La città industriale di Paolo Volponi - Memoriale


M. Sironi - Periferia - 1922


Il libro,  più noto di Volponi è sicuramente Memoriale, libro che affronta in pieno le problematiche connesse al rapporto fra l’individuo e la fabbrica, e in questo senso fa continuo riferimento alla situazione storica, economica e politica degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, all’inurbamento contadino e ai traumi ad esso collegati, all’adattamento ai ritmi della società industriale, allo stato di alienazione che viene a determinarsi nell’operaio della grande industria. Questa interpretazione di Memoriale, però, costituisce solo un primo livello di lettura dell’opera, svolto in chiave sociologica. Infatti, come Volponi stesso spiega nella nota che precede il romanzo, la “città industriale” non ha identità e non si deve attribuire soltanto a questa le cose narrate. Il romanzo, che ha una struttura diaristica, pur svolgendosi nell’ambientazione della fabbrica, si configura anche come storia di una nevrosi, di una «malattia», cioè, non solo fisica ma soprattutto psicologica, che consente al protagonista di rimanere estraneo, non integrato rispetto al mondo produttivo, ma di essere, proprio per questo, in grado di rivelarne i limiti e la disumanità.

Da quanto detto risulta chiaro che Volponi propone di fatto una realtà simbolica, attribuendo alle vicende dell’operaio Albino un valore paradigmatico, universale: il memoriale del protagonista rappresenta la metafora dell’uomo contemporaneo, oppresso da un’Autorità incomprensibile e schiacciato dal conformismo, e si configura non come vagheggiamento del mondo preindustriale, rimpianto della civiltà contadina, rifiuto del progresso, ma come ricerca di un’adesione critica e consapevole alla società moderna.

tratto da http://www.redibis.net/poesia/volponi1.htm
 



M. Sironi - Paesaggio urbano con gru
 


M. Sironi - Paesaggi urbani

Paolo Volponi

Nato a Urbino nel 1924. Ha partecipato al gruppo di lavoro organizzato da Adriano Olivetti nel dopoguerra, che proponeva un nuovo modo di produrre e di vivere il lavoro industriale. E' stato vicino alle posizioni politiche della sinistra. Esordì con libri di poesie: Il ramarro (1948), L'antica moneta (1955), Le porte dell'Appennino (1960). Sono poesie caratterizzate da un ritmo breve e secco, dal costante riferimento al paesaggio appenninico.

Passò alla narrativa con Memoriale (1962). Protagonista del romanzo è Albino Saluggia, reduce da un campo di concentramento tedesco, che vive con la madre nel Canavese afflitto da «mali» contratti in prigione: un principio di tubercolosi a cui si aggiungono complicazioni psicosomatiche. Un piano di assistenza ai reduci lo destina al lavoro di fabbrica: Saluggia fa il suo incontro con la nuova realtà dell'industria metropolitana. I medici che rilevano le sue incerte condizioni fisiche gli appaiono come personaggi che vogliono attentare al suo inserimento nella nuova comunità operaia. La durezza dei turni di lavoro e le insalubri condizioni ambientali provocano accessi più forti della malattia. Albino comincia a far esperienza della complessità dei rapporti con i colleghi di lavoro, i capi, i sindacalisti. E' ricoverato in un sanatorio, ma la lontananza dalla fabbrica aumenta la sua mania di persecuzione. Dopo un altro ricovero torna in fabbrica con l'incarico di ripiego di sorvegliante esterno del muro di cinta. Durante uno sciopero di cui nulla sa e capisce, aiuta gli operai manifestanti, in una ricerca estrema e incontrollata di solidarietà umana. Le guardie di vigilanza della fabbrica lo fermano. Sarà licenziato. Il ritorno alla casa materna vuol dire per Albino cedere completamente ai propri "mali".

Volponi si impegnò nella rappresentazione simbolica dei rapporti alienati tra individui e strutture produttive. Il discorso continuò, con uno scarto ironico e poetico, nella Macchina mondiale (1965), il cui protagonista è ossessionato dal progetto di costruire una macchina che sia in grado di rimettere in sesto un mondo travolto dalla generale pazzia.
La tematica dello scontro tra realtà fittizia e autenticità esistenziale è arricchita nelle opere successive di motivi psicoanalitici, lirico-meditativi e fantascientifici, che si sviluppano in più ambiziosi progetti narrativi. E' il caso soprattutto di Corporale (1974), dove la nevrosi del soggetto ribelle si dissolve, dopo complesse vicende, nel tentativo furibondo di fagocitare in solitudine il «reale» attraverso le «ventose della sua accesa corporalità».

