapio,
gli occhi sempre rivolti al quadrante anziché al paziente.
Giunsi a parlare con lui come s'egli avesse potuto intendere la
psico-analisi ch'io, timidamente, precorsi. Gli raccontai della mia miseria
con le donne. Una non mi bastava e molte neppure. Le desideravo tutte! Per
istrada la mia agitazione era enorme: come passavano, le donne erano mie. Le
squadravo con insolenza per il bisogno di sentirmi brutale. Nel mio pensiero
le spogliavo, lasciando loro gli stivaletti, me le recavo nelle braccia e le
lasciavo solo quando ero ben certo di conoscerle tutte.
Sincerità e fiato sprecati! Il dottore ansava:
- Spero bene che le applicazioni elettriche non vi guariranno di
tale malattia. Non ci mancherebbe altro! Io non toccherei piú un Rumkorff se
avessi da temerne un effetto simile.
Mi raccontò un aneddoto ch'egli trovava gustosissimo. Un malato
della stessa mia malattia era andato da un medico celebre pregandolo di
guarirlo e il medico, essendovi riuscito perfettamente, dovette emigrare
perché in caso diverso l'altro gli avrebbe fatta la pelle.
- La mia eccitazione non è la buona, - urlavo io. - Proviene dal
veleno che accende le mie vene!
Il dottore mormorava con aspetto accorato:
- Nessuno è mai contento della sua sorte.
E fu per convincerlo ch'io feci quello ch'egli non volle fare e
studiai la mia malattia raccogliendone tutti i sintomi: - La mia
distrazione! Anche quella m'impedisce lo studio. Stavo preparandomi a Graz
per il primo esame di stato e accuratamente avevo notati tutti i testi di
cui abbisognavo fino all'ultimo esame. Finì che pochi giorni prima
dell'esame m'accorsi di aver studiato delle cose di cui avrei avuto bisogno
solo alcuni anni dopo. Perciò dovetti rimandare l'esame. È vero che avevo
studiato poco anche quelle altre cose causa una giovinetta delle vicinanze
che, del resto, non mi concedeva altro che una civetteria alquanto
sfacciata. Quand'essa era alla finestra io non vedevo piú il mio testo. Non
è un imbecille colui che si dedica ad un'attività simile? - Ricordo la
faccia piccola e bianca della fanciulla alla finestra: ovale, circondata da
ricci ariosi, fulvi. La guardai sognando di premere quel biancore e quel
giallo rosseggiante sul mio guanciale.
Esculapio mormorò:
- Dietro al civettare c'è sempre qualche cosa di buono. Alla mia età
voi non civetterete piú.
Oggi so con certezza ch'egli non sapeva proprio niente del
civettare. Ne ho cinquantasette degli anni e sono sicuro che se non cesso di
fumare o che la psico-analisi non mi guarisca, la mia ultima occhiata dal
mio letto di morte sarà l'espressione del mio desiderio per la mia
infermiera, se questa non sarà mia moglie e se mia moglie avrà permesso che
sia bella!
Fui sincero come in confessione: La donna a me non piaceva intera,
ma... a pezzi! Di tutte amavo i piedini se ben calzati, di molte il collo
esile oppure anche poderoso e il seno se lieve, lieve. E continuavo
nell'enumerazione di parti anatomiche femminili, ma il dottore m'interruppe:
- Queste parti fanno la donna intera.
Dissi allora una parola importante:
- L'amore sano è quello che abbraccia una donna sola e intera,
compreso il suo carattere e la sua intelligenza.
Fino ad allora non avevo certo conosciuto un tale amore e quando mi
capitò non mi diede neppur esso la salute, ma è importante per me ricordare
di aver rintracciata la malattia dove un dotto vedeva la salute e che la mia
diagnosi si sia poi avverata.
Nella persona di un amico non medico trovai chi meglio intese me e
la mia malattia. Non ne ebbi grande vantaggio, ma nella vita una nota nuova
ch'echeggia tuttora.
