Il tema della follia


La pazzia di Orlando, incisione del 1604


Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.
 
Orlando furioso, I, 2, vv. 1-8.
 

 

Il Furioso presenta il più valoroso paladino che, per amore di Angelica, abbandona i doveri di cavaliere, si pone alla ricerca della fanciulla, addirittura impazzisce quando scopre che l’amata si è concessa all’umile fante Medoro. La maggior parte del poema presenta Orlando preda della pazzia, quasi simile a una belva: egli ha perso l’uso della parola, vaga per le selve nudo, dorme sotto le stelle, usa la forza contro piante, animali, uomini.

Nel poema sono poi descritte le follie di altri personaggi: la disperazione di Rinaldo, la gelosia di Bradamante, l’ira smisurata di Rodomonte… L’ottava sopra riportata mostra inoltre che lo stesso poeta è vittima della follia amorosa, similmente ad Orlando. Ariosto afferma che tutti sono pazzi, e il senno si raccoglie sulla Luna, dove si reca il paladino Astolfo a recuperare quello di Orlando. Il Furioso è il poema non dell’armonia, ma della dissonanza e della follia.
 

Le arti figurative hanno affrontato il tema. Le rappresentazioni riguardano:

 

 

 


Albrect Durer, Melancolia, 1514
 




Giuseppe Bezzuoli, Follia che guida
il carro d'amore, XVIII secolo

Il tema della pazzia nell'età rinascimentale

Pazzia, da pazzo, deriva dal latino "patiens": 'paziente', in senso medico. I Romani designavano il concetto di pazzia prevalentemente con tre termini: "dementia", "insania", "stultitia".  Il tema della pazzia ricopre un’importanza straordinaria nella cultura umanistico-rinascimentale, con la presenza di due testi fondamentali, Encomium moriae ("Elogio della pazzia") di Erasmo da Rotterdam e Orlando furioso di Ludovico Ariosto (con l’episodio del viaggio di Astolfo sulla luna, narrato nel canto XXXIV). L’interpretazione tipica della follia nel classicismo quattro-cinquecentesco è un’interpretazione paradossale: il segno della follia è il sintomo di una duplicità, di una contraddizione, di una inquietudine morale che scompiglia il tradizionale assetto pazzia-saviezza ( Mondo, Savio e Pazzo sono interlocutori di uno dei più famosi dialoghi dei Mondi e gli Inferni di Anton Francesco Doni). La follia diviene per la prima volta portatrice di una forza conoscitiva straordinaria che rivela come la vera mancanza di senno sia da cercare piuttosto tra i cosiddetti "savi", dotati di certezze incrollabili e di punti di vista unilaterali, che non presso i "pazzi", in grado di assecondare in modo più veritiero la propria coscienza e le proprie pulsioni. 
Totalmente "paradossale" è l’impostazione di Erasmo, per il quale la follia è segno di conoscenza e di consapevolezza razionale: egli condanna la demenza del mondo che, spinto dall’avidità, rincorre falsi valori e tesse le lodi di quella superiore "follia" (tale solo agli occhi del mondo, essendo in realtà suprema saggezza) che spinge il cristiano a fare della fede esercizio di vita. 
Sulla linea della contraddizione e del paradosso è anche Ariosto. In Orlando furioso XXIV.1 si legge:

«E quale è di pazzia segno più espresso/
che, per altri voler, perder se stesso?»

e all’ottava succesiva:

«Varii gli effetti son, ma la pazzia/
è tutt’una però, che li fa uscire».


Orlando pazzo fa "incredibili prove", è fuori di senno: alle radici della sua "insania" vi è il desiderio amoroso per Angelica. L’impazzimento del paladino arriva quando Orlando giunge nei luoghi che hanno ospitato l’amore tra Angelica e Medoro. E’ quindi un’"insania" scaturita da gelosia, una demenza d’amore. Il senno di Orlando, finito sulla luna (nel vallone dove si trova tutto ciò che gli uomini comunemente perdono già presente in una delle Intercenalidi Leon Battista Alberti, Somnium), viene ripreso da Astolfo e restituito al paladino nel canto XXXIX. 

Alessandro Capata
in http://www.italica.rai.it/rinascimento/categorie/pazzia_follia.htm
 


P. Bruegel, Greta la pazza ( Dulle Griet ), 1562- 1563

Il dipinto rappresenta Greta la pazza, personificazione della strega, armata di spada, di corazza, di guanto metallico e di un elmo che si prepara all'assalto dell'inferno: un monito per quanti insistono nel vizio al punto da perdere la ragione. La donna stringe sotto il braccio un piccolo forziere con il bottino e regge due panieri e una sacca contenente coppe, padelle, un coltello e una cinghia.
 

Follia e pittura

"Da un lato Bosch, Brueghel, Thierry Bouts, Durer e tutto il silenzio delle immagini. È nello spazio della pura visione che la follia dispiega i suoi poteri. Fantasmi e minacce, pure apparenze del sogno e destino segreto del mondo. La follia detiene in questo caso una forza primitiva di rivelazione. Rivelazione che l’onirico è reale, che la sottile superficie dell’illusione si apre su una profondità innegabile, e che il momentaneo brillio dell’immagine lascia il mondo in preda a simboli inquieti che si eternano nelle sue notti, e rivelazione inversa, ma altrettanto dolorosa, che tutta la realtà del mondo sarà assorbita un giorno nell’Immagine fantastica, nel momento intermedio dell’essere e del nulla che è il delirio della pura distruzione, il mondo già non è più, ma il silenzio e la notte non si sono ancora chiusi del tutto su di lui, esso vacilla in un ultimo scoppio, in un estremo disordine che precede immediatamente l’ordine monotono del compimento. È in questa immagine subito abolita che giunge a perdersi la verità del mondo. Tutta questa trama dell’apparenza e del segreto, dell’immagine immediata e dell’enigma non svelato, si dispiega nella pittura del XV secolo come la tragica follia del mondo.

 Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, 1963

in http://lessness.splinder.com/archive/2006-02

 

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