Voltaire e l'ironia filosofica
Voltaire
Memnon, o la saggezza umana
Memnon appartiene al genere dei racconti o
romanzi filosofici, molto diffuso nel Settecento perché risponde
all'esigenza di esporre le nuove idee dell'illuminismo in una forma facile,
accessibile a una larga cerchia di lettori. Voltaire in particolare è un
maestro di questo genere, che
utilizza per mettere in ridicolo o sottoporre
a critica ironica attraverso la trasfigurazione fantastica di elementi
reali, la visione religiosa o idealistica della vita. Qui, in particolare,
il
bersaglio della sua ironia è la filosofia idealistica di
Leibniz secondo
cui, dato che il mondo è stato creato da Dio, esso deve essere il migliore
dei mondi possibili, e perciò il male non è che vuota apparenza. |
"In secondo luogo, sarò sempre sobrio; avrò un bel essere tentato dalle buone carni, da vini deliziosi, dalle seduzioni mondane; non dovrò far altro che rappresentarmi le conseguenze degli eccessi, pesantezza di testa, imbarazzo di stomaco, perdita di ragione, di salute e di tempo: mangerò allora solo per bisogno; la mia salute sarà sempre uguale, le mie idee sempre limpide e chiare. Tutto questo è tanto facile che non c'è alcun merito ad arrivarci. "Infine" diceva Memnon, "bisogna pensare un po' alla propria fortuna; i miei desideri sono moderati; la mia sostanza è solidamente investita presso il controllore generale delle finanze di Ninive; ho di che vivere nell'indipendenza, che è il più grande dei beni. Non sarò mai nella crudele necessità di cercar fortuna a corte; non invidierò nessuno e nessuno invidierà me. Ecco ancora qualche cosa d'assai facile. Ho degli amici continuava e li conserverò poiché non avranno niente da contendermi. Non sarò mai irritato con loro, né loro con me; ciò non presenta difficoltà. Avendo così preparato questo piccolo piano di saggezza in camera sua, Memnon si mise alla finestra e vide due donne che passeggiavano sotto dei platani vicino alla sua casa. Una era vecchia, e sembrava non pensare a nulla; l'altra era giovane, graziosa, e appariva assai preoccupata. Sospirava, piangeva, e le sue grazie ne erano aumentate. Il nostro saggio fu commosso, non dalla bellezza della dama (era assolutamente sicuro di non provare tale debolezza), ma dall'afflizione in cui la vedeva. Discese e abbordò la giovane abitante di Ninive con lo scopo di prestarle qualche saggia consolazione. La bella fanciulla gli raccontò, con l'aria più ingenua e più commovente, tutto il male che le faceva uno zio che essa non aveva affatto; con quali artifici questo zio le aveva tolto una fortuna che essa non aveva mai posseduto, e tutto quello ch'essa aveva da temere dalla sua violenza. - Voi mi sembrate un uomo così saggio, - gli disse, - che se aveste la condiscendenza di venire fino a casa mia e di esaminare i miei affari sono sicura che mi trarreste dalla crudele situazione in cui mi trovo. Memnon non esitò a seguirla, per esaminare saggiamente i suoi affari e per: darle qualche buon consiglio. La dama afflitta lo condusse in una camera profumata, e lo fece sedere cortesemente con lei su un largo sofà, dove si tennero entrambi con le gambe accavallate uno di fronte all'altro. La dama parlò abbassando gli occhi, dai quali sfuggiva ogni tanto una lacrima e che, risollevandosi, incontravano sempre gli sguardi del saggio Memnon. I suoi discorsi erano pieni d'una commozione che raddoppiava tutte le volte che si guardavano. Memnon prendeva i suoi affari estremamente a cuore, e sentiva aumentare di momento in momento il desiderio di aiutare una persona così onesta e così infelice. Cessarono insensibilmente, nel calore della conversazione, di stare uno di fronte all'altro. Le loro gambe non furono più accavallate. Memnon la consigliò da tanto vicino, e le dette dei pareri così teneri, che né l'uno né l'altra potevano più parlar d'affari e non sapevano più a che punto erano. Erano arrivati a quel punto quando, come si può facilmente immaginare, giunge lo zio: era armato dalla testa ai piedi; la prima cosa che disse fu che avrebbe ucciso, come gli spettava di diritto, il saggio Memnon e la nipote; l'ultima che gli sfuggì fu che avrebbe potuto perdonare per molto denaro. Memnon fu costretto a dare tutto quel che aveva. In quel tempo felice era possibile cavarsela a così buon mercato; l'America non era ancora stata scoperta e le dame afflitte non erano neppur lontanamente così pericolose, come lo sono al giorno d'oggi. Memnon, vergognoso e disperato, rientrò a casa sua: vi trovò un biglietto che lo invitava a pranzare con alcuni suoi intimi amici. 