L'amico mio era un ricco signore che abbelliva i suoi ozii con
studii e lavori letterari. Parlava molto meglio di quanto scrivesse e perciò
il mondo non poté sapere quale buon letterato egli fosse. Era grasso e
grosso e quando lo conobbi stava facendo con grande energia una cura per
dimagrare. In pochi giorni era arrivato ad un grande risultato, tale che
tutti per via lo accostavano nella speranza di poter sentire meglio la
propria salute accanto a lui malato. Lo invidiai perché sapeva fare quello
che voleva e m'attaccai a lui finché durò la sua cura. Mi permetteva di
toccargli la pancia che ogni giorno diminuiva, ed io, malevolo per invidia,
volendo indebolire il suo proposito gli dicevo:
- Ma, a cura finita, che cosa ne farà Lei di tutta questa pelle?
Con una grande calma, che rendeva comico il suo viso emaciato egli
rispose:
- Di qui a due giorni comincerà la cura del massaggio.
La sua cura era stata predisposta in tutti i particolari ed era
certo ch'egli sarebbe stato puntuale ad ogni data.
Me ne risultò una grande fiducia per lui e gli descrissi la mia
malattia. Anche questa descrizione ricordo. Gli spiegai che a me pareva piú
facile di non mangiare per tre volte al giorno che di non fumare le
innumerevoli sigarette per cui sarebbe stato necessario di prendere la
stessa affaticante risoluzione ad ogni istante. Avendo una simile
risoluzione nella mente non c'è tempo per fare altro perché il solo Giulio
Cesare sapeva fare piú cose nel medesimo istante. Sta bene che nessuno
domanda ch'io lavori finché è vivo il mio amministratore Olivi, ma come va
che una persona come me non sappia far altro a questo mondo che sognare o
strimpellare il violino per cui non ho alcuna attitudine?
Il grosso uomo dimagrato non diede subito la sua risposta. Era un
uomo di metodo e prima ci pensò lungamente. Poi con aria dottorale che gli
competeva data la sua grande superiorità in argomento, mi spiegò che la mia
vera malattia era il proposito e non la sigaretta. Dovevo tentar di lasciare
quel vizio senza farne il proposito. In me - secondo lui - nel corso degli
anni erano andate a formarsi due persone di cui una comandava e l'altra non
era altro che uno schiavo il quale, non appena la sorveglianza diminuiva,
contravveniva alla volontà del padrone per amore alla libertà. Bisognava
perciò dargli la libertà assoluta e nello stesso tempo dovevo guardare il
mio vizio in faccia come se fosse nuovo e non l'avessi mai visto. Bisognava
non combatterlo, ma trascurarlo e dimenticare in certo modo di
abbandonarvisi volgendogli le spalle con noncuranza come a compagnia che si
riconosce indegna di sé. Semplice, nevvero?
Infatti la cosa mi parve semplice. È poi vero ch'essendo riuscito
con grande sforzo ad eliminare dal mio animo ogni proposito, riuscii a non
fumare per varie ore, ma quando la bocca fu nettata, sentii un sapore
innocente quale deve sentirlo il neonato, mi venne il desiderio di una
sigaretta e quando la fumai ne ebbi il rimorso da cui rinnovai il proposito
che avevo voluto abolire.
Era una via piú lunga, ma si arrivava alla stessa meta.
Quella canaglia dell'Olivi mi diede un giorno un'idea: fortificare
il mio proposito con una scommessa.
Io credo che l'Olivi abbia avuto sempre lo stesso aspetto che io gli
vedo adesso. Lo vidi sempre cosí, un po' curvo, ma solido e a me parve
sempre vecchio, come vecchio lo vedo oggidì che ha ottant'anni. Ha lavorato
e lavora per me, ma io non l'amo perché penso che mi ha impedito il lavoro
che fa lui.
Scommettemmo! Il primo che avrebbe fumato avrebbe pagato eppoi
ambedue avrebbero ricuperato la propria libertà. Cosí l'amministratore,
impostomi per impedire ch'io sciupassi l'eredità di mio padre, tentava di
diminuire quella di mia madre, amministrata liberamente da me!
La scommessa si dimostrò perniciosissima. Non ero piú
alternativamente padrone ma soltanto schiavo e di quell'Olivi che non amavo!
