Italo Svevo - L'ironia oggettiva della realtà.
" la vita non è  né bella né brutta, ma è  originale"-  La coscienza di Zeno 


La prima forma di ironia che il romanzo di Svevo produce è quella oggettiva, cioè legata allo sviluppo imprevedibilmente originale degli eventi. Non si tratta solo di curiosa casualità della sorte, di bizzarria del caso, di imponderabilità: se così fosse mancherebbe la possibilità al personaggio narratore di mettere in evidenza lo scarto tra aspettative, progetti d'azione e loro inevitabile fallimento. L'inettitudine di Zeno, che si manifesta attraverso scelte d'azione improvvide ed apparentemente perdenti, viene quasi inspiegabilmente, ripagata dalla realtà, che lo ricambia con risposte accomodanti ed addirittura gratificanti, a lungo termine.

La realtà quindi corregge il mancato raggiungimento di obiettivi che si rivelerebbero sostanzialmente falsi. L'ambizione naturale a cogliere la vita nelle sue forme più appetibili e seducenti ( quali la belleza di Ada Malfenti o il successo in società di Guido Spaier ) si vanifica definitivamente per uno scherzo del caso.

Durante una seduta spiritica la vicinanza di Augusta, la meno bella delle sorelle Malfenti, spinge Zeno a dichiarare il suo amore alla ragazza, credendo però di essere in presenza della bella Ada. L'errore che potrebbe apparire tragico ed imbarazzante invece conduce Zeno a compiere una scelta matrimoniale, che via via si rivelerà positiva.

Questo almeno nelle dichiarazioni del personaggio, che giura di avere trovato in Augusta una compagna ideale, pronta a sostenerlo con  comprensione in tutte le sue debolezze. Ma anche questa confessione è ambigua e falsa. In realtà è frutto di un accomodamento mentale, poiché in realtà Zeno - Svevo attacca in altre pagine proprio  la concreta positività borghese di Augusta, che pure sembra tanto aiutarlo. Quindi un altro ribaltamento di prospettiva, un'altra menzogna ben architettata per difendersi dalla nevrosi, dalla malattia della volontà che lo attanaglia.

L'ironia oggettiva che contraddistingue la narrazione è lo strumento con il quale il narratore si difende appunto dall'ambiguità psicologica, legata alle sue inconfessate debolezze. Ribaltando su contraddizioni oggettive del reale la mancata sua coerenza d'azione e l'incapacità di integrazione nella società borghese del suo tempo.
 

La storia del mio matrimonio - Cap V

(...) Senz'alcuna esitazione mi recai dai Malfenti. Avevo accettato l'invito ed oramai non potevo mancare. Mi parve di buon augurio che la cameriera m'accogliesse con un sorriso gentile e la domanda se fossi stato male per non esser venuto per tanto tempo. Le diedi una mancia. Per bocca sua tutta la famiglia di cui essa era la rappresentante, mi faceva quella domanda.

Essa mi condusse al salotto ch'era immerso nell'oscurità più profonda.
Arrivatovi dalla piena luce dell'anticamera, per un momento non vidi nulla e non osai movermi. Poi scorsi varie figure disposte intorno ad un tavolino, in fondo al salotto, abbastanza lontano da me.
Fui salutato dalla voce di Ada che nell'oscurità mi parve sensuale. Sorridente, una carezza:

- S'accomodi, da quella parte e non turbi gli spiriti! - Se continuava così io non li avrei certamente turbati.

Da un altro punto della periferia del tavolino echeggiò un'altra voce, di Alberta o forse di Augusta:

- Se vuole prendere parte all'evocazione, c'è qui ancora un posticino libero.

Io ero ben risoluto di non lasciarmi mettere in disparte e avanzai risoluto verso il punto donde m'era provenuto il saluto di Ada. Urtai col ginocchio contro lo spigolo di quel tavolino veneziano ch'era tutto spigoli. Ne ebbi un dolore intenso, ma non mi lasciai arrestare e andai a cadere su un sedile offertomi non sapevo da chi, fra due fanciulle di cui una, quella alla mia destra, pensai fosse Ada e l'altra Augusta. Subito, per evitare ogni contatto con questa, mi spinsi verso l'altra. Ebbi però il dubbio che mi sbagliassi e alla vicina di destra domandai per sentirne la voce:

- Aveste già qualche comunicazione dagli spiriti?

Guido, che mi parve sedesse a me di faccia, m'interruppe. Imperiosamente gridò:

- Silenzio!

Poi, più mitemente:

- Raccoglietevi e pensate intensamente al morto che desiderate di evocare.

Io non ho alcun'avversione per i tentativi di qualunque genere di spiare il mondo di là. Ero anzi seccato di non aver introdotto io in casa di Giovanni quel tavolino, giacché vi otteneva tale successo. Ma non mi sentivo di obbedire agli ordini di Guido e perciò non mi raccolsi affatto. Poi m'ero fatti tanti di quei rimproveri per aver permesso che le cose arrivassero a quel punto senz'aver detta una parola chiara con Ada, che giacché avevo la fanciulla accanto, in quell'oscurità tanto favorevole, avrei chiarito tutto. Fui trattenuto solo dalla dolcezza di averla tanto vicina a me dopo di aver temuto di averla perduta per sempre. Intuivo la dolcezza delle stoffe tiepide che sfioravano i miei vestiti e pensavo anche che così stretti l'uno all'altra, il mio toccasse il suo piedino che di sera sapevo vestito di uno stivaletto laccato. Era addirittura troppo dopo un martirio troppo lungo.

Parlò di nuovo Guido:

- Ve ne prego, raccoglietevi. Supplicate ora lo spirito che invocaste di manifestarsi movendo il tavolino.

Mi piaceva ch'egli continuasse ad occuparsi del tavolino. Oramai era evidente che Ada si rassegnava di portare quasi tutto il mio peso! Se non m'avesse amato non m'avrebbe sopportato. Era venuta l'ora della chiarezza. Tolsi la mia destra dal tavolino e pian pianino le posi il braccio alla taglia:

- Io vi amo, Ada! - dissi a bassa voce e avvicinando la mia faccia alla sua per farmi sentire meglio.

La fanciulla non rispose subito. Poi, con un soffio di voce, però quella di Augusta, mi disse:

- Perché non veniste per tanto tempo?

La sorpresa e il dispiacere quasi mi facevano crollare dal mio sedile.

Subito sentii che se io dovevo finalmente eliminare quella seccante fanciulla dal mio destino, pure dovevo usarle il riguardo che un buon cavaliere quale son io, deve tributare alla donna che lo ama e sia dessa la più brutta che mai sia stata creata. Come m'amava! Nel mio dolore sentii il suo amore. Non poteva essere altro che l'amore che le aveva suggerito di non dirmi ch'essa non era Ada, ma di farmi la domanda che da Ada avevo attesa invano e che lei invece certo s'era preparata di farmi subito quando m'avesse rivisto.

Seguii un mio istinto e non risposi alla sua domanda, ma, dopo una breve esitazione, le dissi:

- Ho tuttavia piacere di essermi confidato a voi, Augusta, che io credo tanto buona!

Mi rimisi subito in equilibrio sul mio treppiede. Non potevo avere la chiarezza con Ada, ma intanto l'avevo completa con Augusta. Qui non potevano esserci altri malintesi.

Guido ammonì di nuovo:

- Se non volete star zitti, non c'è alcuno scopo di passare qui il nostro tempo all'oscuro!

Egli non lo sapeva, ma io avevo tuttavia bisogno di un po' di oscurità che m'isolasse e mi permettesse di raccogliermi. Avevo scoperto il mio errore e il solo equilibrio che avessi riconquistato era quello sul mio sedile.

Avrei parlato con Ada, ma alla chiara luce. Ebbi il sospetto che alla mia sinistra non ci fosse lei, ma Alberta. Come accertarmene? Il dubbio mi fece quasi cadere a sinistra e, per riconquistare l'equilibrio, mi poggiai sul tavolino. Tutti si misero ad urlare: - Si muove, si muove! - Il mio atto involontario avrebbe potuto condurmi alla chiarezza. Donde veniva la voce di Ada? Ma Guido coprendo con la sua la voce di tutti, impose quel silenzio che io, tanto volentieri, avrei imposto a lui. Poi con voce mutata, supplice (imbecille!) parlò con lo spirito ch'egli credeva presente:

- Te ne prego, di' il tuo nome designandone le lettere in base all'alfabeto nostro!

Egli prevedeva tutto: aveva paura che lo spirito ricordasse l'alfabeto greco.

Io continuai la commedia sempre spiando l'oscurità alla ricerca di Ada. Dopo una lieve esitazione feci alzare il tavolino per sette volte così che la lettera G era acquisita. L'idea mi parve buona e per quanto la U che seguiva costasse innumerevoli movimenti, dettai netto netto il nome di Guido. Non dubito che dettando il suo nome, io non fossi diretto dal desiderio di relegarlo fra gli spiriti.

Quando il nome di Guido fu perfetto, Ada finalmente parlò:

- Qualche vostro antenato? - suggerì. Sedeva proprio accanto a lui. Avrei voluto muovere il tavolino in modo da cacciarlo fra loro due e dividerli.

- Può essere! - disse Guido. Egli credeva di avere degli antenati, ma non mi faceva paura. La sua voce era alterata da una reale emozione che mi diede la gioia che prova uno schermidore quando s'accorge che l'avversario è meno temibile di quanto egli credesse. Non era mica a sangue freddo ch'egli faceva quegli esperimenti. Era un vero imbecille! Tutte le debolezze trovavano facilmente il mio compatimento, ma non la sua.

Poi egli si rivolse allo spirito:

- Se ti chiami Speier fa un movimento solo.

Altrimenti movi il tavolino per due volte. - Giacché egli voleva avere degli antenati, lo compiacqui movendo il tavolino per due volte.

- Mio nonno! - mormorò Guido.

Poi la conversazione con lo spirito camminò più rapida. Allo spirito fu domandato se volesse dare delle notizie. Rispose di sì. D'affari od altre? D'affari! Questa risposta fu preferita solo perché per darla bastava movere il tavolo per una volta sola. Guido domandò poi se si trattava di buone o di cattive notizie. Le cattive dovevano essere designate con due movimenti ed io, - questa volta senz'alcun'esitazione, - volli movere il tavolo per due volte. Ma il secondo movimento mi fu contrastato e doveva esserci qualcuno nella compagnia che avrebbe desiderato che le nuove fossero buone. Ada, forse? Per produrre quel secondo movimento mi gettai addirittura sul tavolino e vinsi facilmente! Le notizie erano cattive!

Causa la lotta, il secondo movimento risultò eccessivo e spostò addirittura tutta la compagnia.

- Strano! - mormorò Guido. Poi, deciso, urlò:

- Basta! Basta! Qui qualcuno si diverte alle nostre spalle!

Fu un comando cui molti nello stesso tempo ubbidirono e il salotto fu subito inondato dalla luce accesa in più punti. Guido mi parve pallido! Ada s'ingannava sul conto di quell'individuo ed io le avrei aperti gli occhi.

Nel salotto, oltre alle tre fanciulle, v'erano la signora Malfenti ed un'altra signora la cui vista m'ispirò imbarazzo e malessere perché credetti fosse la zia Rosina. Per ragioni differenti le due signore ebbero da me un saluto compassato.

Il bello si è ch'ero rimasto al tavolino, solo accanto ad Augusta. Era una nuova compromissione, ma non sapevo rassegnarmi d'accompagnarmi a tutti gli altri che attorniavano Guido, il quale con qualche veemenza spiegava come avesse capito che il tavolo veniva mosso non da uno spirito ma da un malizioso in carne ed ossa. Non Ada, lui stesso aveva tentato di frenare il tavolino fattosi troppo chiacchierino. Diceva:

- Io trattenni il tavolino con tutte le mie forze per impedire che si movesse la seconda volta. Qualcuno dovette addirittura gettarsi su di esso per vincere la mia resistenza.

Bello quel suo spiritismo: uno sforzo potente non poteva provenire da uno spirito!

Guardai la povera Augusta per vedere quale aspetto avesse dopo di aver avuta la mia dichiarazione d'amore per sua sorella. Era molto rossa, ma mi guardava con un sorriso benevolo. Solo allora si decise di confermare d'aver sentita quella dichiarazione:

- Non lo dirò a nessuno! - mi disse a bassa voce.

Ciò mi piacque molto.

- Grazie, - mormorai stringendole la mano non piccola, ma modellata perfettamente. Io ero disposto di diventare un buon amico di Augusta mentre prima di allora ciò non sarebbe stato possibile perché io non so essere l'amico delle persone brutte. Ma sentivo una certa simpatia per la sua taglia che avevo stretta e che avevo trovata più sottile di quanto l'avessi creduta. Anche la sua faccia era discreta, e pareva deforme solo causa quell'occhio che batteva una strada non sua. Avevo certamente esagerata quella deformità ritenendola estesa fino alla coscia.

 

Avevano fatto portare della limonata per Guido. Mi avvicinai al gruppo che tuttavia l'attorniava e m'imbattei nella signora Malfenti che se ne staccava. Ridendo di gusto le domandai.

- Abbisogna di un cordiale? - Ella ebbe un lieve movimento di disprezzo con le labbra:

- Non sembrerebbe un uomo! - disse chiaramente.

Io mi lusingai che la mia vittoria potesse avere un'importanza decisiva. Ada non poteva pensare altrimenti della madre. La vittoria ebbe subito l'effetto che non poteva mancare in un uomo fatto come son io. Mi sparì ogni rancore e non volli che Guido soffrisse ulteriormente. Certo il mondo sarebbe meno aspro se molti mi somigliassero.

Sedetti a lui da canto e, senza guardare gli altri, gli dissi:

- Dovete scusarmi, signor Guido. Mi sono permesso uno scherzo di cattivo genere. Sono stato io che ho fatto dichiarare al tavolino di essere mosso da uno spirito portante il vostro stesso nome. Non l'avrei fatto se avessi saputo che anche vostro nonno aveva quel nome.