Nei due romanzi successivi, Il sipario ducale (1975) e Il pianeta irritabile (1978), l'impulso di rivolta dell'io tende a smorzarsi e a perdersi tra le esplosioni del «tragico quotidiano» e gli allettamenti di un piccolo mondo provinciale ancorato alle sue tradizioni storiche come la Urbino di "Sipario ducale", tra visioni interplanetarie apocalittiche e il dilagare dell'organizzazione consumistica e tecnologica. Alla deviante educazione di un ragazzo in periodo fascista è dedicato Il lanciatore di giavellotto (1981).
Torna al tema industrialista e all'analisi del mondo capitalistico con Le mosche del capitale, in cui quel mondo è visto 'dall'interno', attraverso la storia di un dirigente di una grande azienda del nord dell'Italia.

tratto da http://www.girodivite.it/antenati/xx3sec/_volponi.htm
 


Uscendo dal Distretto stavo bene e potevo andare in gran fretta per lasciare Torino, correndo alla stazione di Porta Nuova a prendere il treno per Candia.  Mi toccava infatti prendere il treno, assai più scomodo e lento dell'autobus, perché il Distretto riconosceva gratuito il viaggio di andata e ritorno soltanto in ferrovia.  Il treno partiva verso sera ed era un treno operaio che fermava a tutte le stazioni.  Era affollato come una tradotta militare, soprattutto da operai che lasciavano le fabbriche di Torino.  Molti di quegli operai avevano l'aria di star bene, con le loro berrette, il giornale sottobraccio, il cestino o la borsa delle vivande, i loro discorsi ad alta voce; altri pareva sentissero freddo, in aprile e in mezzo a quella calca, mortificati per di più dalla sporcizia dei loro indumenti.  Alle stazioni scendevano a gruppi, ridendo e insultandosi.  Mi sembrava che scendessero sempre quelli con l'aria allegra e ben portante e che restassero, per il viaggio più lungo e per la notte, i più tristi e sporchi.  Non avevo cercato di sedermi, sbalordito dal chiasso e dalla frenesia dell'ambiente; ma quando si accese nello scompartimento la luce vidi alcuni posti liberi e mi accomodai.  Sedetti vicino a un operaio che aveva un bel volto, con un naso affilato e ben fatto, acuto ed equilibrato come fosse il primo dei suoi strumenti di precisione.  Egli mi disse che lavorava da diciassette anni alla Fiat, come aggiustatore alla « grandi motori ». Il lavoro che gli era comandato era interessante e richiedeva impegno da parte sua.  Suo padre era ancora un contadino con la terra a sud del fiume, vicino a Chivasso.  Secondo lui la vita del contadino era bella ma difficile e ingrata; bella per conto suo ma non in rapporto agli altri, tanto che per questa sua famiglia contadina una ragazza di Torino non aveva voluto sposarlo.  Quel giovane simpatico scese in silenzio a Chivasso e con due salti entrò nella stazione.  Prima che il treno ripartisse mi sembrò nel buio di vederlo svoltare in bicicletta dietro la casa della stazione, curvo ma sicuro e senza quell'aria eretta e sbadata che hanno i contadini quando vanno in bicicletta e quel senso di grande pena come se sempre pensassero a come fanno le ruote a stare in equilibrio e a camminare sotto i pedali.

Allora accesi la sigaretta che mi aveva offerto a un certo punto del discorso e che io avevo preso per non disturbarlo con un rifiuto.  Guardavo la campagna e fumavo; il fumo che usciva dal finestrino, tra la luce del treno e la notte azzurra, diventava una cosa viva, un animale che dovesse nascondersi tra i campi e le fratteIo non potrei vivere in città, pensavo, dove mi sento solo e dove vedo benissimo che la gente è cattiva, troppo furba e interessata.  In città c'è da stare attenti con chi si parla, perché può sempre capitare l'incontro con un ladro, un pazzo, un assassino, una donnaccia o con truffatori e maghi.  L'aria stessa della città mi stanca e mi fa sudare, soprattutto la schiena, i piedi e le mani.  In città possono vivere le ragazze che hanno da passeggiare e possono lavorare nei negozi, dietro i banchi e le vetrine, meglio che nelle fabbriche o nei campi; e poi, come dicevo, ladri e altri malvagi oltre agli studenti e agli operai condannati, oltre a carceri, ospedali e medici, caserme e carabinieri e molti caffè e cinema per i ladri, le loro donne e i poveri derelitti.  Trovare una strada è una fatica e così sapere dove andare.