Fumai subito. Poi pensai di truffarlo continuando a fumare di nascosto. Ma
allora perché aver fatta quella scommessa? Corsi allora in cerca di una data
che stesse in bella relazione con la data della scommessa per fumare
un'ultima sigaretta che cosí in certo modo avrei potuto figurarmi fosse
registrata anche dall'Olivi stesso. Ma la ribellione continuava e a forza di
fumare arrivavo all'affanno. Per liberarmi di quel peso andai dall'Olivi e
mi confessai.
Il vecchio incassò sorridendo il denaro e, subito, trasse di tasca
un grosso sigaro che accese e fumò con grande voluttà. Non ebbi mai un
dubbio ch'egli non avesse tenuta la scommessa. Si capisce che gli altri son
fatti altrimenti di me.
Mio figlio aveva da poco compiuti i tre anni quando mia moglie ebbe
una buona idea. Mi consigliò, per sviziarmi, di farmi rinchiudere per
qualche tempo in una casa di salute. Accettai subito, prima di tutto perché
volevo che quando mio figlio fosse giunto all'età di potermi giudicare mi
trovasse equilibrato e sereno, eppoi per la ragione piú urgente che l'Olivi
stava male e minacciava di abbandonarmi per cui avrei potuto essere
obbligato di prendere il suo posto da un momento all'altro e mi consideravo
poco atto ad una grande attività con tutta quella nicotina in corpo.
Dapprima avevamo pensato di andare in Isvizzera, il paese classico
delle case di salute, ma poi apprendemmo che a Trieste v'era un certo dottor
Muli che vi aveva aperto uno stabilimento. Incaricai mia moglie di recarsi
da lui, ed egli le offerse di mettere a mia disposizione un appartamentino
chiuso nel quale sarei stato sorvegliato da un'infermiera coadiuvata anche
da altre persone. Parlandomene mia moglie ora sorrideva ed ora
clamorosamente rideva. La divertiva l'idea di farmi rinchiudere ed io di
cuore ne ridevo con lei. Era la prima volta ch'essa s'associava a me nei
miei tentativi di curarmi. Fino allora ella non aveva mai presa la mia
malattia sul serio e diceva che il fumo non era altro che un modo un po'
strano e non troppo noioso di vivere. Io credo ch'essa fosse stata sorpresa
gradevolmente dopo di avermi sposato di non sentirmi mai rimpiangere la mia
libertà, occupato com'ero a rimpiangere altre cose.
Andammo alla casa di salute il giorno in cui l'Olivi mi disse che in
nessun caso sarebbe rimasto da me oltre il mese dopo.
A casa preparammo un po' di biancheria in un baule e subito di sera
andammo dal dottor Muli.
Egli ci accolse in persona alla porta. Allora il dottor Muli era un
bel giovane. Si era in pieno d'estate ed egli, piccolo, nervoso, la faccina
brunita dal sole nella quale brillavano ancor meglio i suoi vivaci occhi
neri, era l'immagine dell'eleganza, nel suo vestito bianco dal colletto fino
alle scarpe. Egli destò la mia ammirazione, ma evidentemente ero anch'io
oggetto della sua.
Un po' imbarazzato, comprendendo la ragione della sua ammirazione,
gli dissi:
- Già: Ella non crede né alla necessità della cura né alla serietà
con cui mi vi accingo.
Con un lieve sorriso, che pur mi ferì, il dottore rispose:
- Perché? Forse è vero che la sigaretta è piú dannosa per lei di
quanto noi medici ammettiamo. Solo non capisco perché lei, invece di cessare
ex abrupto di fumare, non si sia piuttosto risolto di diminuire il
numero delle sigarette che fuma. Si può fumare, ma non bisogna esagerare.
In verità, a forza di voler cessare del tutto dal fumare,
all'eventualità di fumare di meno non avevo mai pensato.
Ma venuto ora, quel consiglio non poteva che affievolire il mio
proposito. Dissi una parola risoluta:
- Giacché è deciso, lasci che tenti questa cura.
- Tentare? - e il dottore rise con aria di superiorità. - Una volta
che lei vi si è accinto, la cura deve riuscire. Se Lei non vorrà usare della
sua forza muscolare con la povera Giovanna, non potrà uscire di qua. Le
formalità per liberarla durerebbero tanto che nel frattempo ella avrebbe
dimenticato il suo vizio.
