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L'agricoltura: aspetti tecnici
La sistemazione dei terreni agricoli e le varie fasi dell'attività agricola - Le antiche tecniche di coltivazione del riso


Le vocazioni ambientali del territorio e l'intervento umano
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Riparliamo ancora una volta dell'agricoltura del Vercellese, ma questa volta per individuare i momenti di cesura storica, che hanno portato a nuove forme di utilizzazione del territorio. Tali interventi sono essenziali da individuare per caratterizzare anche le fasi di trasformazione dell'habitat. L'analisi tratta dal testo, più volte citato, di Giuseppe De Matteis, fa riferimento per quanto riguarda la panoramica delle produzioni dell'area vercellese ai dati ISTAT del censimento del 1961 e pertanto può considerarsi ampiamente datata come rilevazione statistica, ma del tutto significativa per inquadrare una fase storica della nostra economia agricola alla vigilia del miracolo economico.

L'agricoltura della pianura vercellese presenta caratteri particolari, affermatisi in contrasto con certi aspetti sfavorevoli dell'ambiente naturale. L'opera di bonifica necessaria per questa trasformazione fu stimolata dai forti redditi offerti negli ultimi due secoli dalla coltivazione del riso, che perciò si diffuse in quasi tutto il territorio, sin ad occupare la metà della superficie agraria.

Il riso fu introdotto nella zona verso la fine del Quattrocento e per due secoli fu coltivato estensivamente e stabilmente nei terreni acquitrinosi o facilmente allagabili. La risaia stabile richiedeva solo elementari operazioni di semina e di raccolta, per cui occupava poche braccia e non obbligava a stabilirsi sui fondi; ciò anzi era evitato a causa della malaria. Vari provvedimenti legislativi vennero presi a partire dal '500 contro l'estendersi di questa coltura, ritenuta contraria alla salute pubblica e allo sviluppo demografico, ma essi furono per lo più elusi dai grossi proprietari assai influenti e si ridussero poi sempre più quando, con l'aumento della produttività, il riso divenne la base dell'economia della regione.
Verso la metà del '700 la superficie occupata dalla risaia copriva appena il 7% dell'antica provincia di Vercelli (corrispondente grosso modo al nostro territorio, esclusa la pianura biellese). La produttività media era bassissima: 7,3 ettolitri di risone per ettaro, mentre nella vicina Lomellina se ne producevano già 13,1. Il catasto del 1800 dà il 25% di risaia, cifra che però il Pugliese ( 2 ) ritiene esagerata. Resta il fatto che accanto alla risaia stabile s'inizia in questo periodo la pratica degli avvicendamenti e dei riposi, con cicli di 5-7 anni, ( 2-3 anni riso, poi meliga, riposo e grano ).
 La coltura si intensifica e si estende sempre più durante tutto l'800. Questi progressi sono legati all'ampliarsi del mercato, che permise lo sviluppo della monocoltura. Essi vennero conseguiti soprattutto grazie alla costruzione di canali, allo sboscamento e allo spianamento dei terreni.
La crisi del 1885 stimolò l'introduzione di altre innovazioni tecniche, che fecero ancora aumentare la produttività. Nei primi decenni di questo secolo si migliorò ulteriormente la tecnica delle rotazioni, raggiungendo, nella ripartizione della superficie dell'azienda, una estensione di 2/3 di riso, grazie anche al nuovo sistema del trapianto, che permette un più rapido avvicendamento e un supplemento di prodotto foraggiero tra un raccolto di riso e il successivo. Aumentò in tal modo anche il bestiame, con vantaggi per la concimazione. Nel 1914 la superficie a riso coprì 68.000 ha e il rendimento fu di 31,6 q/ha.

Già alla fine del medioevo esisteva nel Vercellese una buona rete di canali. Queste opere avevano lo scopo di rendere irrigui i terreni dell'alta e media pianura, dove allora l'agricoltura era assai più praticata che non nella bassa. Nel '600 -'700 molti antichi canali erano andati in rovina per l'incuria dei proprietari. Fu la coltivazione del riso a stimolare la ripresa delle opere di bonifica, prima ad opera di capitalisti privati, poi, dopo l'unificazione, con intervento finanziario dello Stato, che avocò al Demanio le acque di irrigazione della bassa pianura e ne intensificò la rete, specialmente in seguito alla costruzione del grande canale Cavour (1863-66). In seguito a questa trasformazione la superficie coltivata a riso salì a 42.000 ettari, con una produzione unitaria di 22 quintali/ha.
La pratica dei sovesci, l'aratura più profonda, l'uso dei concimi chimici, la selezione delle sementi permisero di raggiungere tra le due guerre un livello di produttività oscillante a seconda delle annate da 46 a 53 q/ha. Anche la superficie coltivata si fissò in questo periodo intorno ai 50.000 ha, con punte massime di 57.403 ha nel 1941 e di 61.100 ha nel '54, che non si poterono sostenere.

