Scoperte e conquiste in altri continenti

  I Turchi Ottomani conquistano Costantinopoli

Nel XV secolo caddero antichissime civiltà,  sorsero nuovi imperi,  popolazioni che non si erano mai conosciute entrarono in contatto. Uno degli eventi più importanti nella storia di questo periodo fu la caduta dell’impero bizantino
( 1453 ),
anche se agli inizi del XV secolo Costantinopoli non era altro che una città ormai semispopolata e immiserita dall'intraprendenza di Veneziani e Genovesi che le avevano sottratto il controllo degli avamposti più importanti per il controllo dei traffici con l'oriente. Le due città italiane avevano il controllo di Caffa, in Crimea, di Tana, alle foci del Don, di Trebisonda, sulla strada della Persia.  L'ultimo colpo Costantinopoli lo subì dall'acclimatazione del baco da seta in Italia, che le tolse il monopolio di quel prodotto.
Su questa città in rovina si abbatté un nemico potente: i turchi ottomani (dal nome Osman o Otman del fondatore del loro stato), che avevano preso in Asia minore il posto dei Turchi selgiuchidi a loro volta abbattuti dai Mongoli. Gli ottomani nel 1354 superarono lo stretto dei Dardanelli e invasero la penisola balcanica, nel 1361 conquistarono Adrianopoli; nel 1389 con la trionfale battaglia di Cossovo abbatterono il regno di Serbia, che aveva raggiunto una posizione di forza nella penisola balcanica; nel 1393 conquistarono il regno di Bulgaria, minacciando i confini dell’Ungheria. Il re di questo paese, il futuro imperatore Sigismondo I di Lussemburgo, fu duramente sconfitto nella battaglia di Nicopoli del 1396. Sembrava che il destino di Costantinopoli fosse ormai segnato. Ma la penetrazione ottomana fu bloccata dalla nascita di un grande impero orientale che sembrò rinnovare i successi di Gengis Kan.

    L’artefice di questa impresa fu Tamerlano (Timur Lenk = Timur lo Zoppo) così chiamato a causa di una ferita di guerra. Era capo di una tribù mongola turchizzata di Samarcanda. Conquistò un impero che si estendeva fino all’India, al Mediterraneo, al Mar Nero. Lo scontro decisivo fra le truppe di Tamerlano e quelle ottomane avvenne ad Ankara nel 1402: gli ottomani subirono una vera e propria disfatta e il loro dominio si disgregò rapidamente. Tamerlano era un condottiero valoroso e abile, ma non aveva la stoffa dell’uomo di governo. Alla sua morte, avvenuta nel 1405, l’impero da lui edificato si sfasciò. Gli ottomani approfittarono di questa insperata circostanza e, sotto la guida di Murad II (1421-51) riedificarono dalle ceneri la loro potenza. 

    Ora essi potevano riprendere l’espansione verso l’Europa. Era opinione dei più che Costantinopoli non avrebbe potuto resistere ancora a lungo. Il timore si diffuse anche alla corte bizantina e l’imperatore Giovanni VIII Paleologo (1425-48) cercò di correre ai ripari. Si recò in Italia e barattò la sottomissione della chiesa di Costantinopoli al papa di Roma in cambio di un eventuale aiuto contro i Turchi. Malgrado l’ostilità delle popolazioni bizantine l’unione tra le due chiese fu fu proclamata ugualmente durante un concilio tenuto a Firenze nel 1439.

    L’unione fu celebrata in tutta Italia con grandi cerimonie e feste, ma non servì a salvare Costantinopoli. Nel 1444 l’esercito di Murad II sconfisse, nella battaglia di Varna, un’armata composta di Serbi, Ungheresi, Polacchi. Nello scontro perse la vita anche il re di Polonia Ladislao III. Nel 1453 il sultano turco Maometto II (1451-81) attaccò dalla terra e dal mare la capitale dell’impero bizantino. Il suo esercito contava circa 200.000 uomini, gli assediati erano 15 volte di meno (dall’occidente erano accorsi in aiuto solo qualche centinaio di Genovesi e Veneziani). L’esercito ottomano disponeva di un’artiglieria moderna che sbriciolava le antiche mura del V secolo d. C. gli assediati si difendevano con lance, frecce, catapulte.
    La città cadde la mattina del 29 maggio 1453.
    L’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI, morì combattendo. La chiesa di Santa Sofia fu trasformata in moschea. Gli abitanti furono massacrati. Costantinopoli fu ribattezzata Istanbul e divenne la base sulla quale gli ottomani costruirono la loro potenza marittima. Scomparve così l’impero bizantino, al suo posto si insediò l’impero ottomano, che cessò di esistere nel 1922.

    La conquista ottomana di Costantinopoli determinò uno sbarramento alla penetrazione veneziana e genovese nel mediterraneo orientale e nel mar Nero; le città italiane, malgrado alcune piccole concessioni,  non furono più in grado di muoversi in quel settore del Mediterraneo con la stessa libertà di prima, e questo fu l’inizio del loro declino.

    Nel 1480 i Turchi sbarcarono addirittura in Puglia e occuparono la città di Otranto, massacrandone gli abitanti. L’evento suscitò apprensione in Italia Meridionale, ma sollievo nel resto della penisola: a Firenze, come a Venezia, non dispiaceva che il re di Napoli avesse qualche preoccupazione in più. La morte di Maometto II, nel 1481, e la lotta di successione che si aprì alla corte ottomana, alleggerirono tuttavia la pressione sull’Italia.

