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L'evoluzione della ricerca pittorica di Carlo Carrà.
Dalla Milano futurista, all'incontro con il cubismo e con la metafisica

● Dal divisionismo al futurismo

La lunga esperienza artistica di Carlo Carrà si sviluppa nei primi venticinque anni del Novecento come ricerca originale di un linguaggio pittorico coerente con la sua idea di arte moderna, evitando di aderire stabilmente ai dettami delle avanguardie e non riuscendo, sostanzialmente, a condividere con altri artisti le svolte estetiche, che rendono invece originale e significativa la sua opera. Il tema della città - anche se caratterizza soprattutto la fase futurista, che si conclude alla vigilia del primo conflitto mondiale con la fine del sodalizio con Boccioni - permane come una costante nella sua produzione, anche se si coniuga in forme molto diverse: dal divisionismo dinamico delle piazze milanesi, alle sintesi futuriste che affiancano il Manifesto di Marinetti, agli scenari cubisti del 1912 - 1913, ai collages paroliberi, fino alle visioni metafisiche del poeta-pittore, che dal suo studio evoca un rapporto tutto mentale con il mondo esterno. Ed infine le ultime conversioni a valori plastici ed al realismo mitico, che recuperano i valori prospettici  della pittura giottesca e rinascimentale italiana, traducendo in forme arcaicizzanzi ed astratte paesaggi, spazi e piani costruttivi.

Se Uscita da teatro (1909 ) e Piazza del Duomo a Milano (1909 ) testimoniano ancora una sensibilità divisionistica per gli effetti di rifrazione della luce, pure si va già affermando una nuova concezione dello spazio, dove tutto si mescola, con un colore denso ed una pennellata fibrosa, in una visione sincronica. Immagini cariche di fascino, dove il movimento della città moderna viene espresso nella felice combinazione di danzanti linee oblique.

Anche Piazza del Duomo a Milano è una veduta che parte dagli intenti divisionisti del primo Carrà. Frequentatore della Galleria Grubicy egli guarda soprattutto a Segantini e a Previati, nella cui pittura scorge vivi fermenti di rinnovamento artistico e sociale. L'individuazione delle componenti umane della folla è qui annullata, mentre si intuiscono piuttosto rumori, spostamenti caotici delle persone, tensione nell'atmosfera urbana rischiarata artificialmente dalle luci della piazza. Il divisionismo, a contatto delle atmosfere urbane, sembra orientare a nuove ricerche sulla resa di movimenti di soggetti collettivi.

Il tema si ripropone in Notturno in piazza Beccaria ( 1910 ) dove la luce elettrica ed il tramwai rischiarano la buia atmosfera di Milano, facendo sembrare le sagome umane pure apparizioni spettrali. Qui è rintracciabile una sensibilità divisionista ormai radicalizzata con l'inclusione del concetto di ritmo e di flusso nel dispositivo dei colori e nella concezione formale.
Dopo il 1911 spazio e tempo vengono definitivamente annullati trascinati nel vortice di roteanti composizioni.

" Canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano;...le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio.  Il Tempo e lo Spazio morirono ieri Noi viviamo già nell'Assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente "
( da F.T. Marinetti Manifesto del Futurismo, 1909 )
 

Così ne La stazione di Milano, 1911, dove la struttura dello spazio diventa più frammentata. L'artista rappresenta un aspetto della vita cittadina attraverso il coinvolgimento nello spazio atmosferico delle tensioni dinamiche. I colori scuri, ravvivati da poche macchie luminose, tendono a fondersi in una visione unica, dove la rappresentazione del dinamismo si muove secondo uno schema di forze centrifughe.
 