lo amo la campagna che dice prima, con strade e viottoli, che cosa si deve fare e che si fa vedere tutta, onestamente.  Amo la campagna più ancora del mio stesso paese; ma non l'amo come un contadino perché il contadino ha, di fronte alla campagna, un formicolare interessato e zappa e taglia ogni giorno come certi animali che rovinano il legno.  Se la campagna fosse lasciata rigogliosa e sola oltre ad essere più bella darebbe anche più frutti, da raccogliere con giudizio.  Non vorrei, io, nemmeno possedere terra perché uno finisce per sentirla propria e vorrebbe poi custodirla e difenderla e tagliarla dal resto del paese e vorrebbe governare i mutamenti del tempo sui suoi alberi e campi e magari scacciare i corvi e gli altri animali.  La terra è forte e non può essere dominata da nessuno, e ripara da se stessa ai suoi mali.  Così pensavo nel treno, mentre il viaggio finiva verso gli alberi del lago di Candia ed io fumavo la sigaretta dell'operaio, una delle prime della mia vita.

Sceso dal treno, m'incamminai dritto verso casa; andavo adagio per assaporare la campagna in rispetto dei discorsi e dei pensieri di poco prima.  Mi fermai un attimo, colpito dal profumo di un ceppo di rosmarino, così buono e sottile da indurmi a guardare in alto il cielo stellato. che nelle sere d'aprile, quando la luna è ancora poca ma in crescenza, è molto luminoso, con strane strade di chiarore, che sono le occhiate che i santi si rivolgono da un capo all'altro del cielo.  Ringraziai la divina Provvidenza, contento di essere di nuovo a casa, dopo la città e il viaggio, e soprattutto dopo il pericolo di essere inviato in un ospedale militare.  Mi fermai in cucina a mangiare la frittata che mia madre mi aveva lasciato al caldo tra due piatti e a bere un bicchiere di vino, metà prima e metà dopo il pasto. Mentre salivo la scala per le stanze da letto e la soffitta, speravo che mia madre fosse ancora sveglia e mi chiamasse.
 


Il giorno in cui cominciai a lavorare da solo alla fresatrice, più del padrone, odiavo tutti i compagni. Speravo che le loro macchine s’inceppassero e tagliassero malamente i pezzi. Questo odio m’aiutava a lavorare e mi dava l’ambizione di riuscire a fare meglio degli altri. Prendevo il grezzo dalla cassetta come fosse un nemico da sgominare e lo riponevo finito che ormai gli ero affezionato come a una parte di me stesso. Il rumore della fresatrice mitirava nella lotta e più la sentivo mordere più m’infervoravo nel lavoro. Il suo rumore, i suoi tagli, mi convincevano aspramente di saper lavorare; davano alle mie mani una forza che non avevano mai avuto, anche se mi ero accorto che le mie mani più che guidarla erano trascinate dalla macchina. Grosset si avvicinava spesso al mio posto. Un giorno mi guardò per qualche secondo e poi passandomi una mano sulla spalla, mi disse: «Vai calmo, Saluggia». Lui capiva la condizione in cui mi trovavo. «Non prendere il lavoro come un nemico», soggiunse, «o non durerai a lungo. E non farne nemmeno l’unica ragione della tua vita».

Siccome la sua benevolenza andava oltre la sua confidenza, per non sentirmi troppo in debito, dissi anch’io: «Si lavora per un padrone». «Per più d’uno» rispose Grosset, «ma siccome il lavoro è per forza una parte della tua vita, cerca di non rovinartela». E se ne andò, senza guardare nella cassetta la qualità dei pezzi finiti.

Ancora non lavoravo a cottimo ma certamente in quei giorni superavo il cento per cento. Ad un certo punto m’accorsi che il pezzo cambiando sotto le frese, un attimo prima d’essere finito, assumeva il colore opaco del lago di Candia. Questa fu una grossa rivelazione tanto che da allora per molto tempo, anche se non per tutta la giornata, svolgevo il mio lavoro per arrivare ogni volta al punto in cui compariva il colore del lago; la frazione di lavoro successiva, necessaria per finire il pezzo, era diventata per me come l’ultimo tratto di una strada, diversa da quella vera, tra il lago e casa mia: di una strada diversa e più facile, dove sarebbe dovuto capitarmi qualcosa, la rivelazione, il segno del mio nuovo destino. Intanto la mia macchina funzionava bene, aveva solo il motore della tavola un poco più rumoroso del normale. Mentre i motori andavano, m’immaginavo qualche volta che si stesse effettuando una corsa automobilistica, nella quale ero in gara con una macchina di mia costruzione. Immaginavo sempre di essere in testa, con il numero 17, il numero che mi era stato attribuito da Pinna e che io mantenevo perché la mia corsa era proprio una sfida lanciata contro il destino avverso e contro la congiura ordita a mio danno da tutti gli altri concorrenti. Nel culmine della corsa la mia macchina subiva un guasto e solo la mia abilità le impediva di fermarsi. Continuavo la gara con il fiato sospeso per gli ultimi giri, guardando i miei compagni di lavoro come se veramente stessero per superarmi con le loro fresatrici e poi, con un ultimo sforzo di volontà, riuscivo a vincere. Un altro giro e la mia macchina si sarebbe incendiata. Seguendo questi pensieri potevo ugualmente controllare bene il mio lavoro e procedere senza la noia di dover numerare uno ad uno i pezzi finiti.