    ● La navigazione oceanica. I Portoghesi sulla via delle spezie: la circumnavigazione dell'Africa

     Gli ultimi decenni del Quattrocento sono un periodo di grandi esplorazioni geografiche promosse da alcuni stati europei. L'evoluzione della società e il positivo e concreto apporto della nuova cultura umanistica portano alla dissoluzione di alcuni pregiudizi, di alcuni divieti morali precedenti.  Mentre la maturazione della cultura ha ormai vanificato questi tabù ideologici, l'occupazione da parte dei Turchi dell'impero bizantino  spinge i paesi marinari alla ricerca di nuove rotte per riattivare gli scambi con le terre dell'Oceano Indiano. I Portoghesi sono quelli che più si impegnano in questa direzione, confidando nella prospettiva di sostituire Venezia come principale paese mediatore di commercio tra l'Oriente e l'Occidente. Nuovi perfezionamenti tecnici consentono la realizzazione di viaggi lunghi e complessi che in precedenza risultavano quasi impossibili. Tra queste nuove conquiste della tecnica e d'ella pratica marinara sono l'adozione del timone di poppa e la sua applicazione alla caravella, nave leggera e molto veloce, adatta a lunghi tragitti; il perfezionamento della bussola e il suo uso costante; una mappa più precisa dei venti, l'elaborazione di più rigorose carte nautiche.

    Obiettivo: nuova rotta per l'India.
    Già nel 1291 due fratelli genovesi, Ugolino e Vadino Vivaldi, avevano tentato l’avventura, ma la loro spedizione non aveva mai fatto ritorno. Il progetto di esplorazione della costa atlantica dell’Africa fu però ripreso sistematicamente dal re del Portogallo Enrico il Navigatore. Nel 1445 furono scoperte le isole del Capo Verde e nel 1456 il veneziano Alvise Ca’ da Mosto e il genovese Antoniotto Usodimare entrambi al servizio del sovrano Portoghese, scoprirono la foce del fiume Gambia.

    Nel 1487 una spedizione guidata da Bartolomeo Diaz parte dal Portogallo e l'anno dopo riesce a doppiare il Capo di Buona Speranza e a trovare la via per l'Oceano Indiano. L'enorme lunghezza del viaggio persuade Diaz a ritornare, munito però di una serie di informazioni preziose per i futuri tentativi. Nel 1497 parte la spedizione che risulterà decisiva, guidata da Vasco de Gama e con la partecipazione dello stesso Diaz. 
    La spedizione ha già un carattere commerciale, è quasi un'ambasceria ufficiale del Portogallo per i regni dell'Oceano Indiano; non per nulla de Gama è un diplomatico e un soldato, più che un navigatore di professione. Al tempo stesso la flotta è dotata di cannoni e di soldati per opporsi alle probabili ostilità degli empori commerciali musulmani insediati sulle coste dell'Oceano Indiano. Nel 1498 Vasco de Gama raggiunge Calicut sulla costa occidentale dell'India meridionale, grazie anche all'aiuto di un navigatore arabo arruolato in un porto del Kenya. Soltanto nel 1499, dopo un viaggio di ritorno molto difficile, la spedizione, con l'equipaggio ridotto ad un terzo, potrà arrivare a Lisbona. Ma la rotta dell'India è definitivamente aperta.
    La penetrazione commerciale portoghese, per affermarsi con le successive spedizioni, dovette affrontare e sconfiggere l'opposizione dei principati musulmani e dei mercanti arabi che si erano insediati sulle coste dell'Africa orientale e su quelle dell'Oceano Indiano.

    I primi risultati commerciali furono modesti: soltanto pepe e cannella furono la contropartita commerciale del primo viaggio di Vasco de Gama. Le stoffe portoghesi e il ferro lavorato non interessano commercialmente un mondo asiatico altamente civilizzato: i monarchi locali non potevano certo immaginare che quelle ciurme cenciose e quelle navi provate dal duro viaggio rappresentassero le forze di avanscoperta di una potenza che avrebbe conquistato metà dell'Oriente. Anche se pericolosi, date le armi di cui disponevano, agli occhi di quei raffinati principi indiani, gli Europei apparivano come un branco di avventurieri disperati: erano pochi, barbari e sudici. La nave delle grandi scoperte fu la caravella portoghese, che fece la sua apparizione verso il 1430. Questo piccolo veliero aveva doti di estrema maneggevolezza, determinate dalla possibilità di usare simultaneamente le vele quadrate, motrici, e la vela latina, per la manovra.
    La conquista dell’oceano ha dato all’Europa un privilegio che sta alla base della sua espansione mondiale
    . Tutte le grandi civiltà marittime del mondo avevano la possibilità teorica di lanciarsi in questa impresa, ma soltanto l’Europa vi s’impegnò con tutti i suoi mezzi, e lo fece in modo così rapido e deciso da mantenere per secoli il primato.

    Come spiegare questo successo? La spiegazione non può essere ricercata unicamente nella tecnica: anche le imbarcazioni cinesi o arabe erano dotate di attrezzature adeguate. Non fu nemmeno esclusivamente una questione di mezzi: la Cina e l’Islam erano infatti in quell’epoca civiltà complessivamente più ricche dell’Europa. E nemmeno l’attrazione dell’ignoto e la curiosità intellettuale bastano a spiegare avvenimenti di portata universale come le grandi scoperte geografiche e la nascita del colonialismo.

    Certamente tutte queste furono condizioni indispensabili affinché l’Europa tentasse la conquista degli oceani. Esse s’inserirono però in un quadro dominato da condizioni politiche e necessità economiche ben precise. La formazione delle grandi monarchie nazionali si era accompagnata alla costituzione di eserciti di massa e di un’amministrazione complessa e articolata , di una politica edilizia di prestigio; tutte esigenze vitali, che non potevano essere soddisfatte dal normale prelievo fiscale. Si imponeva così la necessità di procurarsi in altro modo le ricchezze indispensabili al mantenimento di un’organizzazione statale e di forze armate efficienti; soltanto una politica di potenza e di conquista avrebbe assicurato il controllo di rotte commerciali da sfruttare in esclusiva scardinando, sostituendo e ampliando il monopolio delle città italiane.