Ci trovavamo nell'appartamento che m'era destinato a cui eravamo
giunti ritornando a pianoterra dopo di essere saliti al secondo piano.
- Vede? Quella porta sbarrata impedisce la comunicazione con l'altra
parte del pianterreno dove si trova l'uscita. Neppure Giovanna ne ha le
chiavi. Essa stessa per arrivare all'aperto deve salire al secondo piano ed
ha solo lei le chiavi di quella porta che si è aperta per noi su quel
pianerottolo. Del resto, al secondo piano c'è sempre sorveglianza. Non c'è
male nevvero per una casa di salute destinata a bambini e puerpere?
E si mise a ridere, forse all'idea di avermi rinchiuso fra bambini.
Chiamò Giovanna e me la presentò. Era una piccola donnina di un'età
che non si poteva precisare e che poteva variare fra' quaranta e i sessant'anni.
Aveva dei piccoli occhi di una luce intensa sotto ai capelli molto grigi. Il
dottore le disse:
- Ecco il signore col quale dovete essere pronta di fare i pugni.
Essa mi guardò scrutandomi, si fece molto rossa e gridò con voce
stridula:
- Io farò il mio dovere, ma non posso certo lottare con lei. Se lei
minaccerà, io chiamerò l'infermiere ch'è un uomo forte e, se non venisse
subito, la lascerei andare dove vuole perché io non voglio certo rischiare
la pelle!
Appresi poi che il dottore le aveva affidato quell'incarico con la
promessa di un compenso abbastanza lauto, e ciò aveva contribuito a
spaventarla. Allora le sue parole m'indispettirono. M'ero cacciato
volontariamente in una bella posizione!
- Ma che pelle d'Egitto! - urlai.
- Chi toccherà la sua pelle? - Mi rivolsi al dottore: - Vorrei che
questa donna sia avvisata di non seccarmi! Ho portati con me alcuni libri e
vorrei essere lasciato in pace.
Il dottore intervenne con qualche parola di ammonimento a Giovanna.
Per scusarsi, costei continuò ad attaccarmi:
- Io ho delle figliuole, due e piccine, e devo vivere.
- Io non mi degnerei di ammazzarla, - risposi con accento che certo
non poteva rassicurare la poverina.
Il dottore la fece allontanare incaricandola di andar a prendere non
so che cosa al piano superiore e, per rabbonirmi, mi propose di mettere
un'altra persona al suo posto, aggiungendo:
- Non è una cattiva donna e quando le avrò raccomandato di essere
piú discreta, non le darà altro motivo a lagnanze.
Nel desiderio di dimostrare che non davo alcuna importanza alla
persona incaricata di sorvegliarmi, mi dichiarai d'accordo di sopportarla.
Sentii il bisogno di quietarmi, levai di tasca la penultima sigaretta e la
fumai avidamente. Spiegai al dottore che ne avevo prese con me solo due e
che volevo cessar di fumare in punto alla mezzanotte.
Mia moglie si congedò da me insieme al dottore. Mi disse sorridendo:
- Giacché hai deciso cosí, sii forte.
Il suo sorriso che io amavo tanto mi parve una derisione e fu
proprio in quell'istante che nel mio animo germinò un sentimento nuovo che
doveva far sí che un tentativo intrapreso con tanta serietà dovesse subito
miseramente fallire. Mi sentii subito male, ma seppi che cosa mi facesse
soffrire soltanto quando fui lasciato solo. Una folle, amara gelosia per il
giovine dottore. Lui bello, lui libero! Lo dicevano la Venere fra' Medici.
Perché mia moglie non l'avrebbe amato? Seguendola, quando se ne erano
andati, egli le aveva guardato i piedi elegantemente calzati. Era la prima
volta che mi sentivo geloso dacché m'ero sposato. Quale tristezza!
S'accompagnava certamente al mio abietto stato di prigioniero! Lottai! Il
sorriso di mia moglie era il suo solito sorriso e non una derisione per
avermi eliminato dalla casa. Era certamente lei che m'aveva fatto
rinchiudere pur non accordando alcuna importanza al mio vizio; ma certamente
l'aveva fatto per compiacermi. Eppoi non ricordavo che non era tanto facile
d'innamorarsi di mia moglie? Se il dottore le aveva guardato i piedi,
certamente l'aveva fatto per vedere quali stivali dovesse comperare per la
sua amante. Ma fumai subito l'ultima sigaretta; e non era la mezzanotte, ma
le ventitré, un'ora impossibile per un'ultima sigaretta.