Guido tradì nella sua cera, che si schiarì, come la mia comunicazione fosse importante per lui. Non volle però ammetterlo e mi disse:

- Queste signore sono troppo buone! Io non ho mica bisogno di conforto. La cosa non ha alcun'importanza. Vi ringrazio per la vostra sincerità, ma io avevo già indovinato che qualcuno aveva indossata la parrucca di mio nonno.

Rise, soddisfatto, dicendomi:

- Siete molto robusto, voi! Avrei dovuto indovinare che il tavolo veniva mosso dal solo altro uomo della compagnia.

M'ero dimostrato più forte di lui, infatti, ma presto dovetti sentirmi di lui più debole. Ada mi guardava con occhio poco amico e m'aggredì, le belle guancie infiammate:

- Mi dispiace per voi che abbiate potuto credervi autorizzato ad uno scherzo simile.

Mi mancò il fiato e, balbettando, dissi:

- Volevo ridere! Credevo che nessuno di noi avrebbe presa sul serio quella storia del tavolino.

Era un po' tardi per attaccare Guido ed anzi, se avessi avuto un orecchio sensibile, avrei sentito che, mai più, in una lotta con lui, la vittoria avrebbe potuto essere mia. L'ira che Ada mi dimostrava era ben significativa. Come non intesi ch'essa era già tutta sua? Ma io m'ostinavo nel pensiero ch'egli non la meritava perché non era l'uomo ch'essa cercava col suo occhio serio. Non l'aveva sentito persino la signora Malfenti?

Tutti mi protessero e aggravarono la mia situazione. La signora Malfenti disse ridendo:

- Non fu che uno scherzo riuscito benissimo. - La zia Rosina aveva tuttavia il grosso corpo virante dal ridere e diceva ammirando:

- Magnifica!

Mi spiacque che Guido fosse tanto amichevole. Già, a lui non importava altro che di essere sicuro che le cattive notizie che il tavolino gli aveva date, non fossero state portate da uno spirito. Mi disse:

- Scommetto che dapprima non avete mosso il tavolo di proposito. L'avrete mosso la prima volta senza volerlo, eppoi appena avrete deciso di moverlo con malizia. Così la cosa conserverebbe una certa importanza, cioè soltanto fino al momento in cui non decideste di sabotare la vostra ispirazione.

 

Ada si volse e mi guardò con curiosità. Essa stava per manifestare a Guido una devozione eccessiva perdonandomi perché Guido m'aveva concesso il suo perdono. Glielo impedii:

- Ma no! - dissi deciso. - Io ero stanco d'aspettare quegli spiriti che non volevano venire e li sostituii per divertirmi.

Ada mi volse le spalle arcuandole in modo ch'ebbi tutto il sentimento d'essere stato schiaffeggiato. Persino i riccioli alla sua nuca mi parve significassero disdegno.

Come sempre, invece che guardare e ascoltare, ero tutt'occupato dal mio proprio pensiero. M'opprimeva il fatto che Ada si comprometteva orribilmente. Ne provavo un forte dolore come dinanzi alla rivelazione che la donna mia mi tradisse. Ad onta di quelle sue manifestazioni d'affetto per Guido, essa tuttavia poteva ancora essere mia, ma sentivo che non le avrei mai perdonato il suo contegno. È il mio pensiero troppo lento per saper seguire gli avvenimenti che si svolgono senz'attendere che nel mio cervello si sieno cancellate le impressioni lasciatevi dagli avvenimenti precedenti? Io dovevo tuttavia movermi sulla via segnatami dal mio proposito. Una vera, una cieca ostinazione. Volli anzi rendere il mio proposito più forte registrandolo un'altra volta. Andai ad Augusta che mi guardava ansiosamente con un sincero sorriso incoraggiante sulla faccia e le dissi serio e accorato:

- È forse l'ultima volta ch'io vengo in casa vostra perché io, questa sera stessa, dichiarerò il mio amore ad Ada.

- Non dovete farlo, - mi disse essa supplice. - Non v'accorgete di quello che qui succede? Mi dispiacerebbe se aveste a soffrirne.

Essa continuava a frapporsi fra me e Ada. Le dissi proprio per farle dispetto:

- Parlerò con Ada perché lo debbo. M'è poi del tutto indifferente quello ch'essa risponderà.

Zoppicai di nuovo verso Guido. Giunto accanto a lui, guardandomi in uno specchio, accesi una sigaretta. Nello specchio mi vidi molto pallido ciò che per me è una ragione per impallidire di più. Lottai per sentirmi meglio ed apparire disinvolto. Nel duplice sforzo la mia mano distratta afferrò il bicchiere di Guido. Una volta afferratolo non seppi far di meglio che vuotarlo.

Guido si mise a ridere:

- Così saprete tutti i miei pensieri perché poco fa ho bevuto anch'io da quel bicchiere.

Il sapore del limone m'è sempre sgradito. Quello dovette apparirmi velenoso addirittura perché, prima di tutto, per aver bevuto dal suo bicchiere a me parve d'aver subito un contatto odioso con Guido eppoi perché fui colpito nello stesso tempo dall'espressione d'impazienza iraconda che si stampò sulla faccia di Ada. Chiamò subito la cameriera per ordinarle un altro bicchiere di limonata e insistette nel suo ordine ad onta che Guido dichiarasse di non aver più sete.

Allora fui veramente compassionevole. Essa si comprometteva sempre più.

- Scusatemi, Ada, - le dissi sommessamente e guardandola come se mi fossi aspettata qualche spiegazione. - Io non volevo spiacervi.

Poi fui invaso dal timore che i miei occhi si bagnassero di lagrime. Volli salvarmi dal ridicolo. Gridai:

- Mi sono spruzzato del limone nell'occhio.

Mi coprii gli occhi col fazzoletto e perciò non ebbi più bisogno di sorvegliare le mie lagrime e bastò che badassi a non singhiozzare. Non dimenticherò mai quell'oscurità dietro di quel fazzoletto. Vi celavo le mie lagrime, ma anche un momento di pazzia. Pensavo ch'io le avrei detto tutto, ch'essa m'avrebbe inteso e amato e ch'io non le avrei perdonato mai più. Allontanai dalla mia faccia il fazzoletto, lasciai che tutti vedessero i miei occhi lagrimosi e feci uno sforzo per ridere e far ridere:

- Scommetto che il signor Giovanni manda a casa dell'acido citrico per fare le spremute.

In quel momento giunse Giovanni che mi salutò con la sua solita grande cordialità. Ne ebbi un piccolo conforto, che non durò a lungo, perché egli dichiarò ch'era venuto prima del solito per il desiderio di sentir suonare Guido. S'interruppe per domandare ragione delle lagrime che mi bagnavano gli occhi. Gli raccontarono dei miei sospetti sulla qualità delle sue spremute, ed egli ne rise.
Io fui tanto vile d'associarmi con calore alle preghiere che Giovanni rivolgeva a Guido perché suonasse. Ricordavo: non ero io venuto quella sera per sentire il violino di Guido? Ed il curioso è che so d'aver sperato di rabbonire Ada con le mie sollecitazioni a Guido. La guardai sperando d'essere finalmente associato a lei per la prima volta in quella sera. Quale stranezza! Non avevo da parlarle e da non perdonarle? Invece non vidi che le sue spalle e i riccioli sdegnosi alla sua nuca. Era corsa a trarre il violino dalla busta.

Guido domandò di essere lasciato in pace ancora per un quarto d'ora. Pareva esitante. Poi nei lunghi anni in cui lo conobbi feci l'esperienza ch'egli sempre esitava prima di fare le cose anche più semplici di cui veniva pregato. Egli non faceva che ciò che gli piaceva e, prima di consentire ad una preghiera, procedeva ad un'indagine nelle proprie cavità per vedere quello che laggiù si desiderava.

Poi in quella memoranda serata ci fu per me il quarto d'ora più felice. La mia chiacchierata capricciosa fece divertire tutti, Ada compresa. Era certamente dovuta alla mia eccitazione, ma anche al mio sforzo supremo di vincere quel violino minaccioso che s'avvicinava, s'avvicinava... E quel piccolo tratto di tempo che gli altri per opera mia sentirono come tanto divertente, io lo ricordo dedicato ad una lotta affannosa.

Giovanni aveva raccontato che nel tram, sul quale era rincasato, aveva assistito ad una scena penosa. Una donna ne era scesa quando il veicolo era ancora in movimento e tanto malamente da cadere e ferirsi. Giovanni descriveva con un poco di esagerazione la sua ansia all'accorgersi che quella donna s'apprestava a fare quel salto e in modo tale che era evidente sarebbe stata atterrata e forse travolta. Era ben doloroso di prevedere e di non essere più in tempo di salvare.

Io ebbi una trovata. Raccontai che per quelle vertigini che in passato m'avevano fatto soffrire, avevo scoperto un rimedio. Quando vedevo un ginnasta fare i suoi esercizi troppo in alto, o quando assistevo alla discesa da un tram in corsa di persona troppo vecchia o poco abile, mi liberavo da ogni ansia augurando loro dei malanni.

Arrivavo persino a modulare le parole con cui auguravo loro di precipitare e sfracellarsi. Ciò mi tranquillava enormemente per cui potevo assistere del tutto inerte alla minaccia della disgrazia. Se i miei augurii poi non si compivano, potevo dirmi ancora più contento.

Guido fu incantato della mia idea che gli pareva una scoperta psicologica. L'analizzava come faceva di tutte le inezie, non vedeva l'ora di poter provare il rimedio. Ma faceva una riserva: che i malaugurii non facessero aumentare le disgrazie. Ada s'associò al suo riso ed ebbe per me persino un'occhiata d'ammirazione. Io, baggeo, ne ebbi una grande soddisfazione. Ma scoprii che non era vero ch'io non avrei più saputo perdonarle: anche questo era un grande vantaggio.

Si rise insieme moltissimo, da buoni ragazzi che si vogliono bene. Ad un certo momento ero rimasto da una parte del salotto, solo con zia Rosina. Essa parlava ancora del tavolino. Abbastanza grassa, stava immobile sulla sua sedia e mi parlava senza guardarmi. Io trovai il modo di far capire agli altri che mi seccavo e tutti mi guardavano, senza farsi vedere dalla zia, ridendo discretamente.

Per aumentare l'ilarità mi pensai di dirle senz'alcuna preparazione:

- Ma Lei, signora, è molto rimessa, la trovo ringiovanita.

Ci sarebbe stato da ridere se essa si fosse arrabbiata. Ma la signora invece di arrabbiarsi mi si dimostrò gratissima e mi raccontò che infatti s'era molto rimessa dopo di una recente malattia. Fui tanto stupito da quella risposta che la mia faccia dovette assumere un aspetto molto comico così che l'ilarità che aveva sperata non mancò. Poco dopo l'enigma mi fu spiegato. Seppi, cioè, che non era zia Rosina, ma zia Maria, una sorella della signora Malfenti. Avevo così eliminato da quel salotto una fonte di malessere per me, ma non la maggiore.

A un dato momento Guido domandò il violino. Faceva a meno per quella sera dell'accompagnamento del piano, eseguendo la Chaconne. Ada gli porse il violino con un sorriso di ringraziamento. Egli non la guardò, ma guardò il violino come se avesse voluto segregarsi seco e con l'ispirazione. Poi si mise in mezzo al salotto volgendo la schiena a buona parte della piccola società, toccò lievemente le corde con l'arco per accordarle e fece anche qualche arpeggio. S'interruppe per dire con un sorriso:

- Un bel coraggio il mio, quando si pensi che non ho toccato il violino dall'ultima volta in cui suonai qui!

Ciarlatano! Egli volgeva le spalle anche ad Ada. Io la guardai ansiosamente per vedere se essa ne soffrisse. Non pareva! Aveva poggiato il gomito su un tavolino e il mento sulla mano raccogliendosi per ascoltare.

Poi, contro di me, si mise il grande Bach in persona. Giammai, né prima né poi, arrivai a sentire a quel modo la bellezza di quella musica nata su quelle quattro corde come un angelo di Michelangelo in un blocco di marmo. Solo il mio stato d'animo era nuovo per me e fu desso che m'indusse a guardare estatico in su, come a cosa novissima. Eppure io lottavo per tenere quella musica lontana da me. Mai cessai di pensare: "Bada! Il violino è una sirena e si può far piangere con esso anche senz'avere il cuore di un eroe!". Fui assaltato da quella musica che mi prese.

Mi parve dicesse la mia malattia e i miei dolori con indulgenza e mitigandoli con sorrisi e carezze. Ma era Guido che parlava! Ed io cercavo di sottrarmi alla musica dicendomi: "Per saper fare ciò, basta disporre di un organismo ritmico, una mano sicura e una capacità d'imitazione; tutte cose che io non ho, ciò che non è un'inferiorità, ma una sventura".

Io protestavo, ma Bach procedeva sicuro come il destino. Cantava in alto con passione e scendeva a cercare il basso ostinato che sorprendeva per quanto l'orecchio e il cuore l'avessero anticipato: proprio al suo posto! Un attimo più tardi e il canto sarebbe dileguato e non avrebbe potuto essere raggiunto dalla risonanza; un attimo prima e si sarebbe sovrapposto al canto, strozzandolo. Per Guido ciò non avveniva: non gli tremava il braccio neppure affrontando Bach e ciò era una vera inferiorità.

Oggi che scrivo ho tutte le prove di ciò. Non gioisco per aver visto allora tanto esattamente. Allora ero pieno di odio e quella musica, ch'io accettavo come la mia anima stessa, non seppe addolcirlo. Poi venne la vita volgare di ogni giorno e l'annullò senza che da parte mia vi fosse alcuna resistenza. Si capisce! La vita volgare sa fare tante di quelle cose. Guai se i geni se ne accorgessero!