    Le innovazioni tecniche

    Nel corso del tempo le imbarcazioni erano via via divenute sempre più grandi, solide e robuste. Erano ormai dotate di un timone simile a quello ancora oggi in uso, collocato sotto lo scafo e molto più efficiente di quelli antichi, che erano per lo più dei grandi remi fissati a poppa.

    Inoltre, le navi di nuova costruzione avevano più alberi che portavano numerose grandi vele. Opportunamente manovrate, esse potevano raccogliere il vento proveniente dai lati e non solo da poppa. Erano infine stati migliorati gli strumenti a disposizione dei naviganti. Il perfezionamento della bussola e dell’astrolabio e lo sviluppo della cartografia permettevano di calcolare la posizione della nave anche senza conoscere le coste e senza vederle. Ciò permise di percorrere le rotte in mare aperto anche per lunghi periodi.

Le civiltà amerinde

Intorno al XV secolo, il continente americano è abitato da popolazioni di differente sviluppo civile: alcuni popoli sono giunti ad uno stadio di evoluzione di tipo neolitico, altri ad un più avanzato livello economico-sociale,  caratterizzato dalla lavorazione dei metalli e da perfezionate strutture sociali.

Le maggiori civiltà sono quelle insediate

  1. nell'attuale Messico, dove una serie di popolazioni altamente culturalizzate è in questo momento sotto l'egemonia di una popolazione militare e guerriera, gli Aztechi,

  2. nella penisola dello Yucatàn, i Maya,

  3. nel versante Pacifico dell'America meridionale, l'impero degli Inca.

I rapporti fra queste popolazioni sparse nell'enorme continente sono quasi inesistenti; soltanto modesti traffici collegano, molto saltuariamente, l'area messicano-caraibica degli Aztechi e dei Maya con l'area peruviano-andina degli Inca. Nessuno di questi popoli si cimenta nella navigazione, ad eccezione dei Maya che si avventurano soltanto su brevi distanze. Gli elementi fondamentali di queste maggiori civiltà sono abbastanza simili e possono essere sintetizzati nella formula di stati egemoni e centralizzatori fondati su tributi imposti alle popolazioni soggette.

  Gli Aztechi

Un impero militare è quello azteco. Il suo centro è la città di Tenochtitlàn, costruita, dove oggi sorge Città del Messico, su una serie di isolotti, al centro di un lago: una città fittamente popolata,  articolata da centinaia di strade, canali, ponti e dighe. Da questa capitale politica, gli Aztechi dominano tutta la regione messicana ed una serie di popolazioni sottomesse e sottoposte a tributo. Il centro della città è costituito dal palazzo del re e dal mercato; di quest'ultimo i primi cronisti spagnoli parlano con grande meraviglia, sottolineandone la grandezza e l'animazione, per le moltissime migliaia di persone che ogni giorno vi accorrono a vendere o scambiare merci. La struttura politica dello stato è un impero elettivo: il sovrano, eletto dalla nobiltà militare, ha poteri assoluti, in qualità di sommo sacerdote, di capo dello stato e dell'esercito.

I Maia
I Maya
erano organizzati in città-stato, autonome tra loro.

Gli Inca
Più complesso e politicamente perfezionato di tutti era l'impero degli Inca: questi, più che una popolazione, erano un ristretto clan (comunità etnica), che, a partire dal 1100, aveva assoggettato le popolazioni quechua insediate nelle valli andine. Dalla capitale Cuzco (ombelico) nell'attuale Perù essi dominavano un impero esteso in lunghezza per più di 3 000 chilometri, nei territori che vanno attualmente dall'Ecuador al Perù, al Cile. Una rete di strade percorreva tutto il vastissimo territorio e permetteva agli Inca di amministrarlo, e di controllarlo con una gerarchia di sacerdoti-funzionari addetti al prelievo dei tributi. La struttura politica dello stato era un impero per certi aspetti ierocratico: il re (Sapa Inca: il solo signore) era l'incarnazione vivente del dio-sole, la sua famiglia-clan (più di 500 persone) costituiva la casta che dominava su tutta la popolazione attraverso una rete burocratico-religiosa.

Questo stato ierocratico ha elaborato una struttura sociale singolarmente avanzata e moderna, che gli ha meritato dagli storici vari appellativi, da quello di «illuminata tirannide» a quello di «stato socialista degli Inca». La terra, appartenente nominalmente al re-dio inca, è in sostanza gestita dalle comunità quechua che costituiscono la popolazione dell'impero. Ogni anno le terre concesse a ogni comunità vengono ridistribuite tra tutti i membri, in modo da permettere di seguire la variazione numerica, diversa di anno in anno, delle varie famiglie. Alcune porzioni di terra — riservate all'Inca, cioè allo stato — vengono coltivate gratuitamente da tutto il clan. Terra, animali, raccolti sono gestite collettivamente dalle comunità. «Tutti appartenevano a un clan sin dalla nascita. La comunità poteva essere più o meno grande: estendersi a formare un villaggio, un grosso borgo o addirittura una città; persino Cuzco, la capitale, era fondamentalmente un clan... Individualmente nessuno possedeva terra, ma il clan aveva un territorio ben definito e ne prestava ai suoi membri quel tanto che giudicava necessario al loro benessere» (V. W. von HAGEN).