Apersi un libro. Leggevo senz'intendere e avevo addirittura delle
visioni. La pagina su cui tenevo fisso lo sguardo si copriva della
fotografia del dottor Muli in tutta la sua gloria di bellezza ed eleganza.
Non seppi resistere! Chiamai Giovanna. Forse discorrendo mi sarei quietato.
Essa venne e mi guardò subito con occhio diffidente. Urlò con la sua
voce stridula: - Non s'aspetti d'indurmi a deviare dal mio dovere.
Intanto, per quietarla, mentii e le dichiarai ch'io non ci pensavo
nemmeno, che non avevo piú voglia di leggere e preferivo di far quattro
chiacchiere con lei.
La feci sedere a me in faccia. Proprio, mi ripugnava con quel suo
aspetto da vecchia e gli occhi giovanili e mobili come quelli di tutti gli
animali deboli. Compassionavo me stesso, per dover sopportare una compagnia
simile! È vero che neppure in libertà io so scegliere le compagnie che
meglio mi si confacciano perché di solito sono esse che scelgono me, come
fece mia moglie.
Pregai Giovanna di svagarmi e poiché dichiarò di non sapermi dir
nulla che valesse la mia attenzione, la pregai di raccontarmi della sua
famiglia, aggiungendo che quasi tutti a questo mondo ne avevano almeno una.
Essa allora obbedì e incominciò col raccontarmi che aveva dovuto
mettere le sue due figliuole all'Istituto dei Poveri.
Io cominciavo ad ascoltare volentieri il suo racconto perché quei
diciotto mesi di gravidanza sbrigati cosí, mi facevano ridere. Ma essa aveva
un'indole troppo polemica ed io non seppi ascoltarla quando dapprima volle
provarmi ch'essa non avrebbe potuto fare altrimenti data l'esiguità del suo
salario e che il dottore aveva avuto torto quando pochi giorni prima aveva
dichiarato che due corone al giorno bastavano dacché l'Istituto dei Poveri
manteneva tutta la sua famiglia. Urlava:
- E il resto? Quando sono state provviste del cibo e dei vestiti,
non hanno mica avuto tutto quello che occorre! - E giù una filza di cose che
doveva procurare alle sue figliole e che io non ricordo piú, visto che per
proteggere il mio udito dalla sua voce stridula, rivolgevo di proposito il
mio pensiero ad altra cosa. Ma ne ero tuttavia ferito e mi parve di aver
diritto ad un compenso:
- Non si potrebbe avere una sigaretta, una sola? Io la pagherei
dieci corone, ma domani, perché con me non ho neppur un soldo.
Giovanna fu enormemente spaventata della mia proposta. Si mise ad
urlare; voleva chiamare subito l'infermiere e si levò dal suo posto per
uscire.
Per farla tacere desistetti subito dal mio proposito e, a caso,
tanto per dire qualche cosa e darmi un contegno, domandai:
- Ma in questa prigione ci sarà almeno qualche cosa da bere?
Giovanna fu pronta nella risposta e, con mia meraviglia in un vero
tono di conversazione, senz'urlare:
- Anzi! Il dottore, prima di uscire mi ha consegnata questa
bottiglia di cognac. Ecco la bottiglia ancora chiusa. Guardi, è intatta.
Mi trovavo in condizione tale che non vedevo per me altra via
d'uscita che l'ubriachezza. Ecco dove m'aveva condotto la fiducia in mia
moglie!
In quel momento a me pareva che il vizio del fumo non valesse lo
sforzo cui m'ero lasciato indurre. Ora non fumavo già da mezz'ora e non ci
pensavo affatto, occupato com'ero dal pensiero di mia moglie e del dottor
Muli. Ero dunque guarito del tutto, ma irrimediabilmente ridicolo!
Stappai la bottiglia e mi versai un bicchierino del liquido giallo.