Guido cessò di suonare sapientemente. Nessuno plaudì fuori di Giovanni, e per qualche istante nessuno parlò. Poi, purtroppo, sentii io il bisogno di parlare. Come osai di farlo davanti a gente che il mio violino conosceva? Pareva parlasse il mio violino che invano anelava alla musica e biasimasse l'altro sul quale - non si poteva negarlo - la musica era divenuta vita, luce ed aria.

- Benissimo! - dissi e aveva tutto il suono di una concessione più che di un applauso. - Ma però non capisco perché, verso la chiusa, abbiate voluto scandere quelle note che il Bach segnò legate.

Io conoscevo la Chaconne nota per nota. C'era stata un'epoca in cui avevo creduto che, per progredire, avrei dovuto affrontare di simili imprese e per lunghi mesi passai il tempo a compitare battuta per battuta alcune composizioni del Bach.

Sentii che in tutto il salotto non v'era per me che biasimo e derisione. Eppure parlai ancora lottando contro quell'ostilità.

- Bach - aggiunsi - è tanto modesto nei suoi mezzi che non ammette un arco fatturato a quel modo.

Io avevo probabilmente ragione, ma era anche certo ch'io non avrei neppur saputo fatturare l'arco a quel modo.

Guido fu subito altrettanto spropositato quanto lo ero stato io. Dichiarò:

- Forse Bach non conosceva la possibilità di quell'espressione. Gliela regalo io!

Egli montava sulle spalle di Bach, ma in quell'ambiente nessuno protestò mentre mi si aveva deriso perché io avevo tentato di montare soltanto sulle sue.

Allora avvenne una cosa di minima importanza, ma che fu per me decisiva. Da una stanza abbastanza lontana da noi echeggiarono le urla della piccola Anna. Come si seppe poi, era caduta insanguinandosi le labbra. Fu così ch'io per qualche minuto mi trovai solo con Ada perché tutti uscirono di corsa dal salotto. Guido, prima di seguire gli altri, aveva posto il suo prezioso violino nelle mani di Ada.

 

- Volete dare a me quel violino? - domandai io ad Ada vedendola esitante se seguire gli altri. Davvero che non m'ero ancora accorto che l'occasione tanto sospirata s'era finalmente presentata.

Ella esitò, ma poi una sua strana diffidenza ebbe il sopravvento. Trasse il violino ancora meglio a sé:

- No - rispose, - non occorre ch'io vada con gli altri. Non credo che Anna si sia fatta tanto male. Essa strilla per nulla.

Sedette col suo violino e a me parve che con quest'atto essa m'avesse invitato di parlare. Del resto, come avrei potuto io andar a casa senz'aver parlato? Che cosa avrei poi fatto in quella lunga notte? Mi vedevo ribaltarmi da destra a sinistra nel mio letto o correre per le vie o le bische in cerca di svago. No! Non dovevo abbandonare quella casa senz'essermi procurata la chiarezza e la calma.

Cercai di essere semplice e breve. Vi ero anche costretto perché mi mancava il fiato. Le dissi:

- Io vi amo, Ada. Perché non mi permettereste di parlarne a vostro padre?

Ella mi guardò stupita e spaventata. Temetti che si mettesse a strillare come la piccina, là fuori. Io sapevo che il suo occhio sereno e la sua faccia dalle linee tanto precise non sapevano l'amore, ma tanto lontana dall'amore come ora, non l'avevo mai vista. Incominciò a parlare e disse qualcosa che doveva essere come un esordio. Ma io volevo la chiarezza: un sì o un no! Forse m'offendeva già quanto mi pareva un'esitazione. Per fare presto e indurla a decidersi, discussi il suo diritto di prendersi tempo:

- Ma come non ve ne sareste accorta? A voi non era possibile di credere ch'io facessi la corte ad Augusta!

Volli mettere dell'enfasi nelle mie parole, ma, nella fretta, la misi fuori di posto e finì che quel povero nome di Augusta fu accompagnato da un accento e da un gesto di disprezzo.

Fu così che levai Ada dall'imbarazzo. Essa non rilevò altro che l'offesa fatta ad Augusta:

- Perché credete di essere superiore ad Augusta? Io non penso mica che Augusta accetterebbe di divenire vostra moglie!

Poi appena ricordò che mi doveva una risposta:

- In quanto a me... mi meraviglia che vi sia capitata una cosa simile in testa.

La frase acre doveva vendicare l'Augusta. Nella mia grande confusione pensai che anche il senso della parola non avesse avuto altro scopo; se mi avesse schiaffeggiato credo che sarei stato esitante a studiarne la ragione. Perciò ancora insistetti:

- Pensateci, Ada. Io non sono un uomo cattivo. Sono ricco... Sono un po' bizzarro, ma mi sarà facile di correggermi.

Anche Ada fu più dolce, ma parlò di nuovo di Augusta.

- Pensateci anche voi, Zeno: Augusta è una buona fanciulla e farebbe veramente al caso vostro. Io non posso parlare per conto suo, ma credo...

Era una grande dolcezza di sentirmi invocare da Ada per la prima volta col mio prenome. Non era questo un invito a parlare ancora più chiaro? Forse era perduta per me, o almeno non avrebbe accettato subito di sposarmi, ma intanto bisognava evitare che si compromettesse di più con Guido sul conto del quale dovevo aprirle gli occhi.

Fui accorto, e prima di tutto le dissi che stimavo e rispettavo Augusta, ma che assolutamente non volevo sposarla. Lo dissi due volte per farmi intendere chiaramente: "io non volevo sposarla". Così potevo sperare di aver rabbonita Ada che prima aveva creduto io volessi offendere Augusta.

- Una buona, una cara, un'amabile ragazza quell'Augusta; ma non fa per me.

Poi appena precipitai le cose, perché c'era del rumore sul corridoio e mi poteva essere tagliata la parola da un momento all'altro.

- Ada! Quell'uomo non fa per voi. È un imbecille! Non v'accorgeste come sofferse per i responsi del tavolino? Avete visto il suo bastone? Suona bene il violino, ma vi sono anche delle scimmie che sanno suonarlo. Ogni sua parola tradisce il bestione...

Essa, dopo d'esser stata ad ascoltarmi con l'aspetto di chi non sa risolversi ad ammettere nel loro senso le parole che gli sono dirette, m'interruppe. Balzò in piedi sempre col violino e l'arco in mano e mi soffiò addosso delle parole offensive. Io feci del mio meglio per dimenticarle e vi riuscii. Ricordo solo che cominciò col domandarmi ad alta voce come avevo potuto parlare così di lui e di lei! Io feci gli occhi grandi dalla sorpresa perché mi pareva di non aver parlato che di lui solo. Dimenticai le tante parole sdegnose ch'essa mi diresse, ma non la sua bella, nobile e sana faccia arrossata dallo sdegno e dalle linee rese più precise, quasi marmoree, dall'indignazione. Quella non dimenticai più e quando penso al mio amore e alla mia giovinezza, rivedo la faccia bella e nobile e sana di Ada nel momento in cui essa m'eliminò definitivamente dal suo destino.

Ritornarono tutti in gruppo intorno alla signora Malfenti che teneva in braccio Anna ancora piangente. Nessuno si occupò di me o di Ada ed io, senza salutare nessuno, uscii dal salotto; nel corridoio presi il mio cappello. Curioso! Nessuno veniva a trattenermi. Allora mi trattenni da solo, ricordando ch'io non dovevo mancare alle regole della buona educazione e che perciò prima di andarmene dovevo salutare compitamente tutti. Vero è che non dubito io non sia stato impedito di abbandonare quella casa dalla convinzione che troppo presto sarebbe cominciata per me la notte ancora peggiore delle cinque notti che l'avevano preceduta. Io che finalmente avevo la chiarezza, sentivo ora un altro bisogno: quello della pace, la pace con tutti. Se avessi saputo eliminare ogni asprezza dai miei rapporti con Ada e con tutti gli altri, mi sarebbe stato più facile di dormire. Perché aveva da sussistere tale asprezza? Se non potevo prendermela neppure con Guido il quale se anche non ne aveva alcun merito, certamente non aveva nessuna colpa di essere stato preferito da Ada!

Essa era la sola che si fosse accorta della mia passeggiata sul corridoio e, quando mi vide ritornare, mi guardò ansiosa. Temeva di una scena? Subito volli rassicurarla. Le passai accanto e mormorai:

- Scusate se vi ho offesa!

Essa prese la mia mano e, rasserenata, la strinse. Fu un grande conforto. Io chiusi per un istante gli occhi per isolarmi con la mia anima e vedere quanta pace gliene fosse derivata.

Il mio destino volle che mentre tutti ancora si occupavano della bimba, io mi trovassi seduto accanto ad Alberta. Non l'avevo vista e di lei non m'accorsi che quando essa mi parlò dicendomi:

- Non s'è fatta nulla. Il grave è la presenza di papà il quale, se la vede piangere, le fa un bel regalo. Io cessai dall'analizzarmi perché mi vidi intero! Per avere la pace io avrei dovuto fare in modo che quel salotto non mi fosse mai più interdetto. Guardai Alberta! Somigliava ad Ada! Era un po' di lei più piccola e portava sul suo organismo evidenti dei segni non ancora cancellati dell'infanzia. Facilmente alzava la voce, e il suo riso spesso eccessivo le contraeva la faccina e gliel'arrossava. Curioso! In quel momento ricordai una raccomandazione di mio padre: "Scegli una donna giovine e ti sarà più facile di educarla a modo tuo". Il ricordo fu decisivo. Guardai ancora Alberta. Nel mio pensiero m'industriavo di spogliarla e mi piaceva così dolce e tenerella come supposi fosse.

Le dissi:

- Sentite, Alberta! Ho un'idea: avete mai pensato che siete nell'età di prendere marito?

- Io non penso di sposarmi! - disse essa sorridendo e guardandomi mitemente, senz'imbarazzo o rossore. - Penso invece di continuare i miei studii. Anche mamma lo desidera.

- Potreste continuare gli studii anche dopo sposata.

Mi venne un'idea che mi parve spiritosa e le dissi subito:

- Anch'io penso d'iniziarli dopo essermi sposato.

Essa rise di cuore, ma io m'accorsi che perdevo il mio tempo, perché non era con tali scipitezze che si poteva conquistare una moglie e la pace. Bisognava essere serii. Qui poi era facile perché venivo accolto tutt'altrimenti che da Ada. Fui veramente serio. La mia futura moglie doveva intanto sapere tutto. Con voce commossa le dissi:

- Io, poco fa, ho indirizzata ad Ada la stessa proposta che ora feci a voi. Essa rifiutò con sdegno. Potete figurarvi in quale stato io mi trovi.

Queste parole accompagnate da un atteggiamento di tristezza non erano altro che la mia ultima dichiarazione d'amore per Ada. Divenivo troppo serio e, sorridendo, aggiunsi:

- Ma credo che se voi accettaste di sposarmi, io sarei felicissimo e dimenticherei per voi tutto e tutti.

Essa si fece molto seria per dirmi:

- Non dovete offendervene, Zeno, perché mi dispiacerebbe. Io faccio una grande stima di voi. So che siete un buon diavolo eppoi, senza saperlo, sapete molte cose, mentre i miei professori sanno esattamente tutto quello che sanno. Io non voglio sposarmi. Forse mi ricrederò, ma per il momento non ho che una mèta: vorrei diventare una scrittrice. Vedete quale fiducia vi dimostro. Non lo dissi mai a nessuno e spero non mi tradirete. Dal canto mio, vi prometto che non ripeterò a nessuno la vostra proposta.

- Ma anzi potete dirlo a tutti! - la interruppi io con stizza. Mi sentivo di nuovo sotto la minaccia di essere espulso da quel salotto e corsi al riparo. C'era poi un solo modo per attenuare in Alberta l'orgoglio di aver potuto respingermi ed io l'adottai non appena lo scopersi. Le dissi:

- Io ora farò la stessa proposta ad Augusta e racconterò a tutti che la sposai perché le sue due sorelle mi rifiutarono!

Ridevo di un buon umore eccessivo che m'aveva colto in seguito alla stranezza del mio procedere.

Non era nella parola che mettevo lo spirito di cui ero tanto orgoglioso, ma nelle azioni.

Mi guardai d'intorno per trovare Augusta. Era uscita sul corridoio con un vassoio sul quale non v'era che un bicchiere semivuoto contenente un calmante per Anna. La seguii di corsa chiamandola per nome ed essa s'addossò alla parete per aspettarmi. Mi misi a lei di faccia e subito le dissi:

- Sentite, Augusta, volete che noi due ci sposiamo?

La proposta era veramente rude. Io dovevo sposare lei e lei me, ed io non domandavo quello ch'essa pensasse né pensavo potrebbe toccarmi di essere io costretto di dare delle spiegazioni. Se non facevo altro che quello che tutti volevano!

Essa alzò gli occhi dilatati dalla sorpresa. Così quello sbilenco era anche più differente del solito dall'altro. La sua faccia vellutata e bianca, dapprima impallidì di più, eppoi subito si congestionò. Con un filo di voce mi disse:

- Voi scherzate e ciò è male.

Temetti si mettesse a piangere ed ebbi la curiosa idea di consolarla dicendole della mia tristezza.

- Io non scherzo, - dissi serio e triste. - Domandai dapprima la sua mano ad Ada che me la rifiutò con ira, poi domandai ad Alberta di sposarmi ed essa, con belle parole, vi si rifiutò anch'essa. Non serbo rancore né all'una né all'altra. Solo mi sento molto, ma molto infelice.

Dinanzi al mio dolore essa si ricompose e si mise a guardarmi commossa, riflettendo intensamente. Il suo sguardo somigliava ad una carezza che non mi faceva piacere.

- Io devo dunque sapere e ricordare che voi non mi amate? - domandò.