Tecniche e culture nelle civiltà americane

Il sistema di proprietà caratteristico delle società andine si ripresenta anche nelle altre civiltà americane. Anche presso gli Aztechi, «era la comunità, non l'individuo, a possedere la terra. Ogni individuo nasceva in un clan... Ogni uomo sposato riceveva un appezzamento in usufrutto direttamente dal clan. Nessuno aveva diritti di proprietà sulla terra che lavorava, ma soltanto sui suoi prodotti» (V. W. von HAGEN).
Nella società militarista e conquistatrice degli Aztechi erano numerosi gli schiavi, appartenenti a tribù sconfitte e ridotte in servitù. E anche presso i Maya era diffusa la schiavitù.

Le tecniche agricole sono in genere rudimentali: gli Aztechi e gli Inca conoscono la ruota, ma non la usano per fini pratici, o come mezzo per trasportare oggetti pesanti, o come macina da mulino. Nell'America centrale e nell'America meridionale la mancanza di animali da tiro ha avuto come effetto la mancata utilizzazione della ruota per attrezzare i veicoli. Forse per l'assenza di animali da tiro, non è conosciuto l'aratro. Gli Aztechi usano, per dissodare la terra, un bastone da scavo. Gli Inca sono molto esperti nel terrazzamento dei pendii delle colline a terreno coltivabile e nella canalizzazione delle acque per l'irrigazione dei campi. L'acqua bagna prima le terrazze superiori, poi defluisce lentamente in quelle inferiori.
Gli animali domestici erano piuttosto scarsi: il cane si trova dovunque, ma soltanto presso gli eschimesi e presso gli indiani del Canada e delle grandi praterie è usato come animale da tiro di slitte e altri traini. Nel Messico è addomesticato il tacchino, nell'America andina vengono allevati porcellini d'India, anatre per usi gastronomici e animali per la lana, come il lama e l'alpaca. Il lama è anche usato come animale da soma, soltanto però sino ad un modesto carico. Non è possibile usarlo come animale da tiro o come cavalcatura: si getta a terra quando il carico impostogli è superiore ai 25 chili.
La lavorazione dell'argento, dell'oro, del rame, del bronzo avviene con tecnologie semplici, ma efficaci. Il ferro è sconosciuto in tutto il continente. Gli Aztechi conoscono la carta e la scrittura, mentre gli Inca praticano solo un sistema di scrittura rudimentale. Essi usano, come elemento di calcolo e di memorizzazione, delle corde a nodi.
Diffusi ovunque sono i telai per la tessitura, per la lavorazione di lane di vigogna, alpaca, lama. Molto evolute sono inoltre le tecniche di costruzione edilizia, che portano alla erezione di splendidi edifici e monumenti, soprattutto di templi maestosi costruiti in forma di piramide. Grandi portali a forma trapezoidale, presso gli Inca, o maestose volte a mensola, presso i Maya, si aprono entro i possenti muri perimetrali dei grandi santuari e dei grandi palazzi. E' invece sconosciuto l'arco. Oggetti di oreficeria, in oro e in altre materie pregiate, testimoniano la presenza di un artigianato abile e progredito, così come le enigmatiche sculture, in pietra e in altre materie adatte, documentano la presenza di una fantasia artistica potentemente originale e suggestiva.

I connotati complessivi di queste culture fanno emergere l'immagine di società in cui i vincoli comunitari e solidaristici sono ben più forti che nel mondo europeo: si tratta di comunità nel complesso esenti da quello spirito individualistico e concorrenziale che ha ormai caratterizzato l'Occidente europeo, mercantile e borghese. Per altri aspetti, questo tipo di civiltà si è cristallizzata nelle forme magico-naturalistiche di una religiosità che permane ancorata a riti animistici di efferata crudeltà: in primo piano stanno i sacrifici umani, ovunque diffusi, ma particolarmente frequenti e considerati come parte integrante del rito sacro presso gli Aztechi e i Maya. Su questi aspetti faranno leva, in seguito, i conquistatori spagnoli per giustificarsi, in nome della civiltà, degli eccidi compiuti ai danni delle popolazioni indigene.

Nel complesso, l'economia delle civiltà americane originarie è di tipo agrario, fondata sulla coltivazione dei cereali, soprattutto sul mais che verrà detto erroneamente granoturco perché si diffonderà particolarmente nell'area dominata dall'impero ottomano. Pur con mezzi tecnologici rudimentali, essa è riuscita ad acclimatare e a selezionare prodotti che oggi, grazie ad essa, si sono diffusi in tutto il mondo. «Sotto la guida degli Inca, l'intero regno divenne un'immensa piantagione agricola. Oltre la metà dei prodotti che si mangiano oggi nel mondo sono stati coltivati per la prima volta dai contadini delle Ande. Si calcola che queste terre abbiano sistematicamente fornito piante alimentari e medicinali superiori per quantità e varietà a quelle di qualsiasi altro territorio di pari estensione. Basterà ricordare le più note: granoturco, patate, zucche, fagioli di innumerevoli tipi, manioca, arachidi, ananas, cioccolata, pomodori, peperoni, papaia, more di gelso, insomma piante tanto numerose e tanto diverse, e da tanto tempo trapiantate nel Vecchio Mondo, che stupisce pensare alla loro origine americana» (V. W. von HAGEN).

Colombo. La scoperta e l'esplorazione dell'America

Bartolomeo Diaz, nel 1487, non era giunto a toccare il proprio obiettivo, le Indie. Anzi, il percorso da lui seguito era apparso non solo disagevole ma eccessivamente lungo. Si rafforzò pertanto, in alcuni geografi e navigatori, l'idea della possibilità di una via diversa: quella di raggiungere i paesi delle spezie dell'Asia sud-orientale da occidente, circumnavigando il globo attraverso l'Atlantico.