Giovanna stava a guardarmi a bocca aperta, ma io esitai di offrirgliene.
- Potrò averne dell'altro quando avrò vuotata questa bottiglia?
Giovanna sempre nel piú gradevole tono di conversazione mi
rassicurò: - Tanto quanto ne vorrà! Per soddisfare un suo desiderio la
signora che dirige la dispensa dovrebbe levarsi magari a mezzanotte!
Io non soffersi mai d'avarizia e Giovanna ebbe subito il suo
bicchierino colmo all'orlo.
Non aveva finito di dire un grazie che già l'aveva vuotato e subito
diresse gli occhi vivaci alla bottiglia. Fu perciò lei stessa che mi diede
l'idea di ubriacarla. Ma non fu mica facile!
Non saprei ripetere esattamente quello ch'essa mi disse, dopo aver
ingoiati varii bicchierini, nel suo puro dialetto triestino, ma ebbi tutta
l'impressione di trovarmi da canto una persona che, se non fossi stato
stornato dalle mie preoccupazioni, avrei potuto stare a sentire con diletto.
Prima di tutto mi confidò ch'era proprio cosí che a lei piaceva di
lavorare. A tutti a questo mondo sarebbe spettato il diritto di passare ogni
giorno un paio d'ore su una poltrona tanto comoda, in faccia ad una
bottiglia di liquore buono, di quello che non fa male.
Tentai di conversare anch'io. Le domandai se, quand'era vivo suo
marito, il lavoro per lei fosse stato organizzato proprio a quel modo.
Essa si mise a ridere. Da vivo suo marito l'aveva piú picchiata che
baciata e, in confronto a quello ch'essa aveva dovuto lavorare per lui, ora
tutto avrebbe potuto sembrarle un riposo anche prima ch'io a quella casa
arrivassi con la mia cura.
Poi Giovanna si fece pensierosa e mi domandò se credevo che i morti
vedessero quello che facevano i vivi. Annuii brevemente. Ma essa volle
sapere se i morti, quando arrivavano al di là, risapevano tutto quello che
quaggiù era avvenuto quand'essi erano stati ancora vivi.
Per un momento la domanda valse proprio a distrarmi. Era stata poi
mossa con una voce sempre piú soave perché, per non farsi sentire dai morti,
Giovanna l'aveva abbassata.
- Voi, dunque - le dissi - avete tradito vostro marito.
Essa mi pregò di non gridare eppoi confessò di averlo tradito, ma
soltanto nei primi mesi del loro matrimonio. Poi s'era abituata alle busse e
aveva amato il suo uomo.
Per conservare viva la conversazione domandai:
- È dunque la prima delle vostre figliuole che deve la vita a quell'altro?
Sempre a bassa voce essa ammise di crederlo anche in seguito a certe
somiglianze. Le doleva molto di aver tradito il marito. Lo diceva, ma sempre
ridendo perché son cose di cui si ride anche quando dolgono. Ma solo dacché
era morto, perché prima, visto che non sapeva, la cosa non poteva aver avuto
importanza.
Spintovi da una certa simpatia fraterna, tentai di lenire il suo
dolore e le dissi ch'io credevo che i morti sapessero tutto, ma che di certe
cose s'infischiassero.
- Solo i vivi ne soffrono! - esclamai battendo sul tavolo il pugno.
Ne ebbi una contusione alla mano e non c'è di meglio di un dolore
fisico per destare delle idee nuove. Intravvidi la possibilità che intanto
ch'io mi cruciavo al pensiero che mia moglie approfittasse della mia
reclusione per tradirmi, forse il dottore si trovasse tuttavia nella casa di
salute, nel quale caso io avrei potuto riavere la mia tranquillità. Pregai
Giovanna di andar a vedere, dicendole che sentivo il bisogno di dire qualche
cosa al dottore e promettendole in premio l'intera bottiglia. Essa protestò
che non amava di bere tanto, ma subito mi compiacque e la sentii
arrampicarsi traballando sulla scala di legno fino al secondo piano per
uscire dalla nostra clausura.
Poi ridiscese, ma scivolò facendo un grande rumore e gridando.
- Che il diavolo ti porti! - mormorai io fervidamente. Se essa si
fosse rotto l'osso del collo la mia posizione sarebbe stata semplificata di
molto.