Che cosa significava questa frase sibillina? Preludiava ad un consenso? Voleva ricordare! Ricordare per tutta la vita da trascorrersi con me? Ebbi il sentimento di chi per ammazzarsi si sia messo in una posizione pericolosa ed ora sia costretto a faticare per salvarsi. Non sarebbe stato meglio che anche Augusta m'avesse rifiutato e che mi fosse stato concesso di ritornare sano e salvo nel mio studiolo nel quale neppure quel giorno stesso m'ero sentito troppo male? Le dissi:

- Sì! Io non amo che Ada e sposerei ora voi...

Stavo per dirle che non potevo rassegnarmi di divenire un estraneo per Ada e che perciò mi contentavo di divenirle cognato. Sarebbe stato un eccesso, ed Augusta avrebbe di nuovo potuto credere che volessi dileggiarla. Perciò dissi soltanto:

- Io non so più rassegnarmi di restar solo.

Essa rimaneva tuttavia poggiata alla parete del cui sostegno forse sentiva il bisogno; però pareva più calma ed il vassoio era ora tenuto da una sola mano. Ero salvo e cioè dovevo abbandonare quel salotto, o potevo restarci e dovevo sposarmi? Dissi delle altre parole, solo perché impaziente di aspettare le sue che non volevano venire:

- Io sono un buon diavolo e credo che con me si possa vivere facilmente anche senza che ci sia un grande amore.

Questa era una frase che nei lunghi giorni precedenti avevo preparata per Ada per indurla a dirmi di sì anche senza sentire per me un grande amore.

Augusta ansava leggermente e taceva ancora. Quel silenzio poteva anche significare un rifiuto, il più delicato rifiuto che si potesse immaginare: io quasi sarei scappato in cerca del mio cappello, in tempo per porlo su una testa salva.

Invece Augusta, decisa, con un movimento dignitoso che mai dimenticai, si rizzò e abbandonò il sostegno della parete. Nel corridoio non largo essa si avvicinò così ancora di più a me che le stavo di faccia. Mi disse:

- Voi, Zeno, avete bisogno di una donna che voglia vivere per voi e vi assista. Io voglio essere quella donna.

Mi porse la mano paffutella ch'io quasi istintivamente baciai. Evidentemente non c'era più la possibilità di fare altrimenti. Devo poi confessare che in quel momento fui pervaso da una soddisfazione che m'allargò il petto. Non avevo più da risolvere niente, perché tutto era stato risolto. Questa era la vera chiarezza.

Fu così che mi fidanzai. Fummo subito festeggiatissimi. Il mio somigliava un poco al grande successo del violino di Guido, tanti furono gli applausi di tutti. Giovanni mi baciò e mi diede subito del tu. Con eccessiva espressione di affetto mi disse:

- Mi sentivo tuo padre da molto tempo, dacché cominciai a darti dei consigli per il tuo commercio.

La mia futura suocera mi porse anch'essa la guancia che sfiorai. A quel bacio non sarei sfuggito neppure se avessi sposato Ada.

- Vede ch'io avevo indovinato tutto, - mi disse con una disinvoltura incredibile e che non fu punita perché io non seppi né volli protestare.

Essa poi abbracciò Augusta e la grandezza del suo affetto si rivelò in un singhiozzo che le sfuggì interrompendo le sue manifestazioni di gioia. Io non potevo soffrire la signora Malfenti, ma devo dire che quel singhiozzo colorì, almeno per tutta quella sera, di una luce simpatica e importante il mio fidanzamento.

Alberta, raggiante, mi strinse la mano:

- Io voglio essere per voi una buona sorella. - E Ada:

- Bravo, Zeno! - Poi, a bassa voce: - Sappiatelo: giammai un uomo che creda di aver fatta una cosa con precipitazione, ha agito più saviamente di voi.

Guido mi diede una grande sorpresa:

- Da questa mattina avevo capito che volevate una o l'altra delle signorine Malfenti, ma non arrivavo a sapere quale.

Non dovevano dunque essere molto intimi se Ada non gli aveva parlato della mia corte! Che avessi davvero agito precipitosamente?

Poco dopo però, Ada mi disse ancora:

- Vorrei che mi voleste bene come un fratello. Il resto sia dimenticato: io non dirò mai nulla a Guido.

Era del resto bello di aver provocata tanta gioia in una famiglia. Non potevo goderne molto, solo perché ero molto stanco. Ero anche assonnato. Ciò provava che avevo agito con grande accortezza. La mia notte sarebbe stata buona.

A cena Augusta ed io assistemmo muti ai festeggiamenti che ci venivano fatti. Essa sentì il bisogno di scusarsi della sua incapacità di prender parte alla conversazione generale:

- Non so dir nulla. Dovete ricordare che, mezz'ora fa, io non sapevo quello che stava per succedermi.

Essa diceva sempre l'esatta verità. Si trovava fra il riso e il pianto e mi guardò. Volli accarezzarla anch'io con l'occhio e non so se vi riuscii.

Quella stessa sera a quel tavolo subii un'altra lesione. Fui ferito proprio da Guido.


Pare che poco prima ch'io fossi giunto per prendere parte alla seduta spiritistica, Guido avesse raccontato che nella mattina io avevo dichiarato di non essere una persona distratta. Gli diedero subito tante di quelle prove ch'io avevo mentito che, per vendicarsi, (o forse per far vedere ch'egli sapeva disegnare) fece due mie caricature. Nella prima ero rappresentato come, col naso in aria, mi poggiavo su un ombrello puntato a terra. Nella seconda l'ombrello s'era spezzato e il manico m'era penetrato nella schiena. Le due caricature raggiungevano lo scopo e facevano ridere col mezzuccio semplice che l'individuo che doveva rappresentarmi - invero affatto somigliante, ma caratterizzato da una grande calvizie - era identico nel primo e nel secondo schizzo e si poteva perciò figurarselo tanto distratto da non aver cambiato di aspetto per il fatto che un ombrello lo aveva trafitto.

Tutti risero molto e anzi troppo. Mi dolse intensamente il tentativo tanto ben riuscito di gettare su me del ridicolo. E fu allora che per la prima volta fui colto dal mio dolore lancinante. Quella sera mi dolsero l'avambraccio destro e l'anca. Un intenso bruciore, un formicolio nei nervi come se avessero minacciato di rattrappirsi. Stupito portai la mano destra all'anca e con la mano sinistra afferrai l'avambraccio colpito. Augusta mi domandò:

- Che hai?

Risposi che sentivo un dolore al posto contuso da quella caduta al caffè della quale s'era parlato anche quella sera stessa.

Feci subito un energico tentativo per liberarmi da quel dolore. Mi parve che ne sarei guarito se avessi saputo vendicarmi dell'ingiuria che m'era stata fatta. Domandai un pezzo di carta ed una matita e tentai di disegnare un individuo che veniva oppresso da un tavolino ribaltatoglisi addosso. Misi poi accanto a lui un bastone sfuggitogli di mano in seguito alla catastrofe. Nessuno riconobbe il bastone e perciò l'offesa non riuscì quale io l'avrei voluta. Perché poi si riconoscesse chi fosse quell'individuo e come fosse capitato in quella posizione, scrissi di sotto: "Guido Speier alle prese col tavolino". Del resto di quel disgraziato sotto al tavolino non si vedevano che le gambe, che avrebbero potuto somigliare a quelle di Guido se non le avessi storpiate ad arte, e lo spirito di vendetta non fosse intervenuto a peggiorare il mio disegno già tanto infantile.

Il dolore assillante mi fece lavorare in grande fretta. Certo giammai il mio povero organismo fu talmente pervaso dal desiderio di ferire e se avessi avuta in mano la sciabola invece di quella matita che non sapevo muovere, forse la cura sarebbe riuscita.

Guido rise sinceramente del mio disegno, ma poi osservò mitemente:

- Non mi pare che il tavolino m'abbia nociuto!

Non gli aveva infatti nociuto ed era questa l'ingiustizia di cui mi dolevo.

Ada prese i due disegni di Guido e disse di voler conservarli. Io la guardai per esprimerle il mio rimprovero ed essa dovette stornare il suo sguardo dal mio. Avevo il diritto di rimproverarla perché faceva aumentare il mio dolore.

Trovai una difesa in Augusta. Essa volle che sul mio disegno mettessi la data del nostro fidanzamento perché voleva conservare anche lei quello sgorbio.

Un'onda calda di sangue inondò le mie vene a tale segno d'affetto che per la prima volta riconobbi tanto importante per me. Il dolore però non cessò e dovetti pensare che se quell'atto d'affetto mi fosse venuto da Ada, esso avrebbe provocata nelle mie vene una tale ondata di sangue che tutti i detriti accumulatisi nei miei nervi ne sarebbero stati spazzati via.

Quel dolore non m'abbandonò più. Adesso, nella vecchiaia, ne soffro meno perché, quando mi coglie, lo sopporto con indulgenza: "Ah! Sei qui, prova evidente che sono stato giovine?". Ma in gioventù fu altra cosa. Io non dico che il dolore sia stato grande, per quanto talvolta m'abbia impedito il libero movimento o mi abbia tenuto desto per notti intere. Ma esso occupò buona parte della mia vita. Volevo guarirne! Perché avrei dovuto portare per tutta la vita sul mio corpo stesso lo stigma del vinto? Divenire addirittura il monumento ambulante della vittoria di Guido? Bisognava cancellare dal mio corpo quel dolore.

Così cominciarono le cure. Ma, subito dopo, l'origine rabbiosa della malattia fu dimenticata e mi fu ora persino difficile di ritrovarla. Non poteva essere altrimenti: io avevo una grande fiducia nei medici che mi curarono e credetti loro sinceramente quando attribuirono quel dolore ora al ricambio ed ora alla circolazione difettosa, poi alla tubercolosi o a varie infezioni di cui qualcuna vergognosa. Devo poi confessare che tutte le cure m'arrecarono qualche sollievo temporaneo per cui ogni volta l'eventuale nuova diagnosi sembrava confermata. Prima o poi risultava meno esatta, ma non del tutto erronea, perché da me nessuna funzione è idealmente perfetta.

Una volta sola ci fu un vero errore: una specie di veterinario nelle cui mani m'ero posto, s'ostinò per lungo tempo ad attaccare il mio nervo sciatico coi suoi vescicanti e finì coll'essere beffato dal mio dolore che improvvisamente, durante una seduta, saltò dall'anca alla coppa, lungi perciò da ogni connessione col nervo sciatico. Il cerusico s'arrabbiò e mi mise alla porta ed io me ne andai - me lo ricordo benissimo - niente affatto offeso, ammirato invece che il dolore al nuovo posto non avesse cambiato per nulla. Rimaneva rabbioso e irraggiungibile come quando m'aveva torturata l'anca. È strano come ogni parte del nostro corpo sappia dolere allo stesso modo.

Tutte le altre diagnosi vivono esattissime nel mio corpo e si battono fra di loro per il primato. Vi sono delle giornate in cui vivo per la diatesi urica ed altre in cui la diatesi è uccisa, cioè guarita, da un'infiammazione delle vene. Io ho dei cassetti interi di medicinali e sono i soli cassetti miei che tengo io stesso in ordine. Io amo le mie medicine e so che quando ne abbandono una, prima o poi vi ritornerò. Del resto non credo di aver perduto il mio tempo. Chissà da quanto tempo e di quale malattia io sarei già morto se il mio dolore in tempo non le avesse simulate tutte per indurmi a curarle prima ch'esse m'afferrassero.

Ma pur senza saper spiegarne l'intima natura, io so quando il mio dolore per la prima volta si formò. Proprio per quel disegno tanto migliore del mio.

Una goccia che fece traboccare il vaso! Io sono sicuro di non aver mai prima sentito quel dolore. Ad un medico volli spiegarne l'origine, ma non m'intese. Chissà? Forse la psico-analisi porterà alla luce tutto il rivolgimento che il mio organismo subì in quei giorni e specialmente nelle poche ore che seguirono al mio fidanzamento.

Non furono neppure poche, quelle ore!

Quando, tardi, la compagnia si sciolse, Augusta lietamente mi disse:

- A domani!

L'invito mi piacque perché provava che avevo raggiunto il mio scopo e che niente era finito e tutto avrebbe continuato il giorno appresso. Essa mi guardò negli occhi e trovò i miei vivamente annuenti così da confortarla. Scesi quegli scalini, che non contai più, domandandomi:

- Chissà se l'amo?

È un dubbio che m'accompagnò per tutta la vita e oggidì posso pensare che l'amore accompagnato da tanto dubbio sia il vero amore.

Ma neppure dopo abbandonata quella casa, mi fu concesso di andar a coricarmi e raccogliere il frutto della mia attività di quella serata in un sonno lungo e ristoratore. Faceva caldo. Guido sentì il bisogno di un gelato e m'invitò ad accompagnarlo ad un caffè. S'aggrappò amichevolmente al mio braccio ed io, altrettanto amichevolmente, sostenni il suo. Egli era una persona molto importante per me e non avrei saputo rifiutargli niente. La grande stanchezza che avrebbe dovuto cacciarmi a letto, mi rendeva più arrendevole del solito.

Entrammo proprio nella bottega ove il povero Tullio m'aveva infettato con la sua malattia, e ci mettemmo a sedere ad un tavolo appartato. Sulla via il mio dolore che io ancora non sapevo quale compagno fedele mi sarebbe stato, m'aveva fatto soffrire molto e, per qualche istante, mi parve si attenuasse perché mi fu concesso di sedere.

La compagnia di Guido fu addirittura terribile. S'informava con grande curiosità della storia dei miei amori con Augusta. Sospettava ch'io lo ingannassi? Gli dissi sfacciatamente che io di Augusta m'ero innamorato subito alla mia prima visita in casa Malfenti. Il mio dolore mi rendeva ciarliero, quasi avessi voluto gridare più di esso. Ma parlai troppo e se Guido fosse stato più attento si sarebbe accorto che io non ero tanto innamorato di Augusta. Parlai della cosa più interessante nel corpo di Augusta, cioè quell'occhio sbilenco che a torto faceva credere che anche il resto non fosse al suo vero posto. Poi volli spiegare perché non mi fossi fatto avanti prima. Forse Guido era meravigliato di avermi visto capitare in quella casa all'ultimo momento per fidanzarmi. Urlai:

- Intanto le signorine Malfenti sono abituate ad un grande lusso ed io non potevo sapere se ero al caso di addossarmi una cosa simile.