Una lunghissima tradizione culturale aveva sostenuto che i mari costituiva-no uno spazio molto esiguo rispetto a quello delle terre, uno spazio non superiore per alcuni a quello di 1/7 dell'intero globo. Avendo Bartolomeo Diaz coperto un tragitto notevolissimo verso est prima di raggiungere l'India, le terre più orientali dell'Asia avrebbero dovuto trovarsi a una distanza non troppo grande dall'Europa circumnavigando il globo attraverso l'Atlantico. Sulla base di analoghe considerazioni, un genovese figlio di un cardatore di lana ed autodidatta, Cristoforo Colombo (1451-1506), dotato di una buona cultura nautica teorica e pratica, attento lettore di trattati di geografia a partire da quello di Tolomeo e di relazioni di viaggi come quella di Marco Polo, giunse all'idea geniale di «buscar el levante por el ponente», cioè di giungere alle asiatiche isole delle spezie facendo rotta verso ovest. Ignorando l'esistenza del continente americano e sottovalutando la circonferenza del globo, Colombo immagina possibile di pervenire con un viaggio attraverso la parte sconosciuta del globo terrestre diretta-mente al Giappone e alla Cina. Egli propone la sua iniziativa ai Portoghesi nel 1484, ancor prima del viaggio di Diaz; dopo il 1488, pervenuto ormai il

Portogallo sulla strada dell'Oceano Indiano dopo la circumnavigazione dell'Africa, Colombo ripropone il viaggio attraverso ponente alla Spagna e, grazie alla regina Isabella di Castiglia e all'intervento di un gruppo di armatori di Palos, i fratelli Pinzòn, nel 1492 riesce a far equipaggiare una spedizione costituita da tre bastimenti — la nave ammiraglia Santa Maria, la Pinta e la Nina — e da 120 marinai. Grandiose idee di speculazione commerciale, geniali ma approssimative intuizioni geografiche, coraggio intellettuale e ambizioni si saldano insieme nell'impresa di Colombo e dei fratelli Pinzòn, i quali ultimi assumono direttamente il comando della Pinta e della Nina. Tanta è la sicurezza di Colombo di pervenire all'Asia con la rotta di ponente che nel suo Diario il navigatore annota di essere latore di una lettera dei sovrani di Spagna al Gran Can. La spedizione parte dal porto di Palos nell'agosto del 1492.
Leggenda è l'ammutinamento dell'equipaggio, che si disse domata per intervento dei fratelli Pinzòn. Certo è che Colombo, per non intimorire i marinai di fronte all'eccessiva distanza percorsa oltre le Canarie, adottò l'accorgimento di segnare giornalmente un minor numero di leghe percorse. Finalmente, il 12 ottobre 1492 la spedizione raggiunse un'isola delle Bahamas a cui Colombo diede il nome di S. Salvador — probabilmente l'isola di Watling. Poco più di due mesi e un viaggio assistito da venti favorevoli avevano portato la spedizione in terre che vennero allora identificate come un arcipelago non lontano dalle coste del Giappone. Dopo aver raggiunto le isole di Haiti — che chiamò Hispaniola — e di Cuba, Colombo ritornò in Spagna, con modestissime quantità di oro, indigeni, cotone, pappagalli, in luogo delle gemme e delle spezie che costituivano l'obiettivo principale del suo viaggio. Per l'errore di Colombo, all'arcipelago delle Antille e delle Bahamas rimarrà per secoli il nome di Indie occidentali.

Altri viaggi seguono il primo, ad opera dello stesso Colombo, del veneziano Giovanni Caboto che, per conto del re d'Inghilterra, giunge all'isola di Terranova, del portoghese Cabral, che una forte tempesta spinge a sud sulle coste del Brasile, del fiorentino Amerigo Vespucci, anch'egli approdato sulle coste del Venezuela e del Brasile. Le nuove esplorazioni dimostrano che non l'Asia, ma un nuovo continente è stato toccato. Il geografo Martin Waldseemuller darà ad esso (1507) il nome di America, dal nome del Vespucci. Nel 1519 il portoghese Ferdinando Magellano, forse la più bella figura tra i grandi navigatori, inizia un viaggio che si concluderà, dopo la sua morte, con la circumnavigazione del globo. L'Oceano Pacifico, che per la prima volta era stato visto da una spedizione giunta attraverso l'istmo di Panama e capeggiata dalla spagnolo Nunez de Balboa (1513), viene ora attraversato da Magellano, dopo il passaggio dell'attuale stretto di Magellano nell'America del Sud, fino alle isole Molucche e Filippine. Rimasto ucciso il Magellano ad opera di indigeni delle Filippine, la spedizione proseguirà il viaggio verso occidente e, pur decimata nell'equipaggio e nelle navi, raggiungerà l'Europa dopo tre anni di viaggio, nel 1522.

 L'espansione spagnola sui mari nacque dalla testarda intuizione di un navigatore genovese, Cristoforo Colombo (1451-1506); Convinto dalle teorie del geografo fiorentino Paolo Toscanelli, in base alle quali, si poteva raggiungere l’ Oriente navigando verso Occidente, Colombo cercò qualcuno che finanziasse la sua spedizione.
Dopo molte insistenze, Colombo ottenne dalla Spagna tre caravelle e un equipaggio di circa centoventi uomini. Fu una concessione, quasi un capriccio della regina Isabella di Castiglia, da cui ebbe origine una grande avventura.
Colombo salpò da Palos, nel Sud della Spagna, il 3 agosto 1492 e, dopo oltre due mesi, raggiunse un’isola dell’arcipelago delle Bahamas, che chiamò San Salvador. Non si rese mai conto di aver scoperto un nuovo continente e credette per tutta la vita di aver raggiunto le Indie.