Invece arrivò a me sorridendo perché si trovava in quello stato in
cui i dolori non dolgono troppo. Mi raccontò di aver parlato con
l'infermiere che andava a coricarsi, ma restava a sua disposizione a letto,
per il caso in cui fossi divenuto cattivo. Sollevò la mano e con l'indice
teso accompagnò quelle parole da un atto di minaccia attenuato da un
sorriso. Poi, piú seccamente, aggiunse che il dottore non era rientrato
dacché era uscito con mia moglie. Proprio da allora! Anzi per qualche ora
l'infermiere aveva sperato che fosse ritornato perché un malato avrebbe
avuto bisogno di esser visto da lui. Ora non lo sperava piú.
Io la guardai indagando se il sorriso che contraeva la sua faccia
fosse stereotipato o se fosse nuovo del tutto e originato dal fatto che il
dottore si trovava con mia moglie anziché con me, ch'ero il suo paziente. Mi
colse un'ira da farmi girare la testa. Devo confessare che, come sempre, nel
mio animo lottavano due persone di cui l'una, la piú ragionevole, mi diceva:
«Imbecille! Perché pensi che tua moglie ti tradisca? Essa non avrebbe il
bisogno di rinchiuderti per averne l'opportunità. » L'altra ed era
certamente quella che voleva fumare, mi dava pur essa dell'imbecille, ma per
gridare: «Non ricordi la comodità che proviene dall'assenza del marito? Col
dottore che ora è pagato da te!».
Giovanna, sempre bevendo, disse: - Ho dimenticato di chiudere la
porta del secondo piano. Ma non voglio far piú quei due piani. Già lassù c'è
sempre della gente e lei farebbe una bella figura se tentasse di scappare.
- Già! - feci io con quel minimo d'ipocrisia che occorreva oramai
per ingannare la poverina. Poi inghiottii anch'io del cognac e dichiarai che
ormai che avevo tanto di quel liquore a mia disposizione, delle sigarette
non m'importava piú niente. Essa subito mi credette e allora le raccontai
che non ero veramente io che volevo svezzarmi dal fumo. Mia moglie lo
voleva. Bisognava sapere che quando io arrivavo a fumare una decina di
sigarette diventavo terribile. Qualunque donna allora mi fosse stata a tiro
si trovava in pericolo.
Giovanna si mise a ridere rumorosamente abbandonandosi sulla sedia:
- Ed è vostra moglie che v'impedisce di fumare le dieci sigarette
che occorrono?
- Era proprio cosí! Almeno a me essa lo impediva.
Non era mica sciocca Giovanna, quand'aveva tanto cognac in corpo. Fu
colta da un impeto di riso che quasi la faceva cadere dalla sedia, ma quando
il fiato glielo permetteva, con parole spezzate, dipinse un magnifico
quadretto suggeritole dalla mia malattia: - Dieci sigarette... mezz'ora...
si punta la sveglia... eppoi...
La corressi:
- Per dieci sigarette io abbisogno di un'ora circa. Poi per
aspettarne il pieno effetto occorre un'altra ora circa, dieci minuti di piú,
dieci di meno...
Improvvisamente Giovanna si fece seria e si levò senza grande fatica
dalla sua sedia.
Disse che sarebbe andata a coricarsi perché si sentiva un po' di
male alla testa. L'invitai di prendere la bottiglia con sé, perché io ne
avevo abbastanza di quel liquore. Ipocritamente dissi che il giorno seguente
volevo che mi si procurasse del buon vino.
Ma al vino essa non pensava. Prima di uscire con la bottiglia sotto
il braccio mi squadrò con un'occhiataccia che mi fece spavento.
Aveva lasciata la porta aperta e dopo qualche istante cadde nel
mezzo della stanza un pacchetto che subito raccolsi: conteneva undici
sigarette di numero. Per essere sicura, la povera Giovanna aveva voluto
abbondare. Sigarette ordinarie, ungheresi. Ma la prima che accesi fu
buonissima. Mi sentii grandemente sollevato. Dapprima pensai che mi
compiacevo di averla fatta a quella casa ch'era buonissima per rinchiudervi
dei bambini, ma non me. Poi scopersi che l'avevo fatta anche a mia moglie e
mi pareva di averla ripagata di pari moneta. Perché, altrimenti, la mia
gelosia si sarebbe tramutata in una curiosità tanto sopportabile? Restai
tranquillo a quel posto fumando quelle sigarette nauseanti.