Ai fini dell'analisi dell'habitat rurale è importante sottolineare come la quantità e la continuità delle operazioni richieste da questa coltura, in seguito al suo intensificarsi ( arginatura, concimazioni, aratura, erpicatura, zappatura, slottatura, semina, trapianto, sarchiatura, irriga­zione, monda, taglio, trebbiatura, essiccazione ), aggiunte a quelle necessarie per le coltivazioni avvicendate e per l'allevamento degli animali, portarono gradualmente alla formazione di quel tipo particolarmente complesso di abitazione rurale, connesso con la grande azienda, che è la grossa « corte » della piana vercellese.

L'area in cui si coltiva il riso non si limita però alla parte centrale del territorio, dove domina la grande azienda, ma si estende a tutta la bassa pianura, a buona parte di quella media, fino a comprendere quasi tutta la zona della baraggia. Lo sviluppo dell'irrigazione, avutosi in quest'ultima, è in gran parte connesso alla coltura del riso, che nei terreni baraggivi irrigui presenta minori difficoltà di sviluppo che non altre coltivazioni e, se da un lato è ostacolata dalla più bassa temperatura delle acque e dalla eccessiva compattezza dei terreni, è invece favorita dalla impermeabilità di questi, che con opportuni lavori si prestano ad essere facilmente allagati ( 3 ). Tuttavia la produzione unitaria di questi terreni è stata inizialmente appena di 35-40 q/ha, alquanto inferiore ai 50-55 q/ha che si ottengono nella bassa pianura. Vi sono poi zone della baraggia ancor oggi incolte, per cui nell'alta pianura la superficie agraria è il 77,5% della totale, con l'11% di incolto produttivo. 

L'azienda basata sulla risicoltura è dominante solo nella parte centrale del nostro territorio. Nelle parti periferiche l'economia agraria è fondata ancor oggi, oltre che sul riso, sulle colture non specializzate comuni a tutta la pianura piemontese: grano, mais, foraggi da semina, mentre a Saluggia è particolarmente diffusa la coltivazione dei fagioli. La coltura del riso non è praticata nella parte sub-morenica della media pianura, nella zona più prossima al Po e si spinge solo in un breve tratto inferiore della pianura biellese. Nei seminativi di queste zone, dette della coltura asciutta, si ha solitamente l'avvicendamento quadriennale: granoturco, frumento con trifoglio, prato di trifoglio e loietto (prato).
Alla coltivazione dei cereali inferiori, assai più resistenti, è legata del resto la prima colonizzazione del territorio, che fino al '700 si rivolse soprattutto verso la media pianura. Nel 1635 il Della Chiesa ( 4 ) indicava come aree di buona produzione solo quelle poste intorno a Cigliano, Tronzano, Santhià e tra S. Germano e il Sesia, oltre a quelle intorno al Po. A metà del '700 le terre incolte coprivano ancora l'11% del territorio. Il grano poi rendeva solo 6-7 volte la semente. Anche l'agricoltura delle zone non risicole ebbe un buon sviluppo solo a partire dal secolo scorso. La coltivazione del granoturco fu introdotta nel XVII secolo e nella alimentazione del ceto rurale prese un posto importante accanto ai cereali inferiori, per ridursi poi negli ultimi decenni alla alimentazione degli animali.

La maggior parte dei foraggi prodotti nella pianura vercellese proviene dai prati da vicenda, che entrano in rotazione con il riso e con il grano.  Nella maggior parte della pianura vercellese la produzione di foraggi rimane in sottordine a quella del riso ed ha minor importanza che non nella restante pianura piemontese. Di conseguenza l'allevamento del bestiame non vi ebbe mai grandissimo sviluppo. Esso fu sempre rivolto prevalentemente alla produzione di latte, anche se nel secolo scorso, con l'intensificarsi delle operazioni colturali, crebbe il numero delle bestie da lavoro (buoi e cavalli).
Il Pugliese calcola che alla metà del XVIII secolo si avesse un capo di bestiame grosso ogni 4-5 giornate nelle zone di coltura asciutta e uno ogni 7 nelle zone di risaia a 1/3. I prodotti della stalla erano infatti del fittavolo e il
proprietario non concedeva volentieri un ampliamento del pascolo e della coltura foraggiera. Questa scarsezza di bestiame nella grossa proprietà era in parte compensata dalla possibilità dei piccoli proprietari di possedere qualche capo, tenendolo per sette mesi dell'anno sui pascoli del comune.