Magellano e il giro del mondo

Nel 1519 il portoghese Ferdinando Magellano, al servizio della Spagna, realizzò un’altra straordinaria impresa. Dopo aver costeggiato l’America meridionale giunse allo stretto che, all’estremo sud, collega l’oceano Atlantico all’oceano Pacifico. Lo attraversò e proseguì fino a raggiungere l’arcipelago delle Filippine, dove fu ucciso in uno scontro con gli indigeni. Una sola nave superstite proseguì il viaggio di ritorno, attraverso l’oceano Indiano e l’Atlantico, e riuscì ad approdare a Lisbona nel novembre del 1522. Si era così compiuta, per la prima volta, la circumnavigazione del globo terrestre. L’avventura di Magellano fu poi descritta da Antonio Pigafetta, un italiano di Vicenza che aveva preso parte alla spedizione.

Le conseguenze economiche delle scoperte geografiche

Il primo bilancio delle grandi scoperte realizzate va a netto favore del Portogallo rispetto alla Spagna. I Portoghesi, liquidata con la forza e con spietate repressioni la resistenza dei mercanti arabi operanti tra il Mar Rosso e l'Oceano Indiano, pervengono a dominare il mercato delle spezie. Infatti essi poco a poco insediano una serie di scali commerciali nei punti nevralgici per il commercio delle spezie; rinunciano invece alla costituzione di domini diretti, ad occupazioni di carattere coloniale, in quanto sarebbero impegni troppo gravosi per uno stato che ha insufficienti risorse di uomini e mezzi. Tra le principali basi portoghesi in Asia sono Goa in India — che sostituisce Calicut —, la penisola di Malacca, il porto di Macao in Cina. Essi sono presto in grado di offrire al mercato europeo i prodotti ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello dei mercanti veneziani ed in genere italiani. Li avvantaggia sia la maggior capacità di trasporto del traffico marittimo rispetto a quello carovaniero, sia l'approvvigionamento diretto, senza dover pagare tangenti ad una serie di intermediari commerciali, come invece accadeva per il traffico delle repubbliche marinare italiane.

Le prospettive aperte dalla prima e dalle altre spedizioni di Colombo alla Spagna sono meno favorevoli. Il nuovo continente appare povero ed inospitale; l'insediamento di un dominio diretto si limita perciò alle isole dei Caraibi: Haiti, Cuba ecc. Colombo muore amareggiato, per l'evidente fallimento del suo tentativo di trovare la via più rapida per giungere all'oro e alle spezie dell'Asia, a cui si era dedicato per tutta la vita, sulla traccia delle favolose ricchezze descritte nel libro che aveva forse mosso per primo la sua fantasia e la cui presenza è documentata nella sua biblioteca: il Milione di Marco Polo. Soltanto le conquiste di Cortés e di Pizarro riequilibreranno in seguito il confronto commerciale fra Spagna e Portogallo. Ma il prezzo sarà salatissimo: la distruzione fino alla cancellazione di numerose civiltà, il massacro in massa degli oppositori, l'asservimento dei vinti.

Una prima spartizione della zona di influenza coloniale fu realizzata con un arbitrato del pontefice e con un accordo fra Spagna e Portogallo (Trattato di Tordesillas, 1494): la linea di demarcazione dei due futuri imperi coloniali fu collocata al 47° meridiano, che taglia da nord a sud il Brasile: a est di tale linea il dominio e l'espansione coloniale erano assegnati al Portogallo, a ovest alla Spagna.

L'anno della scoperta dell'America segna per alcuni aspetti il chiudersi dell'età medievale e l'aprirsi dell'età che noi chiamiamo moderna: da questo momento si accentua infatti il senso di distacco dal passato che caratterizzerà la mentalità europea, sempre più segnata dalle esigenze e dalle prospettive di esplorazione e di conquista del globo terrestre. Mentre decade il Mediterraneo come area cruciale di scambi, l'Atlantico diventa un importante crocevia di traffici e di imprese coloniali. L'Europa occidentale tende a porsi come centro di commerci intercontinentali, iniziando quel lungo cammino verso l'affermazione di una egemonia economica ed ideologica su tutto il pianeta (eurocentrismo) che si realizzerà nei quattro secoli seguenti.

D'altra parte, l'evoluzione commerciale e politica su scala mondiale, determinata dalle scoperte geografiche, non è senza connessioni, come già si è brevemente accennato, con il rinnovamento intellettuale dell'Umanesimo. In modo molto efficace, nel suo dramma Vita di Galileo, B. Brecht identifica età dei viaggi e delle esplorazioni e età dell'Umanesimo, viste entrambe come un momento antiautoritario, antimedievale di audacie dello spirito e della volontà, tendenti ad una emancipazione generale dell'uomo nella società: «Le città sono piccole, le teste altrettanto: piene di superstizioni e di pestilenze. Ma ora noi diciamo: visto che così è, così non deve rimanere. Perché ogni cosa si muove. Io ho in mente che tutto sia incominciato dalle navi. Sempre, a memoria d'uomo, le navi avevano strisciato lungo le coste: ad un tratto se ne allontanarono e si slanciarono fuori, attraversando il mare. Sul nostro vecchio continente allora si sparse una voce: esistono nuovi continenti. E da quando le nostre navi vi approdano, i continenti ridendo dicono: il grande e temuto mare non è che un po' d'acqua. E c'è una gran voglia di investire le cause prime delle cose».

● Le nuove scoperte geografiche ebbero conseguenze economiche di enorme portata.