Dopo una mezz'ora circa ricordai che bisognava fuggire da quella
casa ove Giovanna aspettava il suo compenso. Mi levai le scarpe e uscii sul
corridoio. La porta della stanza di Giovanna era socchiusa e, a giudicare
dalla sua respirazione rumorosa e regolare, a me parve ch'essa dormisse.
Salii con tutta prudenza fino al secondo piano ove dietro di quella porta -
l'orgoglio del dottor Muli, - infilai le scarpe. Uscii su un pianerottolo e
mi misi a scendere le scale, lentamente per non destar sospetto.
Ero arrivato al pianerottolo del primo piano, quando una signorina
vestita con qualche eleganza da infermiera, mi seguì per domandarmi
cortesemente:
- Lei cerca qualcuno?
Era bellina e a me non sarebbe dispiaciuto di finire accanto a lei
le dieci sigarette. Le sorrisi un po' aggressivo:
- Il dottor Muli non è in casa?
Essa fece tanto d'occhi:
- A quest'ora non è mai qui.
- Non saprebbe dirmi dove potrei trovarlo ora? Ho a casa un malato
che avrebbe bisogno di lui.
Cortesemente mi diede l'indirizzo del dottore ed io lo ripetei piú
volte per farle credere che volessi ricordarlo. Non mi sarei mica tanto
affrettato di andar via, ma essa, seccata, mi volse le spalle. Venivo
addirittura buttato fuori della mia prigione.
Da basso una donna fu pronta ad aprirmi la porta. Non avevo un soldo
con me e mormorai:
- La mancia gliela darò un'altra volta.
Non si può mai conoscere il futuro. Da me le cose si ripetono: non
era escluso ch'io fossi ripassato per di là.
La notte era chiara e calda. Mi levai il cappello per sentir meglio
la brezza della libertà. Guardai le stelle con ammirazione come se le avessi
conquistate da poco. Il giorno seguente, lontano dalla casa di salute, avrei
cessato di fumare. Intanto in un caffè ancora aperto mi procurai delle buone
sigarette perché non sarebbe stato possibile di chiudere la mia carriera di
fumatore con una di quelle sigarette della povera Giovanna. Il cameriere che
me le diede mi conosceva e me le lasciò a fido.
Giunto alla mia villa suonai furiosamente il campanello. Dapprima
venne alla finestra la fantesca eppoi, dopo un tempo non tanto breve, mia
moglie. Io l'attesi pensando con perfetta freddezza: - Sembrerebbe che ci
sia il dottor Muli. - Ma, avendomi riconosciuto, mia moglie fece echeggiare
nella strada deserta il suo riso tanto sincero che sarebbe bastato a
cancellare ogni dubbio.
In casa m'attardai per fare qualche atto d'inquisitore. Mia moglie
cui promisi di raccontare il giorno appresso le mie avventure ch'essa
credeva di conoscere, mi domandò:
- Ma perché non ti corichi?
Per scusarmi dissi:
- Mi pare che tu abbia approfittato della mia assenza per cambiar di
posto a quell'armadio.
È vero ch'io credo che le cose, in casa, sieno sempre spostate ed è
anche vero che mia moglie molto spesso le sposta, ma in quel momento io
guardavo ogni cantuccio per vedere se vi era nascosto il piccolo, elegante
corpo del dottor Muli.
Da mia moglie ebbi una buona notizia. Ritornando dalla casa di
salute s'era imbattuta nel figlio dell'Olivi che le aveva raccontato che il
vecchio stava molto meglio dopo di aver presa una medicina prescrittagli da
un suo nuovo medico.
Addormentandomi pensai di aver fatto bene di lasciare la casa di
salute poiché avevo tutto il tempo per curarmi lentamente. Anche mio figlio
che dormiva nella stanza vicina non s'apprestava certamente ancora a
giudicarmi o ad imitarmi. Assolutamente non v'era fretta.
|