Mi dispiacque di aver così parlato anche di Ada, ma non v'era più rimedio; era tanto difficile di isolare Augusta da Ada! Continuai abbassando la voce per sorvegliarmi meglio:

- Dovetti perciò fare dei calcoli. Trovai che il mio denaro non bastava. Allora mi misi a studiare se potevo allargare il mio commercio.

Dissi poi che, per fare quei calcoli, avevo avuto bisogno di molto tempo e che perciò m'ero astenuto dal far visita ai Malfenti per cinque giorni.

Finalmente la lingua abbandonata a se stessa era arrivata ad un po' di sincerità. Ero vicino al pianto e, premendomi l'anca, mormorai:

- Cinque giorni son lunghi!

Guido disse che si compiaceva di scoprire in me una persona tanto previdente.

Io osservai seccamente:

- La persona previdente non è più gradevole della stordita!

Guido rise:

- Curioso che il previdente senta il bisogno di difendere lo stordito!

Poi, senz'altra transizione, mi raccontò seccamente ch'egli era in procinto di domandare la mano di Ada. M'aveva trascinato al caffè per farmi quella confessione oppure s'era seccato di aver dovuto starmi a sentire per tanto tempo a parlare di me e si procurava la rivincita?

Io sono quasi sicuro d'esser riuscito a dimostrare la massima sorpresa e la massima compiacenza. Ma subito dopo trovai il modo di addentarlo vigorosamente:

- Adesso capisco perché ad Ada piacque tanto quel Bach svisato a quel modo! Era ben suonato, ma gli Otto proibiscono di lordare in certi posti.

La botta era forte e Guido arrossì dal dolore. Fu mite nella risposta perché ora gli mancava l'appoggio di tutto il suo piccolo pubblico entusiasta.

- Dio mio! - cominciò per guadagnar tempo. - Talvolta suonando si cede ad un capriccio. In quella stanza pochi conoscevano il Bach ed io lo presentai loro un poco modernizzato.

Parve soddisfatto della sua trovata, ma io ne fui soddisfatto altrettanto perché mi parve una scusa e una sommissione. Ciò bastò a mitigarmi e, del resto, per nulla al mondo avrei voluto litigare col futuro marito di Ada. Proclamai che raramente avevo sentito un dilettante che suonasse così bene.

A lui non bastò: osservò ch'egli poteva essere considerato quale un dilettante, solo perché non accettava di presentarsi come professionista.

Non voleva altro? Gli diedi ragione. Era evidente ch'egli non poteva essere considerato quale un dilettante.

Così fummo di nuovo buoni amici.

Poi, di punto in bianco, egli si mise a dir male delle donne. Restai a bocca aperta! Ora che lo conosco meglio, so ch'egli si lancia a un discorrere abbondante in qualsiasi direzione quando si crede sicuro di piacere al suo interlocutore. Io, poco prima, avevo parlato del lusso delle signorine Malfenti, ed egli ricominciò a parlare di quello per finire col dire di tutte le altre cattive qualità delle donne. La mia stanchezza m'impediva d'interromperlo e mi limitavo a continui segni d'assenso ch'erano già troppo faticosi per me. Altrimenti, certo, avrei protestato. Io sapevo ch'io avevo ogni ragione di dir male delle donne rappresentate per me da Ada, Augusta e dalla mia futura suocera; ma lui non aveva alcuna ragione di prendersela col sesso rappresentato per lui dalla sola Ada che l'amava.

Era ben dotto, e ad onta della mia stanchezza stetti a sentirlo con ammirazione. Molto tempo dopo scopersi ch'egli aveva fatte sue le geniali teorie del giovine suicida Weininger. Per allora subivo il peso di un secondo Bach. Mi venne persino il dubbio ch'egli volesse curarmi. Perché altrimenti avrebbe voluto convincermi che la donna non sa essere né geniale né buona? A me parve che la cura non riuscì perché somministrata da Guido.

Ma conservai quelle teorie e le perfezionai con la lettura del Weininger. Non guariscono però mai, ma sono una comoda compagnia quando si corre dietro alle donne.

Finito il suo gelato, Guido sentì il bisogno di una boccata d'aria fresca e m'indusse ad accompagnarlo ad una passeggiata verso la periferia della città.

Ricordo: da giorni, in città, si anelava ad un poco di pioggia da cui si sperava qualche sollievo al caldo anticipato. Io non m'ero neppure accorto di quel caldo. Quella sera il cielo aveva cominciato a coprirsi di leggere nubi bianche, di quelle da cui il popolo spera la pioggia abbondante, ma una grande luna s'avanzava nel cielo intensamente azzurro dov'era ancora limpido, una di quelle lune dalle guancie gonfie che lo stesso popolo crede capaci di mangiare le nubi. Era infatti evidente che là dov'essa toccava, scioglieva e nettava.

Volli interrompere il chiacchierio di Guido che mi costringeva ad un annuire continuo, una tortura, e gli descrissi il bacio nella luna scoperto dal poeta Zamboni: com'era dolce quel bacio nel centro delle nostre notti in confronto all'ingiustizia che Guido accanto a me commetteva! Parlando e scotendomi dal torpore in cui ero caduto a forza di assentire, mi parve che il mio dolore s'attenuasse. Era il premio per la mia ribellione e vi insistetti.

Guido dovette adattarsi di lasciare per un momento in pace le donne e guardare in alto. Ma per poco! Scoperta, in seguito alle mie indicazioni, la pallida immagine di donna nella luna, ritornò al suo argomento con uno scherzo di cui rise fortemente, ma solo lui, nella via deserta:

- Vede tante cose quella donna! Peccato ch'essendo donna non sa ricordarle.

Faceva parte della sua teoria (o di quella del Weininger) che la donna non può essere geniale perché non sa ricordare.

Arrivammo sotto la via Belvedere. Guido disse che un po' di salita ci avrebbe fatto bene. Anche questa volta lo compiacqui. Lassù, con uno di quei movimenti che si confanno meglio ai giovanissimi ragazzi, egli si sdraiò sul muricciuolo che arginava la via da quella sottostante. Gli pareva di fare un atto di coraggio esponendosi ad una caduta di una diecina di metri. Sentii dapprima il solito ribrezzo al vederlo esposto a tanto pericolo, ma poi ricordai il sistema da me escogitato quella sera stessa, in uno slancio d'improvvisazione, per liberarmi da quell'affanno e mi misi ad augurare ferventemente ch'egli cadesse.

In quella posizione egli continuava a predicare contro le donne. Diceva ora che abbisognavano di giocattoli come i bambini, ma di alto prezzo. Ricordai che Ada diceva di amare molto i gioielli. Era dunque proprio di lei ch'egli parlava? Ebbi allora un'idea spaventosa! Perché non avrei fatto fare a Guido quel salto di dieci metri? Non sarebbe stato giusto di sopprimere costui che mi portava via Ada senz'amarla? In quel momento mi pareva che quando l'avessi ucciso, avrei potuto correre da Ada per averne subito il premio. Nella strana notte piena di luce, a me era parso ch'essa stesse a sentire come Guido l'infamava.

Debbo confessare ch'io in quel momento m'accinsi veramente ad uccidere Guido! Ero in piedi accanto a lui ch'era sdraiato sul basso muricciuolo ed esaminai freddamente come avrei dovuto afferrarlo per essere sicuro del fatto mio.

Poi scopersi che non avevo neppur bisogno di afferrarlo. Egli giaceva sulle proprie braccia incrociate dietro la testa, e sarebbe bastata una buona spinta improvvisa per metterlo senza rimedio fuori d'equilibrio.

Mi venne un'altra idea che mi parve tanto importante da poter compararla alla grande luna che s'avanzava nel cielo nettandolo: avevo accettato di fidanzarmi ad Augusta per essere sicuro di dormir bene quella notte. Come avrei potuto dormire se avessi ammazzato Guido? Quest'idea salvò me e lui. Volli subito abbandonare quella posizione nella quale sovrastavo a Guido e che mi seduceva a quell'azione. Mi piegai sulle ginocchia abbattendomi su me stesso e arrivando quasi a toccare il suolo con la mia testa:

- Che dolore, che dolore! - urlai.

Spaventato, Guido balzò in piedi a domandarmi delle spiegazioni. Io continuai a lamentarmi più mitemente senza rispondere. Sapevo perché mi lamentavo: perché avevo voluto uccidere e forse, anche, perché non avevo saputo farlo. Il dolore e il lamento scusavano tutto. Mi pareva di gridare ch'io non avevo voluto uccidere e mi pareva anche di gridare che non era colpa mia se non avevo saputo farlo. Tutto era colpa della mia malattia e del mio dolore. Invece ricordo benissimo che proprio allora il mio dolore scomparve del tutto e che il mio lamento rimase una pura commedia cui io invano cercai di dare un contenuto evocando il dolore e ricostruendolo per sentirlo e soffrirne. Ma fu uno sforzo vano perché esso non ritornò che quando volle.

Come al solito Guido procedeva per ipotesi. Fra altro mi domandò se non si fosse trattato dello stesso dolore prodotto da quella caduta al caffè. L'idea mi parve buona e assentii.

Egli mi prese per il braccio e, amorevolmente, mi fece rizzare. Poi, con ogni riguardo, sempre appoggiandomi, mi fece scendere la piccola erta. Quando fummo giù, dichiarai che mi sentivo un poco meglio e che credevo che, appoggiato a lui, avrei potuto procedere più spedito. Così si andava finalmente a letto! Poi era la prima vera grande soddisfazione che quel giorno mi fosse stata accordata. Egli lavorava per me, perché quasi mi portava. Ero io che finalmente gl'imponevo il mio volere.

Trovammo una farmacia ancora aperta ed egli ebbe l'idea di mandarmi a letto accompagnato da un calmante. Costruì tutta una teoria sul dolore reale e sul sentimento esagerato dello stesso: un dolore si moltiplicava per l'esasperazione ch'esso stesso aveva prodotta. Con quella bottiglietta s'iniziò la mia raccolta di medicinali, e fu giusto fosse stata scelta da Guido.

Per dar base più solida alla sua teoria, egli suppose ch'io avessi sofferto di quel dolore da molti giorni. Mi spiacque di non poter compiacerlo. Dichiarai che quella sera, in casa dei Malfenti, io non avevo sentito alcun dolore. Nel momento in cui m'era stata concessa la realizzazione del mio lungo sogno, evidentemente non avevo potuto soffrire.

E per essere sincero volli proprio essere come avevo asserito ch'io fossi e dissi più volte a me stesso: "Io amo Augusta, io non amo Ada. Amo Augusta e questa sera arrivai alla realizzazione del mio lungo sogno".

Così procedemmo nella notte lunare.

Suppongo che Guido fosse affaticato dal mio peso, perché finalmente ammutolì. Mi propose però di accompagnarmi fino a letto. Rifiutai e quando mi fu concesso di chiudere la porta di casa dietro di me, diedi un sospiro di sollievo. Ma certamente anche Guido dovette emettere lo stesso sospiro.

Feci gli scalini della mia villa a quattro a quattro e in dieci minuti fui a letto. M'addormentai presto e, nel breve periodo che precede il sonno, non ricordai né Ada né Augusta, ma il solo Guido, così dolce e buono e paziente. Certo, non avevo dimenticato che poco prima avevo voluto ucciderlo, ma ciò non aveva alcun'importanza perché le cose di cui nessuno sa e che non lasciarono delle tracce, non esistono.

Il giorno seguente mi recai alla casa della mia sposa un po' titubante. Non ero sicuro se gl'impegni presi la sera prima avessero il valore ch'io credevo di dover conferire loro. Scopersi che l'avevano per tutti. Anche Augusta riteneva d'essersi fidanzata, anzi più sicuramente di quanto lo credessi io.

Fu un fidanzamento laborioso. Io ho il senso di averlo annullato varie volte e ricostituito con grande fatica e sono sorpreso che nessuno se ne sia accorto. Mai non ebbi la certezza d'avviarmi proprio al matrimonio, ma pare che tuttavia io mi sia comportato da fidanzato abbastanza amoroso. Infatti io baciavo e stringevo al seno la sorella di Ada ogni qualvolta ne avevo la possibilità. Augusta subiva le mie aggressioni come credeva che una sposa dovesse ed io mi comportai relativamente bene, solo perché la signora Malfenti non ci lasciò soli che per brevi istanti. La mia sposa era molto meno brutta di quanto avessi creduto, e la sua più grande bellezza la scopersi baciandola: il suo rossore! Là dove baciavo sorgeva una fiamma in mio onore ed io baciavo più con la curiosità dello sperimentatore che col fervore dell'amante.

Ma il desiderio non mancò e rese un po' più lieve quella grave epoca. Guai se Augusta e sua madre non m'avessero impedito di bruciare quella fiamma in una sola volta come io spesso ne avrei avuto il desiderio. Come si avrebbe continuato a vivere allora? Almeno così il mio desiderio continuò a darmi sulle scale di quella casa la stessa ansia come quando le salivo per andare alla conquista di Ada. Gli scalini dispari mi promettevano che quel giorno avrei potuto far vedere ad Augusta che cosa fosse il fidanzamento ch'essa aveva voluto. Sognavo un'azione violenta che m'avrebbe ridato tutto il sentimento della mia libertà. Non volevo mica altro io ed è ben strano che quando Augusta intese quello ch'io volevo, l'abbia interpretato quale un segno di febbre d'amore.