Passavo le ore, che gli orologi nelle officine segnano a migliaia partendo dall’inizio delle diverse lavorazioni. Quando io sono entrato nella fabbrica, l’orologio della nostra officina segnava l’ora 12,27. Anche il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica; perde il suo giro per seguire la vita dei pezzi. Trascorrevano le ore, anche se con qualche sigaretta che fumavo, le visite di Grosset e ogni tanto un discorso di Pinna, che borbottava quasi sempre, anche da solo.

Il rumore mi rapiva: il sentire andare tutta la fabbrica come un solo motore mi trascinava e mi obbligava a tenere con il mio lavoro il ritmo che tutta la fabbrica aveva. Non potevo trattenermi, come una foglia di un grande albero scosso in tutti i suoi rami dal vento. La gente non esisteva più ed io pensavo che per quanto nella fabbrica si lavori tutt’insieme, stretti nei reparti, con le fresatrici su tre file ad intervalli regolari, e così i torni e le presse, o tutt’in fila nelle catene di montaggio o nei controlli, osi mangi in tanti alla mensa e si viaggi tutti sulle corriere, è difficile poter avere delle compagnie e degli aiuti dagli altri. Io non potevo mischiarmi, come faceva Pinna, ai gruppi che parlavano in quel tempo di un aumento di venti lire orarie, perché se io avessi parlato dei poveri contadini o dei disoccupati mi avrebbero voltato le spalle. Pinna entrava in quei gruppi, non so bene perché; non parlava quasi mai o si limitava a ripetere le parole degli altri. Pinna si cacciava dappertutto ed io non capisco perché lo sopportassi come amico, con quel suo testone nero e quello sputarello sempre tra le labbra. Continuava a farsi ammirare per il suo coraggio di partigiano e per la sua fuga dal terzo piano di un albergo di Torino dove i tedeschi lo tenevano prigioniero in attesa di fucilarlo. Pinna mi aveva addirittura proposto di iscrivermi al Partito Socialista e ai sindacati della C.G.I.L. sempre ridendo naturalmente e aggiungendo: «Vedrai poi, vedrai poi...». «Io vedo chiaro ora, caro Pinna» gli avevo detto «e non mi iscrivo a niente. Io non ho niente da spartire con nessuno». Ma Pinna aveva riso, facendo saltare la sua gamba più del solito:

«Vedrai che aiuto ti daranno i preti..

Tutto sommato, compresa la mia solitudine o meglio la mia differenza dagli altri, i primi giorni di lavoro non furono brutti giorni; anzi molte cose mi piacevano e mi confortavano: così la mensa, gli spogliatoi, le docce, i grandi corridoi, le luci al neon dentro e fuori, il veder passare alti e silenziosi tanti ingegneri e dirigenti che mi facevano sentire al sicuro, in una fabbrica ben governata. Pensavo con piacere, anche se con il timore di non esserne degno, di far parte di un’industria così forte e bella e che la sua forza e la sua bellezza fossero in par­te mie e pronte ad aiutarmi, così come la fabbrica mi scaldava e mi dava luce.

Amavo a poco a poco la fabbrica, sempre di più man mano che m’interessava meno la gente che vi lavorava. Mi sembrava che tutti gli operai avessero poco a che fare con la fabbrica, che fossero o degli abusivi o dei nemici, che non si rendessero conto della sua sovrumana bellezza e che proprio per questo, lavorando con più fracasso del necessario, parlando e ri­dendo la offendessero deliberatamente. Mi sembrava che si divertissero a guastarla e a sporcarla, a voltarle le spalle ogni momento. La fabbrica mi appariva sempre più bella e mi sembrava che si rivolgesse direttamente a me, come se fossi l’unico o uno dei pochi in grado e ben disposti a capirla.

 

 

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