Con l'affermarsi delle rotazioni di cereali e foraggi, l'importanza crescente del bestiame nella media e grande azienda portò a un notevole sviluppo dei fabbricati di questa, sia per il numero e l'ampiezza delle stalle, sia per la necessità di locali per la lavorazione del latte, sia infine per l'alloggio delle famiglie di salariati specializzati in queste operazioni ( bergamini, manzolai, bovari, casari, cavallanti ). Secondo i dati del 1° censimento dell'agricoltura (1961) vi sarebbero nella nostra zona 58.913 bovini (di cui il 51,1% da latte), ma solo il 3,7% delle aziende agrarie risulta esserne provvisto.
Le aziende senza bovini sono in genere le più piccole
e corrispondono ai tipi di casa rurale privi di stalla e fienile.
 Nella grande azienda l'allevamento delle razze lattifere è negli ultimi anni in crisi, per la quantità di mano d'opera che richiede e il basso prezzo del latte. Tutto ciò ha portato a una nuova trasformazione negli edifici della media e grande azienda, con la scomparsa e la riduzione delle stalle e delle scuderie, già occupate dal bestiame da lavoro, il rammodernamento delle altre in seguito all'introduzione di razze scelte assai più delicate, l'ampliamento dei fienili corrispondente alla graduale riduzione del periodo del pascolo.
Sebbene in diminuzione, è ancora elevato il numero di suini allevati nella pianura vercellese (12 per Kmq). Gli equini, pur essendo notevolmente diminuiti, non sono del tutto scomparsi (5.612 capi nel 1961) e continuano ad essere utilizzati per certi lavori accanto ai mezzi meccanici.

La meccanizzazione è nella nostra zona uno degli aspetti principali della più recente evoluzione dell'agricoltura. I trattori dal 1955 al 1959 sono saliti da 1.984 a 3.047. In tutta la provincia di Vercelli il consumo dei carburanti è passato da 37.048 quintali nel 1951 a 78.133 nel 1961. L'introduzione delle macchine si estende ormai anche alla piccola azienda. Ciò comporta rilevanti trasformazioni dei fabbricati con la riduzione dei locali di abitazione dei salariati e lo sviluppo delle rimesse e delle tettoie. Anche la scomparsa del pagliaio è legata all'introduzione delle macchine che pressano la paglia e permettono di immagazzinarla al coperto.

Altre coltivazioni praticate nell'area

Una certa importanza ebbe nei secoli scorsi la coltivazione del gelso e l'allevamento dei bachi da seta. Nel 1742 solo tre comunità del Vercellese non producevano bozzoli, mentre a Crescentino la produzione arrivava a 1183 rubbi annui (10,9 q ). In tutti i grossi cascinali della bassa pianura vi erano locali appositi per l'allevamento dei bachi, affidato ai salariati fissi, che ne dividevano il prodotto col padrone. Quest'attività nella nostra zona scomparve quasi del tutto già fin dal secolo scorso, con l'estendersi dell'irrigazione che danneggiava i gelsi e per il coincidere della monda con le operazioni sui bachi.
Altre colture ora scomparse, che davano luogo anche alla lavorazione dei prodotti ( e quindi giustificano l'esistenza di appositi locali ora destinati ad altri usi ), sono quelle del ravizzone e del noce per la produzione dell'olio e quella della vite. Quest'ultima ebbe anticamente grande diffusione persino nella bassa pianura, dove veniva coltivata in alteni. Con il secolo scorso si ridusse alle parti superiori dell'alta pianura, dove oggi è pochissimo praticata. La produzione legnosa del Vercellese, per tanti secoli occupato da vaste foreste, è oggi assai scarsa. Nella bassa pianura predomina il pioppo ma i filari nella risaia sono radi, anche perché la germinazione del riso richiede grande quantità di luce. La coltura specializzata del pioppo si va invece affermando nelle zone parafluviali a scapito delle coltivazioni tradizionali. Nell'alta pianura si ha ancora il 4,5% di superficie forestale, produttiva di querce, ontani, carpini e aceri. Il bosco comunale, di cui ci resta un esempio presso Trino ( bosco della Partecipanza ), aveva un tempo grande importanza per i ceti rurali più poveri che vi godevano il diritto di pascolo e di legnatico, onde ancor oggi nella casa del bracciante la legnaia è l'elemento più sviluppato dopo i locali di abitazione.
 


  Fonti bibliografiche:
- ( 1 ) De Matteis, La casa rurale nella pianura vercellese e biellese, estratto da Studi geografici su Torino e Piemonte, n°2, 1965
- ( 2 ) S. Pugliese, Due secoli di vita agricola. Produzione e valore dei terreni. Contratti agrari, salari e prezzi nel Vercellese nei secoli XVIII e XIX, Torino 1908
- ( 3 ) L. Borasio, Il Vercellese, 1929
- ( 4 ) A. Della Chiesa, Relazione dello stato presente del Piemonte, Torino 1635
 

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