Nel mio ricordo quel periodo si divide in due fasi. Nella prima la signora Malfenti ci faceva spesso sorvegliare da Alberta o cacciava nel salotto con noi la piccola Anna con una sua maestrina. Ada non fu allora mai associata in alcun modo a noi ed io dicevo a me stesso che dovevo compiacermene, mentre invece ricordo oscuramente di aver pensato una volta che sarebbe stata una bella soddisfazione per me di poter baciare Augusta in presenza di Ada. Chissà con quale violenza l'avrei fatto.

 

La seconda fase s'iniziò quando Guido ufficialmente si fidanzò con Ada e la signora Malfenti da quella pratica donna che era, unì le due coppie nello stesso salotto perché si sorvegliassero a vicenda.

Della prima fase so che Augusta si diceva perfettamente soddisfatta di me. Quando non l'assaltavo, divenivo di una loquacità straordinaria. La loquacità era un mio bisogno. Me ne procurai l'opportunità figgendomi in capo l'idea che giacché dovevo sposare Augusta, dovessi anche imprenderne l'educazione. L'educavo alla dolcezza, all'affetto e sopra tutto alla fedeltà. Non ricordo esattamente la forma che davo alle mie prediche di cui taluna m'è ricordata da lei che giammai le obliò. M'ascoltava attenta e sommessa. Io, una volta, nella foga dell'insegnamento, proclamai che se essa avesse scoperto un mio tradimento, ne sarebbe conseguito il suo diritto di ripagarmi della stessa moneta. Essa, indignata, protestò che neppure col mio permesso avrebbe saputo tradirmi e che, da un mio tradimento, a lei non sarebbe risultata che la libertà di piangere.

Io credo che tali prediche fatte per tutt'altro scopo che di dire qualche cosa, abbiano avuta una benefica influenza sul mio matrimonio. Di sincero v'era l'effetto ch'esse ebbero sull'animo di Augusta. La sua fedeltà non fu mai messa a prova perché dei miei tradimenti essa mai seppe nulla, ma il suo affetto e la sua dolcezza restarono inalterati nei lunghi anni che passammo insieme, proprio come l'avevo indotta a promettermelo.

Quando Guido si promise, la seconda fase del mio fidanzamento s'iniziò con un mio proponimento che fu espresso così: "Eccomi ben guarito del mio amore per Ada!". Fino ad allora avevo creduto che il rossore di Augusta fosse bastato per guarirmi, ma si vede che non si è mai guariti abbastanza! Il ricordo di quel rossore mi fece pensare ch'esso oramai ci sarebbe stato anche fra Guido e Ada. Questo, molto meglio di quell'altro, doveva abolire ogni mio desiderio.

È della prima fase il desiderio di violare Augusta. Nella seconda fui molto meno eccitato. La signora Malfenti non aveva certo sbagliato organizzando così la nostra sorveglianza con tanto piccolo suo disturbo.

Mi ricordo che una volta scherzando mi misi a baciare Augusta. Invece di scherzare con me, Guido si mise a sua volta a baciare Ada. Mi parve poco delicato da parte sua, perché egli non baciava castamente come avevo fatto io per riguardo a loro, ma baciava Ada proprio nella bocca che addirittura suggeva. Sono certo che in quell'epoca io m'ero già assueffatto a considerare Ada quale una sorella, ma non ero preparato a vederne far uso a quel modo. Dubito anche che ad un vero fratello piacerebbe di veder manipolare così la sorella.

Perciò, in presenza di Guido, io non baciai mai più Augusta. Invece Guido, in mia presenza, tentò un'altra volta di attirare a sé Ada, ma fu dessa che se ne schermì ed egli non ripeté più il tentativo.

Molto confusamente mi ricordo delle tante e tante sere che passammo insieme. La scena che si ripeté all'infinito, s'impresse nella mia mente così: tutt'e quattro eravamo seduti intorno al fine tavolo veneziano su cui ardeva una grande lampada a petrolio coperta da uno schermo di stoffa verde che metteva tutto nell'ombra, meno i lavori di ricamo cui le due fanciulle attendevano, Ada su un fazzoletto di seta che teneva libero in mano, Augusta su un piccolo telaio rotondo.

Vedo Guido perorare e dev'essere successo di spesso che sia stato io solo a dargli ragione. Mi ricordo ancora della testa di capelli neri lievemente ricciuti di Ada, rilevati da un effetto strano che vi produceva la luce gialla e verde.

Si discusse di quella luce e anche del colore vero di quei capelli. Guido, che sapeva anche dipingere, ci spiegò come si dovesse analizzare un colore. Neppure questo suo insegnamento non dimenticai più e ancora oggidì, quando voglio intendere meglio il colore di un paesaggio, socchiudo gli occhi finché non spariscano molte linee e non si vedano che le sole luci che anch'esse s'abbrunano nel solo e vero colore. Però, quando mi dedico ad un'analisi simile, sulla mia retina, subito dopo le immagini reali, quasi una reazione mia fisica, riappare la luce gialla e verde e i capelli bruni sui quali per la prima volta educai il mio occhio.

Non so dimenticare una sera che fra tutte fu rilevata da un'espressione di gelosia di Augusta e subito dopo anche da una mia riprovevole indiscrezione. Per farci uno scherzo, Guido e Ada erano andati a sedere lontano da noi, dall'altra parte del salotto, al tavolo Luigi XIV. Così io ebbi presto un dolore al collo che torcevo per parlare con loro. Augusta mi disse:

- Lasciali! Là si fa veramente all'amore.

Ed io, con una grande inerzia di pensiero, le dissi a bassa voce che non doveva crederlo perché Guido non amava le donne. Così m'era sembrato di scusarmi di essermi ingerito nei discorsi dei due amanti. Era invece una malvagia indiscrezione quella di riferire ad Augusta i discorsi sulle donne cui Guido s'abbandonava in mia compagnia, ma giammai in presenza di alcun altro della famiglia delle nostre spose. Il ricordo di quelle mie parole m'amareggiò per varii giorni, mentre posso dire che il ricordo di aver voluto uccidere Guido non m'aveva turbato neppure per un'ora. Ma uccidere e sia pure a tradimento, è cosa più virile che danneggiare un amico riferendo una sua confidenza.

Già allora Augusta aveva torto di essere gelosa di Ada. Non era per vedere Ada ch'io a quel modo torcevo il mio collo. Guido, con la sua loquacità, m'aiutava a trascorrere quel lungo tempo. Io gli volevo già bene e passavo una parte delle mie giornate con lui. Ero legato a lui anche dalla gratitudine che gli portavo per la considerazione in cui egli mi teneva e che comunicava agli altri. Persino Ada stava ora a sentirmi attentamente quando parlavo.

Ogni sera aspettavo con una certa impazienza il suono del gong che ci chiamava a cena, e di quelle cene ricordo principalmente la mia perenne indigestione. Mangiavo troppo per un bisogno di tenermi attivo. A cena abbondavo di parole affettuose per Augusta; proprio quanto la mia bocca piena me lo permetteva, e i genitori suoi potevano aver solo la brutta impressione che il grande mio affetto fosse diminuito dalla mia bestiale voracità. Si sorpresero che al mio ritorno dal viaggio di nozze non avessi riportato con me tanto appetito. Sparì quando non si esigette più da me di dimostrare una passione che non sentivo. Non è permesso di farsi veder freddo con la sposa dai suoi genitori nel momento in cui ci si accinge di andar a letto con essa! Augusta ricorda specialmente le affettuose parole che le mormoravo a quel tavolo.

Fra boccone e boccone devo averne inventate di magnifiche e resto stupito, quando mi vengono ricordate, perché non mi sembrerebbero mie.

Lo stesso mio suocero, Giovanni il furbo, si lasciò ingannare e, finché visse, quando voleva dare un esempio di una grande passione amorosa, citava la mia per sua figlia, cioè per Augusta. Ne sorrideva beato da quel buon padre ch'egli era, ma gliene derivava un aumento di disprezzo per me, perché secondo lui, non era un vero uomo colui che metteva tutto il proprio destino nelle mani di una donna e che sopra tutto non s'accorgeva che all'infuori della propria v'erano a questo mondo anche delle altre donne. Da ciò si vede che non sempre fui giudicato con giustizia.

Mia suocera, invece, non credette nel mio amore neppure quando la stessa Augusta vi si adagiò piena di fiducia.

Per lunghi anni essa mi squadrò con occhio diffidente, dubbiosa del destino della figliuola sua prediletta. Anche per questa ragione io sono convinto ch'essa deve avermi guidato nei giorni che mi condussero al fidanzamento. Era impossibile d'ingannare anche lei che deve aver conosciuto il mio animo meglio di me stesso.

Venne finalmente il giorno del mio matrimonio e proprio quel giorno ebbi un'ultima esitazione. Avrei dovuto essere dalla sposa alle otto del mattino, e invece alle sette e tre quarti mi trovavo ancora a letto fumando rabbiosamente e guardando la mia finestra su cui brillava, irridendo, il primo sole che durante quell'inverno fosse apparso. Meditavo di abbandonare Augusta! Diveniva evidente l'assurdità del mio matrimonio ora che non m'importava più di restar attaccato ad Ada. Non sarebbero mica avvenute di grandi cose se io non mi fossi presentato all'appuntamento! Eppoi: Augusta era stata una sposa amabile, ma non si poteva mica sapere come si sarebbe comportata la dimane delle nozze. E se subito m'avesse dato della bestia perché m'ero lasciato prendere a quel modo?

Per fortuna venne Guido, ed io, nonché resistere, mi scusai del mio ritardo asserendo di aver creduto che fosse stata stabilita un'altra ora per le nozze. Invece di rimproverarmi, Guido si mise a raccontare di sé e delle tante volte ch'egli, per distrazione, aveva mancato a degli appuntamenti. Anche in fatto di distrazione egli voleva essere superiore a me e dovetti non dargli altro ascolto per arrivare a uscir di casa. Così avvenne che andai al matrimonio a passo di corsa.

Arrivai tuttavia molto tardi. Nessuno mi rimproverò e tutti meno la sposa s'accontentarono di certe spiegazioni che Guido diede in vece mia. Augusta era tanto pallida che persino le sue labbra erano livide. Se anche non potevo dire di amarla, pure è certo che non avrei voluto farle del male. Tentai di riparare e commisi la bestialità d'attribuire al mio ritardo ben tre cause. Erano troppe e raccontavano con tanta chiarezza quello ch'io avevo meditato là nel mio letto, guardando il sole invernale, che si dovette ritardare la nostra partenza per la chiesa onde dar tempo ad Augusta di rimettersi.

All'altare dissi di sì distrattamente perché nella mia viva compassione per Augusta stavo escogitando una quarta spiegazione al mio ritardo e mi pareva la migliore di tutte.

 

Invece, quando uscimmo dalla chiesa, m'accorsi che Augusta aveva ricuperati tutti i suoi colori. Ne ebbi una certa stizza perché quel mio sì non avrebbe mica dovuto bastare a rassicurarla del mio amore. E mi preparavo a trattarla molto rudemente se si fosse rimessa da tanto da darmi della bestia perché m'ero lasciato prendere a quel modo. Invece, a casa sua, approfittò di un momento in cui ci lasciarono soli, per dirmi piangendo:

- Non dimenticherò mai che, pur non amandomi, mi sposasti.

Io non protestai perché la cosa era stata tanto evidente che non si poteva. Ma, pieno di compassione, l'abbracciai.

Poi di tutto questo non si parlò più fra me ed Augusta perché il matrimonio è una cosa ben più semplice del fidanzamento. Una volta sposati non si discute più d'amore e, quando si sente il bisogno di dirne, l'animalità interviene presto a rifare il silenzio. Ora tale animalità può essere divenuta tanto umana da complicarsi e falsificarsi ed avviene che, chinandosi su una capigliatura femminile, si faccia anche lo sforzo di evocarvi una luce che non c'è. Si chiudono gli occhi e la donna diventa un'altra per ridivenire lei quando la si abbandona. A lei s'indirizza tutta la gratitudine e maggiore ancora se lo sforzo riuscì. È per questo che se io avessi da nascere un'altra volta (madre natura è capace di tutto!) accetterei di sposare Augusta, ma mai di promettermi con lei.

Alla stazione Ada mi porse la guancia al bacio fraterno. Io la vidi solo allora, frastornato com'ero dalla tanta gente ch'era venuta ad accompagnarci e subito pensai: "Sei proprio tu che mi cacciasti in questi panni!" Avvicinai le mie labbra alla sua guancia vellutata badando di non sfiorarla neppure. Fu la prima soddisfazione di quel giorno, perché per un istante sentii quale vantaggio mi derivasse dal mio matrimonio: m'ero vendicato rifiutando d'approfittare dell'unica occasione che m'era stata offerta di baciare Ada! Poi, mentre il treno correva, seduto accanto ad Augusta, dubitai di non aver fatto bene. Temevo ne fosse compromessa la mia amicizia con Guido. Però soffrivo di più quando pensavo che forse Ada non s'era neppure accorta che non avevo baciata la guancia che mi aveva offerta.

Essa se ne era accorta, ma io non lo seppi che quando, a sua volta, molti mesi dopo, partì con Guido da quella stessa stazione. Tutti essa baciò. A me solo offerse con grande cordialità la mano. Io gliela strinsi freddamente. La sua vendetta arrivava proprio in ritardo perché le circostanze erano del tutto mutate. Dal ritorno dal mio viaggio di nozze avevamo avuti dei rapporti fraterni e non si poteva spiegare perché mi avesse escluso dal bacio.
 


Un altro esempio dell'
imprevedibilità e dell'assurdità del caso, che comunque lascia filtrare le intenzioni inconsce, nascoste abilmente dal protagonista, è la mancata partecipazione di Zeno al funerale del cognato Guido, il marito dell'amata e bella Ada. Guido si è suicidato per sbaglio, volendo fingere la morte ne è stato vittima. Le disavventure economiche di cui è stato responsabile, causate dalla sua insipienza commerciale, costituiscono l'esatto ribaltamento della sua apparente sicurezza nel mondo degli affari. Qui già notiamo un esempio di ironia oggettiva.