Le più importanti rotte commerciali europee, lentamente, si spostarono dal Mediterraneo all’oceano Atlantico: Lisbona, Siviglia, Rotterdam, Londra e, in seguito, Bordeaux e Amsterdam divennero, col tempo, porti maggiori di Genova, Venezia o Napoli.
L’Italia perse così gran parte della sua importanza commerciale. Gli scambi che si svilupparono grazie alle nuove rotte assunsero una dimensione mondiale.
Nuovi prodotti, come il mais, il pomodoro, la patata, il cacao, il tabacco affluirono in Europa dal nuovo continente.

La contesa per le nuove terre

La Spagna e il Portogallo si contesero i nuovi territori. Risolse la controversia il cardinale spagnolo Rodrigo Borgia il quale, divenuto papa con il nome di Alessandro VI, attuò una mediazione che, di fatto, favorì la Spagna. Il mondo fu diviso in due grandi sfere d’influenza, con una linea ideale che andava da nord a sud passando 100 miglia al di là delle isole Azzorre, situate in mezzo all’Atlantico. A occidente di tale linea appartenevano alla Spagna “tutte le isole e le terre ovunque si trovino”; a est aveva mano libera il Portogallo, che così mantenne i commerci con l’Africa e l’Oriente. I due regni accettarono tale divisione siglando, nel 1494, il trattato di Tordesillas. Gli altri Stati europei non riconobbero mai la sua validità.

Gli Olandesi penetrarono nell’oceano Indiano e in Estremo Oriente, scontrandosi spesso con i Portoghesi; gli Inglesi iniziarono a colonizzare l’America settentrionale; i Francesi fondarono basi commerciali e militari in Canada, in Africa e in India. Il primo che raggiungeva un territorio si riteneva in diritto di occuparlo. Ciò provocò contrasti, e anche vere e proprie guerre, tra i diversi Stati europei.

La conquista del Messico


Al periodo delle esplorazioni e della scoperta di nuove rotte seguì quello della conquista dei nuovi territori americani, soprattutto da parte della Spagna. Protagoniste non furono tuttavia le truppe regolari, ma bande di avventurieri (i conquistadores) attratti dal miraggio della ricchezza.

Nel 1519 Hernàn Cortés, un esponente della piccola nobiltà spagnola, sbarcò sulla costa del Messico con seicento uomini e alcuni cannoni. Nel giro di due o tre anni, combattendo con grande coraggio e feroce determinazione, si impadronì dell’impero azteco, che aveva circa 20 milioni di abitanti, e fece uccidere l’imperatore Montezuma. La clamorosa vittoria fu resa possibile da due fattori: la presenza di cavalli e di armi da fuoco, che atterrivano gli Aztechi ai quali erano sconosciuti, e la grande abilità diplomatica di Cortés, che riuscì a portare dalla sua parte alcune popolazioni locali che gli Aztechi avevano sottomesso. La regione conquistata venne chiamata Nuova Spagna. Essa costituì la base per ulteriori spedizioni spagnole, che si spinsero a Nord fino al golfo della California e a Sud fino al Guatemala e a Panama.

Conquista del Perù e delle Filippine

Un altro conquistatore spagnolo, Francisco Pizarro, con soli duecento soldati conquistò l’attuale Perù. Qui sorgeva un grande impero, quello inca, che era stato appena sconvolto da una grande epidemia e da una guerra civile fra l’imperatore Atahualpa e il fratellastro Huascar. Dopo una marcia di 1500 chilometri, Pizarro con i suoi pochi uomini riuscì, incredibilmente, a sconfiggere Atahualpa (1532). La conquista del Perù assicurò alla Spagna le ricche miniere d’oro e d’argento della regione. Nel 1564 un’altra spedizione spagnola occupò le Filippine, che rimasero colonia spagnola fino alla fine dell’Ottocento.

Schiavitù e oppressione nelle colonie spagnole

Con la conquista del Messico e del Perù la Spagna si trovò padrona di un immenso dominio.

n un primo momento fu lasciata mano libera ai conquistadores, che si spartirono le proprietà terriere e resero schiavi gli indigeni. In seguito, venne avvertita l’esigenza di prendere il controllo dei territori occupati e la Spagna cominciò a inviare propri governatori. Dalle colonie americane, con le loro piantagioni e le loro miniere di metalli preziosi, la Spagna trasse immense ricchezze. Il dominio spagnolo, però, produsse effetti disastrosi sulle popolazioni indigene. Ridotti in schiavitù, sfruttati e maltrattati, costretti al lavoro forzato, gli indios morirono a milioni, anche perché non erano immunizzati contro le nuove malattie portate dai colonizzatori europei. Si trattò di un autentico genocidio: in poco più di un secolo la popolazione indigena crollò da 30 milioni a solo 3 milioni di abitanti.

Un missionario accusa i conquistadores

Le violenze compiute dai colonizzatori spagnoli vennero coraggiosamente denunziate dai missionari cattolici che si erano recati in America per convertire gli indigeni. Fra questi missionari il più noto fu il domenicano Bartolomeo de Las Casas
(1474-1566), che non si limitò a sostenere il diritto degli indios a essere trattati come esseri umani, ma cercò di creare aziende agricole dove essi potessero lavorare senza sottostare alla schiavitù e al lavoro forzato. Ecco come Las Casas descrive l’ipocrisia dei colonizzatori, che, sotto il pretesto di convertirli si impadronivano di essi per ridurli in schiavitù

Dopo finite le guerre e con esse le uccisioni, divisero tra loro tutti gli uomini, dandone ad uno trenta, ad uno quaranta, ad un altro cento, e duecento, secondo che uno ciascuno era in grazia del tiranno maggiore, che chiamavano “governatore”. Li davano tutti a ciascun cristiano secondo questo pretesto, che dovesse ammaestrarli nella fede cattolica, La cura ed il pensiero che n’ebbero fu invece di mandare gli uomini alle miniere a scavare oro, ch’è una fatica intollerabile; e mettevano le donne nelle stanze, che sono capanne, per scavare e coltivare il terreno, fatica da uomini molto forti e robusti, n on davano da mangiare nè agli uni, nè alle altre, se non erbe e cose che non avevano sostanza

L’idea di  Las Casas  fu poi sviluppata attraverso oltre aziende agricole costituite da missionari francescani e gesuiti. Essi cercarono di insegnare agli indigeni le tecniche europee di coltivazione e il riunirono in villaggi lontani dai bianchi, dove a ciascuno erano garantiti una casa e un pez­zetto di terra. Queste esperienze furono però assai mal viste dai dominatori bianchi, perché mettevano in discussione il loro modo di organizzare il lavoro e di sfruttare gli schiavi, Vennero perciò ostacolate, anche con la forza, e finirono per essere abolite.