C. Carrà, Uscita da teatro, 1909

 

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C.Carrà, Notturno in piazza Beccaria, 1910

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C. Carrà, Piazza del Duomo di Milano, 1909




C. Carrà, La stazione di Milano, 1911

 


C. Carrà, Quello che mi ha detto il tram, 1911

E' il 1910 l'anno in cui Carrà incontra Marinetti, poeta, intellettuale, scopritore di talenti ed organizzatore di cultura, che aveva pubblicato due anni prima (1909) il Manifesto del Futurismo. Costui lo convince a lasciar perdere con paesaggi e luminosità ottocentesche per impegnarsi in una battaglia di avanguardia contro l'accademismo ancora imperante a favore di un'arte in tutto e per tutto moderna. Nel 1910 con Boccioni, Russolo e Severini, Carrà dà vita al " Manifesto dei pittori futuristi", che teorizza l'interesse per i valori plastici e per il dinamismo. Il quadro abbandona ogni simbolismo pittorico di tipo divisionista e inaugura il concetto di simultaneità dinamica degli stati d'animo, che portano l'artista a rappresentare la sensazione ( o emozione ) della realtà nel suo continuo riproporsi al soggetto.
Si ha così "lo smembramento degli oggetti, lo sparpagliamento e la fusione dei dettagli". Si ha altresì una riproduzione ottico-schematica del movimento: "la vibrazione ed il movimento moltiplicano innumerevolmente ogni oggetto"

C.Carrà, Sobbalzi del fiacre, 1910 - 1911

L'artista rappresenta un frammento della vita cittadina attraverso il coinvolgimento nello spazio atmosferico delle tensioni dinamiche prodotte dal moto di una carrozza. I colori tendono a fondersi in una visione unica, dove gli oggetti e le persone rimangono tuttavia riconoscibili.
 


C.Carrà, Quel che mi ha detto il tram, 1910 - 1911

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C.Carrà, Sobbalzi del fiacre, 1911

● L'incontro con il cubismo

 I futuristi vengono a contatto diretto con i cubisti in occasione della loro mostra a Parigi nel 1912. Carrà conoscerà tra gli altri Braque, Picasso e Modigliani. In numerosi scritti i pittori italiani sottolineeranno la diversità tra la loro ricerca di rappresentazione degli spazi prospettici  ( tesa a coinvolgere anche il movimento degli oggetti ) e quella più statica e strutturale dei colleghi francesi.

In Donna al balcone, 1912 .- 1913 e in La galleria di Milano, 1912 la struttura dello spazio diventa più frammentata ed è evidente l'interesse di Carrà verso il cubismo. Egli sembra voler allargare la spazialità del dipinto, semplificando ed alleggerendo la composizione, che si organizza in  movimento meccanico e in colorismo metallico, ricordando i quadri cubisti di Leger. Il soggetto richiama anche due opere di Boccioni del 1911 La strada entra nella casa e Visioni simultanee, che tuttavia sfruttano un colorismo molto più aggressivo e applicano la teoria futurista delle linee - forza
 

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C. Carrà, Donna al balcone, 1912 .- 1913


C. Carrà, La galleria di Milano, 1912

 

● La svolta metafisica: meditazioni e visioni ermetiche della condizione umana

Ad annunciare la svolta metafisica dopo il periodo futurista, cubista  dei collage paroliberisti  abbiamo un quadro del 1916: Composizione TA. Tutte le esperienze precedenti sono recuperate,  scoprendo la possibilità operare una fusione delle diverse scritture, attraverso una sintesi, che agisce in senso metafisico.

La svolta metafisica di Carrà - favorita dall'incontro a Ferrara con Giorgio De Chirico, il fratello Antonio Savinio e De Pisis - non è tuttavia una semplice reazione ai suoi trascorsi futuristi. Essa è determinata dalla convergenza di parecchie aspirazioni. La prima è la definizione di una "nuova immagine dell'arte", mediante la quale egli afferma l'indivisibilità della coppia stabilità / movimento, che significa anche la stretta interdipendenza tra modernismo e tradizione. La seconda è la reintroduzione dei valori tipici della pittura italiana del primo Rinascimento, con la conseguente accezione dello spazio secondo la geometria euclidea, l'architettura delle forme essendo la principale fonte di significato. La terza aspirazione di Carrà sta nel bisogno di riaffermare una dimensione spirituale nelle opere artistiche, assente nel naturalismo della seconda metà del XIX secolo e ancor più nelle opere d'avanguardia dell'inizio del XX. Carrà avanza l'ipotesi che tale dimensione debba realizzarsi nell'estrapolazione delle forme dai fenomeni sensibili. In definitiva egli prevede l'ipotesi che la pittura sia una pura operazione mentale, applicando al suo pensiero la formula di Giambattista Vico, secondo cui: « Il vero poetico è un vero metafisico a petto del quale il vero fisico qualora non gli si conformi deve ritenersi per falso». Egli si giustifica  del prestito dal filosofo napoletano dicendo:
 «Ho interpretato questa frase di Vico attribuendole il significato che il mondo delle apparenze degli oggetti non giunge alla sua autentica realtà che in conspectu aeternitatis, sotto forma di allegoria metafisica della sua realtà fisica, che altro non è che un incidente offerto quasi per caso alla percezione dei nostri sensi».