Ora l'inetto Zeno, che ha molte ragioni di
antagonismo inconscio con il defunto Guido ( soprattutto per il fatto che lo abbia sostituito nell'amore per Ada ) si accinge a prendere il suo posto, risanando l'azienda. Tutto impegnato a seguire i listini azionari anche nel giorno del suo funerale, si trova per sbaglio a seguire le esequie di un'altra persona, disertando quelle del congiunto.

Dunque ancora uno sbaglio - apparentemente curioso ed ironico - della sorte. In realtà la narrazione di quanto accade diviene spia simbolica del non detto: il disinteresse totale per Guido ed anzi il segreto compiacimento per la morte del rivale, che Zeno tenta in ogni modo di mistificare.
 

La morte dell'antagonista Cap VII

Nella stanza da letto matrimoniale il povero Guido giaceva abbandonato, coperto dal lenzuolo. La rigidezza già avanzata, esprimeva qui non una forza ma la grande stupefazione di essere morto senz'averlo voluto. Sulla sua faccia bruna e bella era impronto un rimprovero. Certamente non diretto a me.

Andai da Augusta a sollecitarla di venire ad assistere la sorella. Io ero molto commosso ed Augusta pianse abbracciandomi:

- Tu sei stato un fratello per lui, - mormorò. - Solo adesso io sono d'accordo con te di sacrificare una parte del nostro patrimonio per purificare la sua memoria.

Mi preoccupai di rendere ogni onore al mio povero amico. Intanto affissi alla porta dell'ufficio un bollettino che ne annunciava la chiusura per la morte del proprietario.

Composi io stesso l'avviso mortuario. Ma soltanto il giorno seguente, d'accordo con Ada, furono prese le disposizioni per il funerale. Seppi allora che Ada aveva deciso di seguire il feretro al cimitero. Voleva concedergli tutte le prove d'affetto che poteva. Poverina! Io sapevo quale dolore fosse quello del rimorso su una tomba. Ne avevo tanto sofferto anch'io alla morte di mio padre.

Passai il pomeriggio chiuso nell'ufficio in compagnia del Nilini. Si arrivò così a fare un piccolo bilancio della situazione di Guido. Spaventevole! Non solo era distrutto il capitale della ditta, ma Guido restava debitore di altrettanto, se avesse dovuto rispondere di tutto.

Io avrei avuto bisogno di lavorare, proprio lavorare a vantaggio del mio povero defunto amico, ma non sapevo far altro che sognare. La prima mia idea sarebbe stata di sacrificare tutta la mia vita in quell'ufficio e di lavorare a vantaggio di Ada e dei suoi figliuoli. Ma ero poi sicuro di saper far bene?

Il Nilini, come al solito, chiacchierava mentre io guardavo tanto, tanto lontano. Anche lui sentiva il bisogno di mutare radicalmente le sue relazioni con Guido. Ora comprendeva tutto! Il povero Guido, quando gli aveva fatto di torto, era stato già colto dalla malattia che doveva condurlo al suicidio. Perciò tutto era dimenticato oramai. E predicò dicendosi proprio fatto così. Non poteva serbare rancore a nessuno. Egli aveva sempre voluto bene a Guido e gliene voleva tuttavia.

Finì che i sogni del Nilini s'associarono ai miei e vi si sovrapposero. Non era nel lento commercio che si avrebbe potuto trovare il riparo ad una catastrofe simile, ma alla Borsa stessa. E il Nilini mi raccontò di persona a lui amica che all'ultimo momento aveva saputo salvarsi raddoppiando la posta.

Parlammo insieme per molte ore, ma la proposta del Nilini di proseguire nel gioco iniziato da Guido, arrivò in ultimo, poco prima del mezzodì e fu subito accettata da me. L'accettai con una gioia tale come se così fossi riuscito di far rivivere il mio amico. Finì che io comperai a nome del povero Guido una quantità di altre azioni dal nome bizzarro: Rio Tinto, South French e così via.

Così s'iniziarono per me le cinquanta ore di massimo lavoro cui abbia atteso in tutta la mia vita. Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e giù l'ufficio in attesa di sentire se i miei ordini fossero stati eseguiti. Io temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome non venisse più ritenuto buono per impegni ulteriori. Invece per varii giorni non si attribuì quella morte a suicidio.

Poi, quando il Nilini finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al momento di ricevere gli stabiliti, fui informato che su tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante. Ricordo quell'agitazione come un vero e proprio lavoro. Ho la curiosa sensazione nel mio ricordo che ininterrottamente, per cinquanta ore, io fossi rimasto assiso al tavolo da giuoco succhiellando le carte. Io non conosco nessuno che per tante ore abbia saputo resistere ad una fatica simile.

Ogni movimento di prezzo fu da me registrato, sorvegliato, eppoi (perché non dirlo?) ora spinto innanzi ed ora trattenuto, come a me, ossia al mio povero amico, conveniva. Persino le mie notti furono insonni.

Temendo che qualcuno della famiglia avesse potuto intervenire ad impedirmi l'opera di salvataggio cui m'ero accinto, non parlai a nessuno della liquidazione di metà del mese quando giunse. Pagai tutto io, perché nessun altro si ricordò di quegli impegni, visto che tutti erano intorno al cadavere che attendeva la tumulazione. Del resto, in quella liquidazione era da pagare meno di quanto fosse stato stabilito a suo tempo, perché la fortuna m'aveva subito assecondato. Era tale il mio dolore per la morte di Guido, che mi pareva di attenuarlo compromettendomi in tutti i modi tanto con la mia firma che con l'esposizione del mio danaro. Fin qui m'accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo tempo prima accanto a lui. Soffersi tanto di quell'agitazione, che non giuocai mai più in Borsa per conto mio.

Ma a forza di "succhiellare" (questa era la mia occupazione precipua) finii col non intervenire al funerale di Guido. La cosa avvenne così. Proprio quel giorno i valori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto. Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo ricuperato della perdita. Il patrimonio del vecchio Speier figurava ora solamente dimezzato! Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio. Avveniva proprio quello che il Nilini aveva preveduto in tono molto dubitativo bensì ma che ora, naturalmente, quando ripeteva le parole dette, spariva ed egli si presentava quale un sicuro profeta. Secondo me egli aveva previsto questo e anche il contrario. Non avrebbe fallato mai, ma non glielo dissi perché a me conveniva ch'egli restasse nell'affare con la sua ambizione. Anche il suo desiderio poteva influire sui prezzi.

Partimmo dall'ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funerale doveva aver luogo alle due e tre quarti.

All'altezza dei volti di Chiozza, vidi in lontananza il convoglio e mi parve persino di riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada. Saltai col Nilini in una vettura di piazza, dando ordine al cocchiere di seguire il funerale. E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare. Eravamo tanto lontani dal pensiero al povero defunto che ci lagnavamo dell'andatura lenta della vettura. Chissà quello che intanto avveniva alla Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto mio.

- Per il momento - dissi io, e non so perché arrossissi, - io non lavoro che per conto del mio povero amico.

Quindi, dopo una lieve esitazione, aggiunsi:

- Poi penserò a me stesso. - Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico. Ma fra me e me formulai proprio le parole che non osavo dirgli: "Non mi metterò mai in mano tua!". Egli si mise a predicare.

- Chissà se si può cogliere un'altra simile occasione! - Dimenticava d'avermi insegnato che alla Borsa v'era l'occasione ad ogni ora.

 

Quando si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermano, il Nilini sporse la testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa. La vettura continuava a procedere dietro al funerale che s'avviava al cimitero greco.

- Il signor Guido era greco? - domandò sorpreso.

Infatti il funerale passava oltre al cimitero cattolico e s'avviava a qualche altro cimitero, giudaico, greco, protestante o serbo.

- Può essere che sia stato protestante! - dissi io dapprima, ma subito mi ricordai d'aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica.

- Dev'essere un errore! - esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori di posto.

Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia.

- Ci siamo sbagliati! - esclamò. Quando arrivò a drenare lo scoppio della sua ilarità, mi colmò di rimproveri. Io avrei dovuto vedere dove si andava perché io avrei dovuto sapere l'ora e le persone ecc. Era il funerale di un altro!

Irritato, io non avevo riso con lui ed ora m'era difficile di sopportare i suoi rimproveri. Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore solo perché mi premeva più la Borsa, che il funerale. Scendemmo dalla vettura per orizzontarci meglio e ci avviammo verso l'entrata del cimitero cattolico. La vettura ci seguì. M'accorsi che i superstiti dell'altro defunto ci guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo di aver onorato fino a quell'estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul più bello.

Il Nilini spazientito mi precedeva. Domandò al portiere dopo una breve esitazione:

- Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?

Il portiere non sembrò sorpreso della domanda che a me parve comica. Rispose che non lo sapeva. Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell'ultima mezz'ora due funerali.

Perplessi ci consultammo. Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si trovasse già dentro o fuori. Allora decisi per mio conto. A me non era permesso d'intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla. Dunque non sarei entrato in cimitero. Ma d'altronde non potevo rischiare d'imbattermi nel funerale, ritornando. Rinunziavo perciò ad assistere all'interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre Servola. Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunziare di far atto di presenza per riguardo ad Ada ch'egli conosceva.

Con passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna che conduceva al villaggio. Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m'incombeva: dovevo salvare l'onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli. Quando avrei informata Ada ch'ero riuscito di ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e, dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio. Era perciò esatto. Io avevo ricuperata proprio tre quarti della perdita), essa certamente m'avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale.

Quel giorno il tempo s'era rimesso al bello. Brillava un magnifico sole primaverile e, sulla campagna ancora bagnata, l'aria era nitida e sana. I miei polmoni, nel movimento che non m'ero concesso da varii giorni, si dilatavano. Ero tutto salute e forza. La salute non risalta che da un paragone. Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto. Tutto era salute e forza intorno a me. Anche la campagna dall'erba giovine. L'estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe dell'altro giorno, dava ora soli benefici effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata. Era certo che quanto più ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto più discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo. Ma questa era la previsione dell'esperienza ed io non la ricordai; m'afferra solo ora che scrivo. In quel momento c'era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne.

Il mio passo si fece più rapido. Mi beavo di sentirlo tanto leggero. Scendendo dalla collina di Servola s'affrettò fin qui quasi alla corsa. Giunto al passeggio di Sant'Andrea, sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande facilità. L'aria mi portava.

Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico. Avevo il passo e il respiro del vittorioso. Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse era sceso in lizza.

Andai all'ufficio a vedere i corsi di chiusa. Erano un po' più deboli, ma non fu questo che mi tolse la fiducia. Sarei tornato a "succhiellare" e non dubitavo che sarei arrivato allo scopo.

Dovetti finalmente recarmi alla casa di Ada. Venne ad aprirmi Augusta. Mi domandò subito:

- Come hai fatto a mancare al funerale, tu, l'unico uomo nella nostra famiglia?

Deposi l'ombrello e il cappello, e un po' perplesso le dissi che avrei voluto parlare subito anche con Ada per non dover ripetermi. Intanto potevo assicurarla che avevo avute le mie buone ragioni per mancare dal funerale. Non ne ero più tanto sicuro e improvvisamente il mio fianco s'era fatto dolente forse per la stanchezza. Doveva essere quell'osservazione di Augusta, che mi faceva dubitare della possibilità di far scusare la mia assenza che doveva aver causato uno scandalo; vedevo dinanzi a me tutti i partecipi alla mesta funzione che si distraevano dal loro dolore per domandarsi dove io potessi essere.

Ada non venne. Poi seppi che non era stata neppure avvisata ch'io l'attendessi. Fui ricevuto dalla signora Malfenti che incominciò a parlarmi con un cipiglio severo quale non le avevo mai visto. Cominciai a scusarmi, ma ero ben lontano dalla sicurezza con cui ero volato dal cimitero in città. Balbettavo. Le raccontai anche qualche cosa di meno vero in appendice della verità, ch'era la mia coraggiosa iniziativa alla Borsa a favore di Guido, e cioè che poco prima dell'ora del funerale avevo dovuto spedire un dispaccio a Parigi per dare un ordine e che non m'ero sentito di allontanarmi dall'ufficio prima di aver ricevuta la risposta.

Era vero che il Nilini ed io avevamo dovuto telegrafare a Parigi, ma due giorni prima, e due giorni prima avevamo ricevuta anche la risposta. Insomma comprendevo che la verità non bastava a scusarmi fors'anche perché non potevo dirla tutta e raccontare dell'operazione tanto importante cui io da giorni attendevo cioè a regolare col mio desiderio i cambii mondiali. Ma la signora Malfenti mi scusò quando sentì la cifra cui ora ammontava la perdita di Guido. Mi ringraziò con le lacrime agli occhi. Ero di nuovo non l'unico uomo della famiglia, ma il migliore.

Mi domandò di venire di sera con Augusta a salutare Ada cui essa nel frattempo avrebbe raccontato tutto. Per il momento Ada non era al caso di ricevere nessuno. Ed io, volentieri, me ne andai con mia moglie. Neppure essa, prima di lasciare quella casa, sentì il bisogno di congedarsi da Ada, che passava da pianti disperati ad abbattimenti che le impedivano persino di accorgersi della presenza di chi le parlava.

Ebbi una speranza:

- Allora non è Ada che si è accorta della mia assenza?

Augusta mi confessò che avrebbe voluto tacerne, tanto le era sembrata eccessiva la manifestazione di risentimento di Ada per tale mia mancanza. Ada esigette delle spiegazioni da lei e quando Augusta dovette dirle di non saperne nulla non avendomi ancora visto, essa s'abbandonò di nuovo alla sua disperazione urlando che Guido aveva dovuto finire così essendo stato odiato da tutta la famiglia.

A me parve che Augusta avrebbe dovuto difendermi e ricordare ad Ada come io solo ero stato pronto di soccorrere Guido nel modo che si doveva. Se fossi stato ascoltato, Guido non avrebbe avuto alcun motivo di tentare o simulare un suicidio.