'Se resto solo a casa" disse, 'avrò la mente occupata dalla mia triste avventura, non mangerò affatto, cadrò ammalato: meglio un pasto frugale con gli amici più cari. Dimenticherò, nella dolcezza della loro compagnia, la stupidaggine che ho commesso stamattina". Va all'appuntamento; lo si trova un po', malinconico. Lo si fa bere per dissipare la sua tristezza. Un po' di vino, preso con moderazione, è un rimedio per l'anima e per il corpo. A così che pensa il saggio Memnon; e s'ubriaca. Dopo pranzo gli si propone di giocare. Giocare moderatamente fra amici è un passatempo onesto. Gioca; perde tutto ciò che ha in borsa, e quattro volte tanto sulla parola. Nasce una disputa sul gioco, ci si scalda: uno degli amici intimi gli scaglia il bossolo dei dadi in testa e gli cava un occhio. li saggio Memnon è riportato a casa sua ubriaco, senza denaro e con un occhio in meno. Smaltita la sbornia e con la testa più libera, manda un valletto dal ricevitore generale delle finanze di Ninive a ritirare dei denaro per pagare gli intimi amici: gli si dice che il suo debitore al mattino ha fatto una bancarotta fraudolenta che mette in allarme cento famiglie. Memnon, fuori di sé. Si precipita a corte con un impiastro sull'occhio e una petizione in mano per chiedere giustizia al re contro il bancarottiere. In un salotto incontra numerose dame che portavano tutte, con aria disinvolta, dei cerchi con una circonferenza di ventiquattro piedi. Una di loro, che lo conosceva un po', dice guardandolo di lato: - Ah! Che orrore! - Un'altra, che lo conosce meglio, gli dice: - Buona sera, signor Memnon; ma veramente, signor Memnon, sono molto felice di vedervi; a proposito, signor Memnon, perché avete perduto un occhio? - E passò oltre senza attendere risposta. Memnon si nascose in un angolo e attese il momento in cui avrebbe potuto gettarsi ai piedi dei monarca. Questo momento arrivò. Memnon baciò la terra tre volte e presentò la sua petizione. La graziosa Maestà lo accolse assai favorevolmente e diede la memoria a uno dei suoi satrapi perché gliene rendesse conto. Il satrapo chiama da parte Memnon e gli dice con aria altezzosa, schernendolo amaramente: - Vi trovo un guercio divertente quando vi rivolgete al re piuttosto che a me, e ancor più divertente quando osate chieder giustizia contro un onesto bancarottiere che onoro con la mia protezione e che è il nipote d'una cameriera della mia amante. Lasciate perdere questa faccenda, amico mio, se volete conservare l'occhio che vi resta. Così Memnon, che al mattino aveva rinunciato alle donne, agli eccessi della tavola, al gioco, a ogni lite, e soprattutto alla corte, prima di notte era stato ingannato e derubato da una bella dama, s'era ubriacato, aveva giocato, aveva litigato, s'era fatto cavare un occhio ed era stato a corte, dove ci si era burlati di lui. Pietrifícato dallo stupore e straziato dal dolore, se ne ritorna a casa con la ,morte nel cuore. Nel rientrare trova gli uscieri che sequestrano i mobili di casa sua a nome dei suoi creditori. Resta quasi svenuto sotto un platano; là incontra di nuovo la bella dama dei mattino, che passeggia con il caro zio e le scoppia a ridere vedendo Memnon con il suo impiastro. Venne la notte; Memnon si coricò sulla paglia presso i muri di casa sua. Lo assalì la febbre e, dopo che si fu addormentato nell'accesso, gli apparve in sogno uno spirito celeste. Era tutto splendente di luce. Aveva sei belle ali, ma né piedi, né testa, né , coda, e non assomigliava a nulla. - Chi sei? - gli chiese Memnon. Il tuo buon genio - gli rispose l'altro. Rendimi dunque il mio occhio, la mia salute, i miei beni, la mia saggezza - gli disse Memnon. E gli raccontò come avesse perduto tutto questo in un sol giorno. - Ecco delle avventure che non capitano mai nel mondo che noi abitiamo - disse lo spirito. E quale mondo abitate? - chiese l'uomo addolorato.