I dipinti e le opere su carta generate da questi pensieri sono caratterizzati essenzialmente da un misterioso carattere esoterico, se non ermetico ( Non si tratta più di rappresentazione nel senso classico, vale a dire in riferimento al mondo reale ( a ciò che si chiama Natura ), ma di complesse associazioni di idee e di immagini: «Cercavo nelle mie tele [...] di creare una sintesi di forme che avesse dei sottintesi di carattere metafisico, come in una realtà percepita nella meditazione o nel sogno». È evidente che l'attività del pittore e la sua produzione sono vissute e trasmesse in ciò che hanno di più taumaturgico e magico, come espressione superiore dello spirito umano, come teatralità della cultura.
 


C.Carrà, Composizione TA, 1916
 


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C.Carrà, La camera incantata, 1917
 

La musa metafisica, 1917 è particolarmente esemplificativa di questa scelta. L'opera è stata composta, insieme ad altre, nel periodo di forzosa immobilità trascorso in un ospedale militare presso Ferrara, dove,  nella sua stanzetta, gli è concesso di dedicarsi alla pittura ed esprime con nitida chiarezza il senso della poetica metafisica.
Nello spazio chiuso della stanza si stagliano in un apparente disordinato accumulo oggetti-emblema di stati d'animo, di ricordi, di associazioni oniriche. Il quadro  che rappresenta un paesaggio urbano, la cassetta con la carta geografica in rilievo e il bersaglio, il grande prisma policromo, l'enigmatica figura della giocatrice di tennis, il cui aspetto oscilla fra la statua antica e il manichino ( la sua testa vuota di organi suscita un innegabile turbamento ), la prospettiva accelerata, le aperture che danno su uno spazio uniformemente nero, sono elementi che si uniscono tutti a comporre un reticolo sottile e labirintico di tropi figurativi.
L'opera si ricollega certo ad una meditazione più generale complessa e strutturata espressivamente sulla riunione allegorica di uno spazio interno ( la stanzetta, sorta di camera incantata del pittore ) e di una serie di spazi esterni, evocati nelle forme inusuali degli oggetti  ( il paesaggio urbano del quadro, le terre emerse nella carta geografica, la presenza disumanizzata della tennista, il solido poliedrico come richiamo alla pluralità prospettica del reale )

 “Intanto la vita d’ufficio mi diventava sempre più insopportabile e parallelamente anche lo stato della mia salute peggiorava, finché si rese necessario ricoverarmi in un nevrocomio fuori Ferrara. Il direttore dell'ospedale, vero scienziato in materia di malattie nervose, mi usò molti riguardi e mi fece assegnare una cameretta acciocché io potessi dipingere, pensando egli giustamente che oltre le cure mediche il lavoro a me caro avrebbe contribuito a rinfrancarmi nel fisico e nel morale. In questa camera dipinsi: Solitudine, La camera incantata, Madre e figlio e la Musa metafisica

Quasi una terapia dunque la musa metafisica che si configura come evasione poetica dalle ore di desolazione militare e diventa una forma di resurrezione creativa.

L'evoluzione della poetica metafisica di Carrà è contrassegnata da un semplificarsi degli elementi pittorici, fino a ridurli ad una emblematica essenzialità. Ne La figlia dell'Ovest, ( 1919 ) pur in presenza di alcuni elementi comuni all'opera del 1917 ( la tennista, icona statuaria del gioco del vivere, le fredde architetture urbane, le forme geometriche accampate nello spazio di fondo...) scompare il ricco assieparsi di oggetti che evocano il rapporto con l'esterno, mentre la realtà naturale assume l'aspetto illusorio di un fondale da teatro,  falsamente luminoso e solare, mentre il volto del manichino si rattrappisce in una minuscola appendice oscura a testimoniare l'estraneità del soggetto alla vita delle cose.
 