Augusta invece aveva taciuto. Era stata tanto commossa dalla disperazione di Ada che avrebbe temuto di oltraggiarla mettendosi a discutere. Del resto essa era fiduciosa che ora le spiegazioni della signora Malfenti avrebbero convinto Ada dell'ingiustizia ch'essa mi usava. Devo dire che avevo anch'io tale fiducia ed anzi confessare che da quel momento gustai la certezza di assistere alla sorpresa di Ada e alle sue manifestazioni di gratitudine. Già da lei, causa Basedow, tutto era eccessivo.

Ritornai all'ufficio ove appresi che c'era alla Borsa di nuovo un lieve accenno all'ascesa, lievissimo, ma già tale che si poteva sperare di ritrovare il giorno dopo, all'apertura, i corsi della mattina.

Dopo cena dovetti andar da Ada da solo perché Augusta fu impedita di accompagnarmi per una indisposizione della bambina. Fui ricevuto dalla signora Malfenti che mi disse che doveva attendere a qualche lavoro in cucina e che perciò avrebbe dovuto lasciarmi solo con Ada. Poi mi confessò che Ada l'aveva pregata di lasciarla sola con me perché voleva dirmi qualche cosa che non doveva esser sentito da altri. Prima di lasciarmi in quel salottino ove già due volte m'ero trovato con Ada, la signora Malfenti mi disse sorridendo:

- Sai, non è ancora disposta a perdonarti la tua assenza dal funerale di Guido, ma... quasi!

In quel camerino mi batteva sempre il cuore. Questa volta non per il timore di vedermi amato da chi non amavo. Da pochi istanti e solo per le parole della signora Malfenti, avevo riconosciuto di aver commessa una grave mancanza verso la memoria del povero Guido. La stessa Ada, ora che sapeva che a scusare tale mancanza le offrivo un patrimonio, non sapeva perdonarmi subito. M'ero seduto e guardavo i ritratti dei genitori di Guido. Il vecchio Cada aveva un'aria di soddisfazione che mi pareva dovuta al mio operato, mentre la madre di Guido, una donna magra vestita di un vestito dalle maniche abbondanti e un cappellino che le stava in equilibrio su una montagna di capelli, aveva l'aria molto severa. Ma già! Ognuno dinanzi alla macchina fotografica assume un altro aspetto ed io guardai altrove sdegnato con me stesso d'indagare quelle faccie. La madre non poteva certo aver previsto ch'io non avrei assistito all'interramento del figlio!

Ma il modo come Ada mi parlò fu una dolorosa sorpresa. Essa doveva aver studiato a lungo quello ch'essa voleva dirmi e non tenne addirittura conto delle mie spiegazioni, delle mie proteste e delle mie rettifiche ch'essa non poteva aver previste e cui perciò non era preparata. Corse la sua via come un cavallo spaventato, fino in fondo.

Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera, la capigliatura nel grande disordine di capelli sconvolti e fors'anche strappati da una mano che s'accanisce a trovar da far qualche cosa, quando non può altrimenti lenire. Giunse fino al tavolino a cui ero seduto e vi si appoggiò con le mani per vedermi meglio. La sua faccina era di nuovo dimagrata e liberata da quella strana salute che le cresceva fuori di posto. Non era bella come quando Guido l'aveva conquistata, ma nessuno guardandola avrebbe ricordata la malattia. Non c'era! C'era invece un dolore tanto grande che la rilevava tutta. Io lo compresi tanto bene quell'enorme dolore, che non seppi parlare. Finché la guardai pensai: "quali parole potrei dirle che potrebbero equivalere a prenderla fraternamente fra le mie braccia per confortarla e indurla a piangere e sfogarsi?". Poi, quando mi sentii aggredito, volli reagire, ma troppo debolmente ed essa non mi sentì.

Essa disse, disse, disse ed io non so ripetere tutte le sue parole. Se non sbaglio cominciò col ringraziarmi seriamente, ma senza calore di aver fatto tanto per lei e per i bambini. Poi subito rimproverò:

- Così hai fatto in modo ch'egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!

Poi abbassò la voce come se avesse voluto tener segreto quello che mi diceva e nella sua voce vi fu maggior calore, un calore che risultava dal suo affetto per Guido e (o mi parve?) anche per me:

- Ed io ti scuso per non esser venuto al suo funerale. Tu non potevi farlo ed io ti scuso. Anche lui ti scuserebbe se fosse ancora vivo. Che ci avresti fatto tu al suo funerale? Tu che non lo amavi! Buono come sei, avresti potuto piangere per me, per le mie lagrime, ma non per lui che tu... odiavi! Povero Zeno! Fratello mio!

Era enorme che mi si potesse dire una cosa simile alterando in tale modo la verità. Io protestai, ma essa non mi sentì. Credo di aver urlato o almeno ne sentii lo sforzo nella strozza:

- Ma è un errore, una menzogna, una calunnia. Come fai a credere una cosa simile?

Essa continuò sempre a bassa voce:

- Ma neppure io seppi amarlo. Non lo tradii neppure col pensiero, ma sentivo in modo che non ebbi la forza di proteggerlo. Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo. Mi parevano migliori di quelli ch'egli mi offriva. Ti sono grata di non essere intervenuto al funerale perché altrimenti non avrei neppur oggi compreso nulla. Così invece vedo e intendo tutto. Anche che io non l'amai: altrimenti come avrei potuto odiare persino il suo violino, l'espressione più completa del suo grande animo?

Fu allora che io poggiai la mia testa sul braccio e nascosi la mia faccia. Le accuse ch'essa mi rivolgeva erano tanto ingiuste che non si potevano discutere ed anche la loro irragionevolezza era tanto mitigata dal suo tono affettuoso che la mia reazione non poteva essere aspra come avrebbe dovuto per riuscire vittoriosa. D'altronde già Augusta m'aveva dato l'esempio di un silenzio riguardoso per non oltraggiare ed esasperare tanto dolore. Quando però i miei occhi si chiusero, nell'oscurità vidi che le sue parole avevano creato un mondo nuovo come tutte le parole non vere. Mi parve d'intendere anch'io di aver sempre odiato Guido e di essergli stato accanto, assiduo, in attesa di poter colpirlo. Essa poi aveva messo Guido insieme al suo violino. Se non avessi saputo ch'essa brancolava nel suo dolore e nel suo rimorso, avrei potuto credere che quel violino fosse stato sfoderato come parte di Guido per convincere dell'accusa di odio l'animo mio.

Poi nell'oscurità rividi il cadavere di Guido e nella sua faccia sempre stampato lo stupore di essere là, privato dalla vita. Spaventato rizzai la testa. Era preferibile affrontare l'accusa di Ada che io sapevo ingiusta che guardare nell'oscurità.

Ma essa parlava sempre di me e di Guido:

- E tu, povero Zeno, senza saperlo, continuavi a vivergli accanto odiandolo. Gli facevi del bene per mio amore. Non si poteva! Doveva finire così! Anch'io credetti una volta di poter approfittare dell'amore ch'io sapevo tu mi serbavi per aumentare d'intorno a lui la protezione che poteva essergli utile. Non poteva essere protetto che da chi lo amava e, fra noi, nessuno l'amò.

- Che cosa avrei potuto fare di più per lui? - domandai io piangendo a calde lacrime per far sentire a lei e a me stesso la mia innocenza. Le lacrime sostituiscono talvolta un grido. Io non volevo gridare ed ero persino dubbioso se dovessi parlare. Ma dovevo soverchiare le sue asserzioni e piansi.

- Salvarlo, caro fratello! Io o tu, noi si avrebbe dovuto salvarlo. Io invece gli stetti accanto e non seppi farlo per mancanza di vero affetto e tu restasti lontano, assente, sempre assente finché egli non fu sepolto. Poi apparisti sicuro armato di tutto il tuo affetto. Ma, prima, di lui non ti curasti. Eppure fu con te fino alla sera. E tu avresti potuto immaginare, se di lui ti fossi preoccupato, che qualche cosa di grave stava per succedere.

Le lacrime m'impedivano di parlare, ma borbottai qualche cosa che doveva stabilire il fatto che la notte innanzi egli l'aveva passata a divertirsi in palude a caccia, per cui nessuno a questo mondo avrebbe potuto prevedere quale uso egli avrebbe fatto della notte seguente.

 

- Egli abbisognava della caccia, egli ne abbisognava! - mi rampognò essa ad alta voce. Eppoi, come se lo sforzo di quel grido fosse stato soverchio, essa tutt'ad un tratto crollò e s'abbatté priva di sensi sul pavimento.

Mi ricordo che per un istante esitai di chiamare la signora Malfenti. Mi pareva che quello svenimento rivelasse qualche cosa di quanto aveva detto.

Accorsero la signora Malfenti e Alberta. La signora Malfenti sostenendo Ada mi domandò:

- Ha parlato con te di quelle benedette operazioni di Borsa? - Poi: - È il secondo svenimento quest'oggi!

Mi pregò di allontanarmi per un istante ed io andai sul corridoio ove attesi per sapere se dovevo rientrare o andarmene. Mi preparavo ad ulteriori spiegazioni con Ada. Essa dimenticava che se si fosse proceduto come io l'avevo proposto, la disgrazia sicuramente sarebbe stata evitata. Bastava dirle questo per convincerla del torto ch'essa mi faceva.

Poco dopo, la signora Malfenti mi raggiunse e mi disse che Ada era rinvenuta e che voleva salutarmi. Riposava sul divano su cui fino a poco prima ero stato seduto io. Vedendomi, si mise a piangere e furono le prime lagrime ch'io le vidi spargere. Mi porse la manina madida di sudore:

- Addio, caro Zeno! Te ne prego, ricorda! Ricorda sempre! Non dimenticarlo!

Intervenne la signora Malfenti a domandare quello che avessi da ricordare ed io le dissi che Ada desiderava che subito fosse liquidata tutta la posizione di Guido alla Borsa. Arrossii della mia bugia e temetti anche una smentita da parte di Ada. Invece di smentirmi essa si mise ad urlare:

- Sì! Sì! Tutto dev'essere liquidato! Di quell'orribile Borsa non voglio più sentirne parlare!

Era di nuovo più pallida e la signora Malfenti, per quietarla, l'assicurò che subito sarebbe stato fatto com'essa desiderava.

Poi la signora Malfenti m'accompagnò alla porta e mi pregò di non precipitare le cose: facessi il meglio che credessi nell'interesse di Guido. Ma io risposi che non mi fidavo più. Il rischio era enorme e non potevo più osare di trattare a quel modo gl'interessi altrui. Non credevo più nel giuoco di Borsa o almeno mi mancava la fiducia che il mio "succhiellare" potesse regolarne l'andamento. Dovevo liquidare perciò subito, ben contento che fosse andata così.

Non ripetei ad Augusta le parole di Ada. Perché avrei dovuto affliggerla? Ma quelle parole, anche perché non le riferii ad alcuno, restarono a martellarmi l'orecchio, e m'accompagnarono per lunghi anni. Risuonano tuttavia nell'anima mia. Tante volte ancora oggidì le analizzo. Io non posso dire di aver amato Guido, ma ciò solo perché era stato uno strano uomo. Ma gli stetti accanto fraternamente e lo assistetti come seppi. Il rimprovero di Ada non lo merito.

Con lei non mi trovai mai più da solo. Essa non sentì il bisogno di dirmi altro né io osai esigere una spiegazione, forse per non rinnovarle il dolore. In Borsa la cosa finì come avevo previsto e il padre di Guido, dopo che col primo dispaccio gli era stata avvisata la perdita di tutta la sua sostanza, ebbe certamente piacere a ritrovarne la metà intatta.

Opera mia di cui non seppi godere come m'ero atteso.

Ada mi trattò affettuosamente tutto il tempo fino alla sua partenza per Buenos Aires ove coi suoi bambini andò a raggiungere la famiglia del marito. Amava di ritrovarsi con me ed Augusta. Io talvolta volli figurarmi che tutto quel suo discorso fosse stato dovuto ad uno scoppio di dolore addirittura pazzesco e ch'essa neppure lo ricordasse. Ma poi una volta che si riparlò in nostra presenza di Guido, essa ripeté e confermò in due parole tutto quello che quel giorno essa m'aveva detto:

- Non fu amato da nessuno, il poverino!

Al momento d'imbarcarsi con in braccio uno dei suoi bambini lievemente indisposto, essa mi baciò. Poi, in un momento in cui nessuno ci stava accanto essa mi disse:

- Addio, Zeno, fratello mio. Io ricorderò sempre che non seppi amarlo abbastanza. Devi saperlo! Io abbandono volentieri il mio paese. Mi pare di allontanarmi dai miei rimorsi!

La rimproverai di crucciarsi così. Dichiarai ch'essa era stata una buona moglie e che io lo sapevo e avrei potuto testimoniarlo. Non so se riuscii a convincerla. Essa non parlò più, vinta dai singhiozzi. Poi, molto tempo dopo, sentii che congedandosi da me, essa aveva voluto con quelle parole rinnovare anche i rimproveri fatti a me. Ma so ch'essa mi giudicò a torto. Certo io non ho da rimproverarmi di non aver voluto bene a Guido.

La giornata era torbida e fosca. Pareva che una sola nube distesa e niente minacciosa offuscasse il cielo. Dal porto tentava di uscire a forza di remi un grande bragozzo le cui vele pendevano inerti dagli alberi. Due soli uomini vogavano e, con colpi innumeri, arrivavano appena a muovere il grosso bastimento. Al largo avrebbero trovata una brezza favorevole, forse.

Ada, dalla tolda del piroscafo, salutava agitando il suo fazzoletto. Poi ci volse le spalle. Certo guardava verso sant'Anna ove riposava Guido. La sua figurina elegante diveniva più perfetta quanto più si allontanava. Io ebbi gli occhi offuscati dalle lacrime. Ecco ch'essa ci abbandonava e che mai più avrei potuto provarle la mia innocenza.
 

Prima pagina - Presentazione del percorso