L’impero portoghese

Per non scontrarsi con la Spagna, il Portogallo limitò le sue conquiste in America al solo Brasile, scoperto, nel 1500, da Pedro Alvares Cabral, e indirizzò invece le sue mire verso l’Africa e l’Oriente. Furono così occupate dal Portogallo varie zone costiere lungo la rotta che, costeggiando l’Africa orientale, portava in India. Il   Portogallo tuttavia era un paese piccolo, con pochi abitanti. Perciò non aveva la possibilità di occupare e colonizzare vasti territori. Quindi si limitò a creare una rete di fortezze che fungevano da scali commerciali, controllate da un governatore, residente a Goa in India, e da due squadre navali potenti e bene armate. I    Portoghesi riuscirono così, con pochi uomini e pochi mezzi, a gestire il fiorente commercio dei prodotti orientali. In seguito, tuttavia, i possedimenti e commerci passarono nelle mani degli Olandesi. L’unica vera grande colonia portoghese restò il Brasile. Qui prosperarono le piantagioni di zucchero, caffè e tabacco e furono scoperte ricche miniere d’oro. Nel primo Settecento un quarto delle ricchezze dello stato portoghese proveniva dalla colonia brasiliana.

L’Olanda

A partire dalla seconda metà del ‘500 anche la piccola Olanda riuscì ad affermare la propria potenza marittima. In virtù della loro grande abilità tecnica nelle costruzioni navali, gli Olandesi crearono la flotta più importante del mondo. All’inizio del Seicento essa era superiore, per capacità di carico, a quella di ogni altro paese europeo. Per la loro specializzazione nel trasporto delle merci, gli Olandesi venivano chiamati “i carrettieri del mare” e la loro patria “il magazzino del mondo”. Erano un piccolo popolo e, come i Portoghesi, non erano interessati a colonizzare i territori. Si limitavano perciò a stabilirvi delle basi commerciali, che servivano da punto di appoggio per le navi e per le merci. Inoltre, praticavano mas­sicciamente la pirateria, a danno della Spagna e, soprattutto, del Portogallo. Fu proprio il Portogallo il loro principale concorrente nei commerci con l’Estremo Oriente. Dopo una dura lotta essi finirono per sconfiggerlo e prenderne il posto.

L’Inghilterra

L’Inghilterra, favorita dalla sua posizione geografica, scelse anch’essa la via del mare per imporre nel mondo la propria potenza. La sua fortuna iniziò con la pirateria. Fu soprattutto sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603) che lo stato inglese protesse e favorì i corsari: con le loro navi veloci e bene armate, costoro assalivano e depredavano i galeoni spagnoli, carichi di merci, oro e ar­gento. Il più noto fu Francis Drake, che la regina onorò con titolo di sir (baronetto).

Il peso economico della pirateria fu davvero notevole: nel Cinquecento il 15% del commercio inglese veniva dalla vendita di merci che i corsari avevano depredato. In seguito l’Inghilterra decise di fondare delle colonie nell’America settentrionale. Quindi, attraverso due leggi, gli editti di Navigazione, assicurò alle navi inglesi il monopolio del commercio marittimo col Nord America. Fece poi rispettare rigorosamente questa proibizione con la potenza della sua flotta da guerra. In generale l’Inghilterra cercò di impegnarsi il meno possibile nelle guerre europee che, in seguito, avrebbero dissanguato Francia e Spagna. Quando lo fece, non mirò ad acquisire nuovi territori nel continente, ma ad assicurarsi nuove colonie o ad ottenere trattati che favorissero i suoi commerci. Con la potenza della sua flotta e con l’astu­zia spregiudicata della sua politica, l’Inghilterra finì per superare la sua grande rivale sui mari, l’Olanda, sostituendola nelle colonie in America (l’olandese New Amsterdam fu ribat­tezzata New York), nelle Indie Occidentali (Giamaica) e in Africa (Città del Capo).

La Francia

La Francia, che nel Cinquecento fu impegnata in lunghe guerre, si dedicò con notevole ritardo alle conquiste coloniali. Fra Sei e Settecento furono tuttavia create colonie francesi in America (Canada, Louisiana, Antille), in Africa (Senegal, Madagascar, Guinea), nel Bengala (l’odierno Bangladesh) e in India.
Tuttavia la Francia rimase soprattutto impegnata nelle guerre per il dominio dell’Europa: così in tutta l’America settentrionale, a metà Settecento, si contavano solo 90.000 francesi, mentre nei territori di lingua inglese si trovavano oltre un milione di abitanti. Anche per questo motivo la Francia perse, a favore dell’Inghilterra, il Canada e i territori dell’India. Infine, nell’età di Napoleone (1803), vendette la Louisiana agli Stati Uniti.

    da http://www.scuolascacchi.com/storia_moderna/scoperte.htm

 

MODULI DI STORIA CLASSE 3^, DOCUMENTI