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C. Carrà, La musa metafisica, 1917
 


C. Carrà, La figlia dell'Ovest, 1919
 

● Da Valori plastici al realismo mitico

Non meno importante la correzione di rotta che si determina nella poetica di Carrà attorno agli anni Venti, che porterà a Valori plastici, con una transizione verso il recupero del classicismo e della tradizione. Una anticipazione delle nuove posizioni è rilevabile in certi scritti dello stesso Carrà apparsi fin dal 1919 nel libro Pittura metafìsica, quando il pittore mostra di puntare tutte le proprie carte sulle "cose ordinarie". Dice Carrà:

«Col progresso degli anni cresce, non sminuisce, questa abitudine di cercare la nostra armonia nelle cose che ci circondano, perché noi sentiamo che se dimentichiamo il reale perisce ogni ordine e proporzione e quella giusta valutazione della vita e dell'arte che alla fine, per chi vi si attiene, significa chiamare ancora una volta le cose coi nomi loro. Sono le cose ordinarie che operano sul nostro animo in quella guisa così benefica che raggiunge le estreme vette della grazia... Per cui noi opiniamo che una tale pacata felicità sia la più elevata ebrietà inventata dall'uomo; e che l'abbia inventata soltanto un uomo il quale abbia molto osservato, molto meditato e anche molto sofferto».

Ne L'amante dell'ingegnere, 1921 Carrà affronta in questa tela una tematica ancora metafisica, in un nuovo rapporto tra forme e spazi prospettici. Siamo in un momento in cui l'autore è interessato a una maggiore concretezza plastica e naturalistica, che paradossalmente si realizza per sottrazione di molti elementi dell'accumulo metafisico.
La ricerca diviene più rigorosa e razionale
( sottolineata simbolicamente dalla squadra e dal compasso ) e si affianca al bisogno di ordine mentale, di chiarezza ma anche di comunicazione. Lo spazio di fondo è notevolmente rarefatto per far risaltare l'immagine enigmatica ( una testa femminile dagli occhi socchiusi, semplificata in un'evocazione surreale di  equilibrio e stabilità ). Lo sfondo scuro - attraversato solo da un'irreale lontana luminosità - contribuisce a privare la visione di qualsiasi contestualità, evidenziando l’assenza di tempo e di spazio e la sua sostanziale dimensione onirica. 

La casa rossa, 1926 è espressione compiuta della nuova fase di Valori plastici, poi elaborata nella semplificazione arcaizzante del realismo mitico. Alla base di questa nuova poetica innanzitutto il problema del preminente valore plastico  della pittura, che è prima volume che moto, con il deciso recupero prospettico, che in quegli anni caratterizzerà anche la pittura di Morandi. Il recupero della prospettiva si può interpretare appunto come l'elemento che orienta l'artista sul   ".. valore, non solo stilistico, ma umanamente sacrale delle forme " ( F. Arcangeli  )
Carrà recupera in effetti la lezione di Giotto, Masaccio, Paolo Uccello e Piero della Francesca ma solo come segreta forza irradiante verso esiti di astrazione formale. Egli tende a sviluppare la forma completamente dal dato oggettivo approdando ad una forma di arcaismo tutta particolare. Arcaismo per Carrà significa definire, attraverso la massima semplificazione, l'essenza stessa delle cose, nel disegno più semplice di questa forma.
Piani prospettici di ascendenza classica, arcaismo delle forme, astrazione ( richiamata dal vaso e dal parallelepipedo in primo piano, oggetti di un interno ancora metafisico ) sono le componenti di  La casa rossa
 

«La pittura deve cogliere quel rapporto che comprende il bisogno di immedesimazione con le cose e il bisogno di astrazione. Sotto questo duplice stimolo il pittore potenzia la sua capacità di sottrarre le cose alla contingenza, purificandole e conferendo loro un valore assoluto. La pittura crea così una cosa nuova, una entità nuova».

 


C. Carrà, L'amante dell'ingegnere, 1921
 

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C. Carrà, La casa rossa, 1926
 

( da  M. Carrà, E. Coen, G.Lemaire, Carlo Carrà, Art e Dossier n°13, Giunti, 1987 )

 

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