La mia patria, - egli
rispose, - è a cinquecento milioni di leghe dal Sole, in una piccola stella
presso Sirio, che puoi vedere di qui. - Che bel paese! - disse Memnon; - No, - disse l'abitante della stella, - niente di tutto questo. Noi non siamo mai ingannati dalle donne, perché non ne abbiamo affatto; a tavola non ci abbandoniamo a eccessi, perché non mangiamo affatto; non abbiamo bancarottieri, perché da noi non c'è né oro né argento; non ci si può cavare gli occhi, perché non abbiamo affatto dei corpi simili ai vostri; e satrapi non commettono mai ingiustizia, perché sulla nostra piccola stella tutti sono uguali.
Memnon gli disse allora: - Signore, senza donne e senza tavola, come passate il vostro tempo?
- A vegliare sugli
altri globi che ci sono stati affidati, - disse il genio, - Ahimè! - riprese Memnon. - perché non siete venuto la notte scorsa per impedirmi di fare tante follie? - Ero presso Assan, tuo fratello maggiore - rispose l'essere celeste. Egli è da compiangere più di te. Sua graziosa Maestà il re delle Indie, presso la cui corte ha l'onore di essere, gli ha fatto cavare entrambi gli occhi per una piccola indiscrezione, ed egli è ora in una segrete con i ferri ai piedi e alle mani. - Vale proprio la pena, - disse Memnon, - d'avere un buon genio in famiglia, se di due fratelli, uno è guercio e l'altro cieco; uno è coricato nella paglia e l'altro in prigione.
- La tua sorte cambierà,
- riprese l'animale della stella. – E’ vero che tu resterai sempre guercio;
ma, a parte questo, sarai abbastanza felice, posto che tu non faccia mai lo
stolto progetto d'essere perfettamente saggio. - Tanto impossibile, - replicò l'altro, - quanto essere perfettamente abile, perfettamente forte, perfettamente potente, perfettamente felice. Noi stessi ne siamo ben lontani. C'è un globo in cui tutto ciò si trova; ma nei centomila milioni di mondi che sono dispersi nell'estensione dello spazio tutto procede per gradi. Si ha meno saggezza e piacere nel secondo che nel primo, meno nel terzo che nel secondo, e così di seguito fino all'ultimo, dove tutti sono completamente folli. - Temo proprio, - disse Memnon, - che il nostro piccolo globo terracqueo sia il manicomio di quell'universo di cui mi fate l'onore di parlare. - Non del tutto, - disse lo spirito; - ma ci si avvicina: bisogna che tutto sia al suo posto. - Ma allora, - disse Memnon, - certi poeti, certi filosofi, hanno dunque molto torto quando dicono che tutto è bene? - Hanno molta ragione, - disse il filosofo di lassù, - se si considera la sistemazione dell'universo intero.
- Ah! - replicò il
povero Memnon, - lo crederò solo quando non sarò più guercio. |